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IDENTITA`SEPOLTA


ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

Xena and all characters and names related are owned by and copyright © 1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.

QUATTORDICESIMO CAPITOLO

-Comincia sempre allo stesso modo. Con la foresta e la nebbia. E' un luogo strano, sembra quasi che non appartenga a questo mondo. Anche se appare solido e concreto. Io sento la corteccia degli alberi che mi circondano, avverto l'erba sotto i calzari.
-I calzari?
Jennifer che si era giurata di non interromperla per nessuna ragione, si maledice subito per essere venuta meno al suo stesso proponimento, ma a sentire quella parola non è riuscita a trattenersi.
-Cosa? - chiede Joyce come se tornasse cosciente solo in quel momento. Come se anche solo narrare il sogno, l'avesse fatta ripiombare dentro di esso.
-Hai detto… "calzari"?
-Sì, è vero. - dice Joyce fissandola sorpresa. - Non so perché li ho chiamati così. Sono simili a degli stivali, ma hanno dei lunghi lacci legati fin sotto al ginocchio. E anche gli abiti sono strani. Indosso sempre una specie di corsetto che mi lascia scoperta la vita e un gonnellino corto. A vederli sembrano rozzi, artigianali, ma sono molto morbidi, niente a che fare con i vestiti moderni. Ma abiti a parte, la cosa che mi colpisce di più è il silenzio. In un bosco ti aspetti sempre di sentire il cinguettare degli uccelli, i fruscii di piccoli animali che corrono attraverso i rami e i cespugli. Qui, invece il silenzio è completo. Anche il rumore dei miei passi sembra assente. E' come se la nebbia inghiottisse ogni più piccolo suono. E poi, d'improvviso, sento il rumore degli zoccoli di un cavallo. E' lento, come se chi lo guida, tenesse le briglie per non fargli accelerare il passo. Io mi tendo tutta all'ascolto, ma stranamente non ho nessuna paura, perché in qualche modo so chi apparira` tra gli alberi, in sella.
-Chi?
Jennifer che ha ascoltato fino ad allora, cercando di non interrompere ulteriormente il racconto, davanti alla pausa di Joyce, non ce la fa più.
-Non lo so. - risponde la ragazza, con un tono di frustrazione. - E' sempre una forma vaga, confusa. Si muove tra gli alberi. Io cerco sempre di scrutarvi attraverso, ma non arrivo mai a distinguere niente di più dell'ombra del cavallo con qualcuno in groppa.
-Qualcuno chi? Hai detto che sai di chi si tratta.
Jennifer spera che il tremito nella sua voce non sia avvertibile.
-Nel sogno sì, lo so. Ma finisco sempre per svegliarmi a questo punto e immediatamente il ricordo mi sfugge e in pochi attimi non c'è più.
-E non ti resta niente? Un'impressione, una sensazione?
Joyce esita ancora un secondo che a Jennifer sembra interminabile.
-E' una donna, Jen. - dice infine - Ne sono sicura.
-Come puoi esserne certa?
-Non te lo so dire. Non la vedo mai chiaramente, te l'ho detto. Rimane sempre a distanza da me, come se non volesse o potesse raggiungermi. Ma è una donna, Jen, credimi.
-Joyce, tu sai chi è. - dice Jennifer.
-No, te lo giuro. - protesta la giovane, poi si ferma. - Anche se…
-Anche se…?
-Non so come spiegarmi. - Joyce sembra cercare disperatamente le parole per esprimere ciò che vorrebbe dire. - E' come se la conoscessi da sempre. - Nei suoi occhi cominciano a riaffiorare le lacrime. - Mio Dio, come è possibile?
-Joyce. - Jennifer la prende per le braccia, costringendola a voltarsi verso di lei. - Guardami, Joyce. Tu credi che sia la stessa donna di quella notte? La donna che ti ha salvata?
Joyce si passa le mani sul viso, come in preda alla disperazione.
-Non lo so, Jen, non lo so. Se è lei, da dove è venuta? Dal mio sogno? E se è vera, come ho potuto sognare qualcuno che nemmeno sapevo esistesse? Dio, c'è da impazzire.
-Joyce, il tuo sogno è cambiato dopo… sì, insomma, dopo quella notte?
Joyce resta un momento pensierosa davanti alla domanda, cercando di raccogliere i ricordi.
-Sì, in parte. - risponde poi - Comincia sempre così, ma poi è come se qualcosa mi strappasse da quel luogo e mi trasportasse in posti dove regnano il caos e la morte. Non riesco mai a vederli bene, e dopo ne ho un ricordo sempre molto confuso, ma rammento fiamme, dolore, urla. - Poi d'un tratto, lo sguardo di Joyce si fa attento come se qualcosa le fosse emersa nella mente. - Ma stanotte… - comincia.
-Stanotte? - l'interrompe Jennifer. - Vuoi dire che hai sognato anche stanotte?
-Sì. Sì, è per questo che mi sono svegliata. Non riuscivo a respirare, e ricordo la "sua" voce… Jen, la sua voce che urlava. Mi sentivo scuotere e chiamare.
-Intendi la voce di quella donna? La voce che sentisti in quel vicolo?
-Sì, Jen. Era lei, ne sono sicura e urlava un nome, come se chiamasse me.
-Un nome? L'hai capito? Te lo ricordi?
Lo sguardo di Joyce appare ora di nuovo smarrito, dopo che per un attimo aveva dato a Jennifer l'illusione di essere a un passo dalla soluzione.
-No. No, Jen. Mi pare impossibile, ma non riesco a ricordarlo. Era qualcosa come… come… Iniziava con una "o", mi pare… Ma non lo ricordo più!
E la ragazza le cade tra le braccia, scoppiando in un pianto disperato. Jennifer non può far altro che stringerla, mentre sente lentamente, dopo lunghi minuti, i singhiozzi calmarsi.
Un nome. Le parole di Joyce le bruciano nelle orecchie come acqua bollente. Un nome.
Xena?
Ma lei ha detto che iniziava con una "o". E allora? Cosa poteva esserci dietro quella storia? Un ipotesi assurda le frulla ormai nel cervello da giorni. Non è mai riuscita a darle una fisionomia esatta, e non sa nemmeno se vorrebbe dargliela. Tutta quella storia è una follia. Va contro ogni più elementare regola del buon senso e della razionalità. Certo ci possono essere decine di ragioni, una più pazzesca dell'altra, per cui una persona decida un giorno di andarsene in giro armata di spada. Potrebbe trattarsi di una mitomane, una esaltata frustrata da una vita squallida, che cerca emozioni nel costruirsi una doppia identità. Anzi, questa è sicuramente l'ipotesi più ragionevole. Ma altrettanto sicuramente non si tratta di una donna comune. Quei salti incredibili, l'urlo di battaglia, la perizia con cui maneggia la spada e quell'altra arma, il cerchio. Un'atleta? Qualcuna con un passato da controfigura nel cinema?
Poi, è sempre possibile che ci sia stata dell'esagerazione nelle descrizioni. In fondo chi sono i testimoni? Una donna, i cui ricordi sono talmente confusi da farle dubitare della sua stessa salute mentale. Una bambina, i cui parametri di giudizio su ciò che è reale e ciò che non lo è, non possono essere forzatamente i più affidabili. E un teppista da strada con trascorsi penali, che ha tutto l'interesse a infiocchettare il suo racconto per renderlo quanto più appetibile possibile per una rivista a sensazione. Non si tratta certo di testimonianze su cui confidare ciecamente. E anche il sogno di Joyce, in realtà, potrebbe non voler dire nulla. In fondo la suggestione di ciò che era accaduto, può averla influenzata al punto da farle credere qualunque cosa. Eppure… eppure…
Il professor Sutherland può essere tutto tranne che una persona suggestionabile, e lui ha riconosciuto la lingua parlata da Joyce nel sonno. Greco arcaico, ha detto. E il nome pronunciato dalla ragazza: Xena. Una guerriera dell'antica Grecia di duemila anni fa. Che rapporti ci possono mai essere tra una ragazza poco più che ventenne di oggi e una figura leggendaria vissuta due millenni prima?
Intanto i singhiozzi di Joyce sono andati attenuandosi sempre più, finchè la ragazza calmatasi, si stacca da lei e si asciuga il viso con un fazzolettino.
-Scusami. - dice - Io non so cosa mi succede. Non ho mai pianto così in vita mia. Neanche quando Mark mi picchiava nei suoi momenti peggiori, o quando è morta mia madre. Non so come spiegartelo, Jennifer. E' come se mi avessero strappato una parte di me e io avessi sempre vissuto senza rendermene conto, e solo ora cominciassi a esserne consapevole. Sento un vuoto terribile, Jen, dentro, nel profondo. E non so perché.
Jennifer le accarezza i capelli dolcemente.
-Non devi scusarti. Non c'è nulla di cui tu debba scusarti. Io sono qui proprio per questo. Per aiutarti. E non ti abbandonerò finche` non ci saro` riuscita.
Joyce trova la forza di sorriderle e le stringe le mani nelle sue con gratitudine.
-Joyce, ascolta - chiede Jennifer, dopo una breve esitazione - sei proprio sicura di non ricordare altro dei tuoi sogni? Mi hai detto che senti urla, dolore. Non riesci a precisare un po' meglio queste sensazioni?
-No, mi dispiace. Mentre sogno, mi pare di viverle, tanto sono intense, ma subito dopo, al risveglio, svaniscono in pochi attimi, lasciandomi solo vaghi ricordi. Solo la foresta e il cavallo li ricordo bene.
Jennifer si china verso di lei
-Facciamo una prova, Joyce. Ma se ti senti a disagio, dimmelo subito, va bene? E io interromperò.
Joyce la guarda perplessa.
-Che vuoi che faccia?
-Mi hai detto che una delle sensazioni che hai provato è stata il dolore. Cosa intendevi esattamente? Un dolore fisico?
La ragazza sembra meditare sulla domanda.
-Sì - dice - ora che mi ci fai pensare. Ho sentito una fitta atroce alla mano. Come se fosse stata infilzata da parte a parte.
-Chiudi gli occhi, Joyce. Rilassati adesso e cerca di concentrarti su quella fitta. Cerca di ricordare il dolore che hai provato. Cos'altro ti fa venire in mente?
Joyce che ha chiuso gli occhi, obbedendo alla richiesta dell'amica, contrae il viso come se cercasse di rivivere quel momento.
-Non so, non ricordo, è tutto buio… Un momento!
Jennifer fa quasi un salto a quell'esclamazione improvvisa.
-Che c'è?
-Sento qualcosa di umido e di freddo che mi cade addosso. Acqua… no, neve. Sembra neve.
Jennifer sente il cuore batterle più forte.
-Vai avanti. Concentrati. Senti altro?
-Non so. Sembrano voci lontane, non sono sicura. Ma c'è qualcosa di duro, di ruvido, sotto di me.
-Che vuoi dire?
-Ho la schiena e le braccia appoggiate a del legno, rami d'albero, mi sembra.
-In che posizione sei? Eretta o distesa?
La risposta arriva dopo qualche secondo.
-Sono a terra. La schiena mi fa male, le braccia sono stanche e AAAAAAAAHHHHHH!!!!!
L'urlo di Joyce perfora i timpani di Jennifer. In un attimo, il panico s'impossessa di lei.
-Joyce! Svegliati! Svegliati!!
Sconvolta, la psicologa scuote disperatamente la giovane che continua a urlare con gli occhi chiusi.
-LA MIA MANOOO!! LAAMIAAAMAAANOOOO!!!
Da fuori giungono improvvisi colpi alla porta d'ingresso, mentre risuonano le voci dei poliziotti di guardia.
-Dottoressa, che succede? Ci apra!
Jennifer, senza badargli, continua a cercare di far tornare Joyce dal suo stato semicosciente.
-Idiota. Idiota! - ripete a se stessa. - Cosa cavolo volevi fare?
Finalmente, Joyce riapre gli occhi e si guarda stupita intorno. La sua faccia trasfigurata dal dolore fino ad un attimo prima, non sembra recare tracce del trauma.
-Jennifer. Cosa è successo?
-Come ti senti?
La voce della psicologa è rotta dal terrore.
-Bene. - risponde la ragazza, poi si guarda la mano. - La mia mano… non riesco a muoverla.
Jennifer gliela afferra subito e comincia a massaggiarla per riattivare la circolazione.
-Dottoressa, apra, o buttiamo giù la porta!
-Un momento.
Jennifer, che ha quasi dimenticato i poliziotti, sollevata nel vedere che Joyce ricomincia a muovere la mano normalmente, si alza e corre all'ingresso.
-Non è successo niente. - dice ai due uomini sulla soglia, che la guardano ad occhi spalancati e con le armi in pugno. - Mi dispiace avervi allarmato. La ragazza ha fatto un brutto sogno.
-Accidenti! - dice uno dei due, quello più alto - Deve essere stato davvero brutto. Pareva che la stessero sgozzando.
-Grazie, agenti. Ma non accadrà più. Ora le darò un sedativo. Potete tornare all'auto.
-D'accordo, ma se ha bisogno d'aiuto…
-Andra` tutto bene, ora. Non preoccupatevi.
E i due poliziotti, ancora un po' perplessi, si allontanano. Jennifer richiude la porta e si affretta a tornare da Joyce.
-Come va?
-Bene. - La ragazza l'accoglie con un sorriso. - Ma che mi hai fatto?
-Sono una stupida! - esclama Jennifer, con rabbia, sedendosi e picchiandosi su una coscia. - Ti ho indotto un leggero stato ipnotico, per vedere se riuscivi a ricordare qualcosa dei tuoi sogni. Mio Dio, non ho mai avuto cosi` tanta paura in vita mia! Non farò mai più niente del genere. Non ricordi niente?
-No, ma qualunque cosa tu abbia fatto, mi sembra di sentirmi meglio. Quello stato di angoscia che provavo sembra un po' attenuato.
-Oddio, ti ringrazio. - Jennifer l'abbraccia con un sospiro di sollievo. E con sorpresa, sente Joyce ridere.
-Che c'è? Che hai da ridere? - chiede, anche lei contagiata da quell'improvvisa allegria.
-Niente. Un'idea sciocca.
-Dimmela.
-Non vorrei imbarazzarti. - dice Joyce, timidamente.
-Dài, avanti.
-Beh, quando mi hai chiesto di chiudere gli occhi… ecco… eri così vicina. Ho pensato che volessi baciarmi.
Jennifer spalanca gli occhi, fissandola.
-E come ti è venuta questa idea?
-Non lo so. Te l'ho detto che era un'idea sciocca.
Per rompere l'atmosfera d'imbarazzo che si è stabilita d'un tratto nella stanza, Joyce si alza.
-Beh, sarà meglio che torni a letto. Domani dobbiamo trasferirci di nuovo.
-Già. - dice Jennifer soprappensiero. - Ah, Joyce. Domani verrà a trovarci un mio amico. Un professore. Vuole incontrarti. Potrebbe aiutarci.
-Davvero? E chi è? - chiede la ragazza incuriosita.
-Si chiama Sutherland. E' una persona molto simpatica. Ti piacerà.
-Bene, a domani, allora.
E Joyce si avvia per le scale.
-Joyce. - la richiama Jennifer.
-Sì?
La ragazza si volta a metà, appoggiandosi alla ringhiera.
-Tu cosa avresti fatto?
-Di cosa parli?
-Se ti avessi baciata davvero. - La voce di Jennifer scende di un paio di toni. - Come avresti reagito?
La giovane sorride, scuotendo la testa.
-Davvero non lo so. - dice - Buonanotte.
E si volta rapidamente, quasi correndo su per le scale.
Jennifer si lascia andare sul divano, appoggiando la testa e chiude gli occhi.
-Buonanotte. - mormora dopo alcuni momenti, mentre la porta della stanza di Joyce si è già richiusa.


QUINDICESIMO CAPITOLO


Il mattino dopo, manca perfino il tempo per tornare anche solo con il pensiero agli avvenimenti della sera precedente. Poco dopo le nove, un furgone senza insegne, parcheggia dietro il giardino della casa, e Jennifer e Joyce vi prendono posto. E' stata Jennifer a scegliere un'ora abbastanza trafficata, contrariamente al consiglio dei poliziotti, perché riteneva che un furgone che si muovesse attraverso strade deserte al mattino presto, avrebbe attirato maggiormente l'attenzione. Il viaggio si svolge senza problemi e scortate discretamente dall'auto della polizia in borghese, le due donne possono entrare poco dopo nell'appartamento della psicologa.
Joyce, evidentemente un po' frastornata da quei giorni di rapidi spostamenti, appena dentro, si guarda intorno.
-Questa è casa tua? - chiede.
-Sì, ti piace? - risponde Jennifer, posando la valigetta sul tavolo. - C'è un po' d'odore di stantìo, ma è qualche giorno che non ci tornavo. Basterà aprire un po' le finestre.
-E' carina. Solo che…
-Solo che cosa?
-Beh, - continua Joyce, quasi scusandosi - tu lavori alla Procura. Mi aspettavo qualcosa di più grande e…
-Lussuoso? - conclude per lei Jennifer, con un sorrisetto.
-Sì. No, no, scusa. Non volevo dire… - si affretta a correggersi Joyce.
-Non preoccuparti, non mi offendo. - la rassicura Jennifer - La verità è che non ho molta simpatia per quelli che ostentano il loro stato economico. A me basta un appartamentino confortevole e adeguato alle mie esigenze.
-Io dove dormirò?
-C'è la mia stanza da letto. Te la cedo. Io mi accomoderò sul divano letto in soggiorno.
-No, no. Non posso permettertelo. Tu fai già tanto per me. Dormirò io in soggiorno. - dice Joyce.
-Sciocchezze. Ci sono abituata. L'ho già fatto quando è stata qui mia sorella. - E qui la voce di Jennifer s'incrina per un attimo. - Lei diceva che aveva bisogno di riposare bene per mantenere il tono della pelle.
Quella ferita non guariva mai del tutto, e la cicatrice continuava a fare male.
-Scusa, non volevo… - comincia Joyce, avvertendo la commozione dell'amica.
-Insomma, - l'interrompe Jennifer, ricacciando le lacrime, - vuoi smetterla di scusarti per tutto? Vieni, ti faccio vedere la camera, così disfiamo il bagaglio.


La segretaria bussa alla porta dell'ufficio, e senza neanche attendere la risposta entra, richiudendola alle sue spalle.
-Che c'è? - fa Cheryl Cooper, guardandola, con aria infastidita.
-C'è un poliziotto di là. - dice sottovoce la ragazza, chinandosi verso di lei, attraverso la scrivania. - Un certo tenente Carruthers. Chiede di parlarle.
-Carruthers? Il nome non mi è nuovo. - mormora la Cooper con aria meditabonda. - Va bene, fallo aspettare un paio di minuti e poi introducilo, quando te lo dico.
Non appena la segretaria è uscita, Cheryl accende il computer e dopo aver cercato per un po', fissando lo schermo attentamente, lo rispegne con aria soddisfatta. Poi alza il ricevitore e chiama la segretaria all'interno.
-Bene, Zoe, fai entrare pure.
E subito dopo, la sagoma massiccia di Carruthers fa il suo ingresso nell'ufficio.
-Mi scusi se l'ho fatta aspettare, Tenente. - esordisce Cheryl Cooper, alzandosi e andando verso di lui con la mano tesa. Il tenente la stringe, fissando negli occhi la giornalista.
-Nessun problema. Non ho aspettato molto.
-Non so se si ricorda di me. - dice la donna. - Due o tre anni fa, ero su un'inchiesta condotta da lei, su riciclaggio di denaro. C'era anche un omicidio di mezzo.
-Invece, mi ricordo. Ammetto che da principio il nome non mi aveva detto niente, ma a vederla… Beh, lei non è una donna che si possa dimenticare facilmente. - fa Carruthers, ammiccando di sottecchi, senza che però la Cooper dia segni di aver apprezzato il complimento o di sentirsene imbarazzata.
-Ehm, ehm, tuttavia, se non ricordo male, - prosegue, un po' irritato dal fatto che la cosa non abbia smosso la sua interlocutrice, - lei lavorava per un altro giornale.
-Accidenti, che memoria, Tenente. - dice la donna, tornando a sedersi e indicandogli la sedia di fronte a lei. - Si accomodi. Sì, in effetti, è vero. Ho lavorato per quasi quattro anni al TRIBUNE. Ho svolto anche inchieste internazionali. Traffico di droga, di armi e altre amenità. Ma non ho buoni ricordi di quel periodo. Ora, mi scusi, se vado subito al sodo, ma immagino che anche lei sarà molto occupato. A cosa debbo la sua visita?
-Io penso che lei abbia già immaginato il motivo della mia venuta.
-Mi spiace, ma ho una pessima immaginazione, Tenente. No, francamente per quanto mi sforzi, non riesco ad indovinare cosa lei possa volere. Ultimamente, non ricordo di aver scritto articoli su qualche pezzo grosso, il sindaco, il Procuratore o…
-Non mi occupo di queste cose. - l'interrompe bruscamente Carruthers, che comincia a provare un'irritazione crescente verso quella donna. - Il mio dipartimento si occupa di crimini e di criminali, signorina Cooper. E noi abbiamo il fondato sospetto che lei abbia avuto dei contatti di recente con un ricercato.
Cheryl Cooper si adagia all'indietro sulla sua ampia poltrona e accavalla le gambe, fissando Carruthers attraverso le lenti, con l'aria di un entomologo che stia osservando una specie di insetto particolarmente interessante.
-Ma davvero? E in che occasione sarebbe successo questo?
Il tenente estrae dalla tasca la rivista e la getta sulla scrivania, aperta alla pagina dell'articolo sull'"amazzone".
-L'uomo che le ha rilasciato questa intervista. Abbiamo bisogno di sapere il suo nome esatto e dove rintracciarlo.
La giornalista prende la rivista e la sfoglia come se non l'avesse mai vista prima, poi la ripone davanti a se e torna a guardare Carruthers.
-Tenente, francamente lei mi meraviglia. Dovrebbe sapere che queste sono le ultime domande che si possano rivolgere a chi fa la mia professione, sperando in una risposta. Se ha letto l'articolo fino in fondo, saprà che è stato il mio stesso informatore a richiedere l'anonimato.
Carruthers dominando a stento la rabbia che gli sta montando dentro, di fronte all'atteggiamento strafottente della donna, si alza e appoggia le mani sui bordi della scrivania, sporgendosi verso di lei.
-Quell'uomo è un individuo pericoloso, con precedenti penali piuttosto seri, ed è probabilmente complice in una tentata aggressione per stupro, oltre che indiziato di omicidio.
-L'ha detto lei. - risponde la Cooper senza fare una piega - "Probabilmente". Non dovrei essere io a ricordarle che secondo la nostra costituzione ogni persona è innocente, fino a quando non ne viene dimostrata la colpevolezza al di là di ogni dubbio. Comunque - prosegue alzandosi anche lei e accendendosi una sigaretta con un grosso accendino placcato in argento - non è questa l'impressione che mi ha dato, nè la storia che mi ha raccontato.
-E che si aspettava? Quell'uomo le ha mentito. Lui e il suo amico hanno aggredito quella povera ragazza, e poi, forse ubriachi o drogati, hanno litigato tra loro per la spartizione della preda e si sono presi a coltellate.
Cheryl Cooper che ha ascoltato Carruthers, fumando la sua sigaretta senza parlare, la spenge a metà schiacciandola nel posacenere.
-Se sa così tante cose, che bisogno ha di me? Non avrete difficoltà a trovarlo.
-Non abbiamo idea di dove sia al momento. - dice il tenente, rimettendosi a sedere.
-Se è per questo, neanche io. Posso dirle solo che se ne è andato, o così almeno ha detto.
-Grazie al denaro ricavato per questa intervista. - osserva amaro Carruthers.
-Tenente, se sta cercando di farmi sentire in colpa, non ci riuscirà. Non ho fatto altro che il mio mestiere. C'era una notizia e io l'ho pubblicata.
Carruthers afferra la rivista con rabbia, guardandola.
-Una notizia? - ripete ironicamente. - Questo cumulo di idiozie, è quello che voi chiamate una notizia?
La Cooper si risiede a sua volta e si appoggia in avanti, coi gomiti sui braccioli della poltrona.
-Vuole sapere una cosa, Tenente? La sua è stata una discreta interpretazione, ma con me ci vuole altro.
Carruthers che già stava per andarsene, la fissa perplesso.
-Che significa?
-Significa che io non credo affatto che lei sia venuto qui, sperando che io le confidassi l'identità del mio informatore o dove si sia rifugiato. No, lei sa molto bene che non avrebbe ottenuto niente da me, in quella direzione.
-Oh, - fa il poliziotto, cercando di simulare la stessa freddezza della sua interlocutrice. - E cosa pensa che sia venuto a fare, allora?
-Secondo me, lei è qui per cercare di capire quanto ci credo io in questo "cumulo di idiozie", come l'ha chiamato.
-Mi spiace, ma non la seguo.
-Io credo, invece, che lei abbia capito perfettamente. - fa la giornalista, sorridendo. - Allora, mi permetta di essere sincera. Fino a una decina di minuti fa, non ritenevo questa roba meritevole di più di un paio di articoli. Giusto perché la materia è suggestiva e una sua fetta di pubblico la trova sempre. Ma ora ho cambiato idea, e credo che esaminerò la questione con più attenzione.
Carruthers si alza e fissa rigidamente la donna, che di rimando lo guarda con aria di sfida.
-Signorina Cooper, le ricordo che sono un pubblico ufficiale e che lei si sta intromettendo in un'indagine di polizia.
Cheryl Cooper emette un sospiro, scuotendo la testa.
-Se non si offende, vorrei darle un paio di consigli. Innanzitutto, sarebbe meglio che lasciasse perdere le scene madri, perché sta peggiorando la situazione di minuto in minuto.
Il tenente che non sa più come regolarsi di fronte a quella donna, infila la rivista in tasca e si volta dirigendosi verso l'uscita.
-Aspetti. - dice la voce calma e controllata, alle sue spalle. - Dimentica il secondo consiglio.
-Se lo tenga per sé. - borbotta tra i denti Carruthers.
-Invece, io glielo darò lo stesso. - aggiunge la Cooper, con uno sguardo ironico. -Non giochi mai a poker. Si rovinerebbe.
Ma il poliziotto ha già lasciato la stanza.


Fuori dall'edificio, Carruthers è talmente furioso con se stesso, che estrae la rivista dalla tasca e la fa a pezzi, scagliandone i poveri resti in un cassonetto dietro l'angolo.
-Maledetto idiota! Diecimila volte idiota! Perché non ti ho dato retta, Rowles? - dice,parlando tra sé, mentre i passanti lo osservano preoccupati, scansandolo. - Quella dannata donna! Se la trovo sulla mia strada, la sbatto dentro, con tanti saluti alla libertà di stampa. Lo giuro sulla memoria di mia madre.
E continuando a borbottare tra sé, si allontana nella folla.


Dopo l'uscita di Carruthers, Cheryl Cooper è rimasta a sedere alla sua scrivania, voltando la poltrona girevole verso la finestra, da dove tra le sagome dei palazzi, s'intravede lontana la linea dell'oceano. Ma il suo sguardo è fisso nel vuoto. La sua mente, laboriosamente, ripercorre gli ultimi giorni, dall'intervista a Roland Arzunian, fino al tempestoso colloquio con il tenente. La donna riconoscerebbe quello strano formicolio che sente in tutto il corpo, tra un milione di altre sensazioni. E' l'istinto del giornalista che sente odore di qualcosa di grosso. Una sensazione che non avvertiva più da anni, immersa in quel mondo virtuale di presunti alieni ed altri fantasiosi "scoop". Rapidamente si volta, spingendo la poltrona verso il telefono, e forma il numero dell'interno. La voce della segretaria risponde prontamente.
-Zoe, prima di andartene, ti dispiacerebbe cercarmi tutto il materiale che avevo preparato per l'intervista dell'ultimo numero? Me lo vorrei studiare meglio. Ti ringrazio. Sì, penso che farò tardi stasera.
Poi, riattaccato, Cheryl appoggia all'indietro la testa e torna a fissare il vuoto.





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