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IDENTITA`SEPOLTA


ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

Xena and all characters and names related are owned by and copyright © 1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.

SESTA PARTE: RIUNIONE


VENTISEIESIMO CAPITOLO


Nel corridoio semideserto dell'ospedale, Jennifer è seduta sulla panca di metallo, fuori dalla stanza dove è ricoverata Joyce. La donna regge contro la nuca un sacchetto di ghiaccio, dietro le insistenze del personale medico, dove sotto i capelli è perfettamente visibile l'ecchimosi procuratele dal colpo ricevuto. Quello che è accaduto nelle ultime due ore è ancora molto confuso nei suoi ricordi. Rammenta vagamente la pressione della canna di una pistola contro la testa e poi è il buio, finché non è stata svegliata dai colpi dei poliziotti che hanno sfondato la porta dell'appartamento, liberandola dal bagno dove era stata rinchiusa. Il salotto di casa sua pareva diventato un mattatoio. Le pareti coperte da chiazze di sangue, dove il corpo di un uomo senza testa e senza una mano aveva sanguinato abbondantemente, inondando in pratica l'intero pavimento. Le due appendici mancanti al cadavere giacevano a metri di distanza in direzioni opposte. La mano, che stringeva ancora una pistola che pareva diventata tutt'una con essa tanto era incrostata dal sangue, e la testa, la cui espressione aveva ormai perso ogni connotato umano.
In mezzo a quello scenario apocalittico, stava il corpo di Joyce, per metà disteso e metà appoggiato alla parete, il volto pallidissimo e una vasta ferita alla tempia che aveva a sua volta formato una larga chiazza sul pavimento. Nel vederla in quello stato, Jennifer si era sentita travolgere dalla disperazione. La ragazza sembrava proprio morta. Solo il medico, sollecitamente chiamato dai poliziotti, era riuscito a rassicurarla. Joyce era stata solo ferita superficialmente dal proiettile che le avevano sparato, ma la botta era stata dura e richiedeva un ricovero immediato per accertamenti, oltre che per richiudere la ferita.
Carruthers era sopraggiunto subito dopo che gli infermieri dell'ambulanza avevano caricato Joyce per portarla all'ospedale più vicino. Jennifer aveva cercato in tutti i modi di convincerli a farla montare con loro, ma questi erano stati irremovibili e così si era dovuta rassegnare a seguirli con un auto della polizia messale a disposizione dal tenente. Era arrivata appena in tempo per vedere la porta della stanza che si chiudeva davanti a lei, mentre i medici si apprestavano a visitarla.
Ed ora se ne stava lì, seduta in quel corridoio bianco da abbagliare sotto le luci al neon, col collo dolorante, la testa che le pareva un cantiere in piena attività, ad aspettare che qualcuno si degnasse di venirle a dire qualcosa.
Ancora faticava a cercare di mettere nel giusto ordine gli avvenimenti. Mark Bowers si era introdotto nel suo appartamento, evidentemente, ma come? Aveva neutralizzato lei e cercato di rapire o addirittura uccidere Joyce. E poi? Cosa era successo?
Beh, per la verità, non ci voleva molto ad immaginarlo. Quella mano e quella testa mozzata la dicevano lunga. La spada di Xena doveva aver fatto sentire ancora una volta la sua voce. L'ago aveva trovato il suo zenith, e appena in tempo, a quanto sembrava. Ma ora, dove era finita? E se avesse creduto Olimpia… Joyce, morta, quale avrebbe potuto essere la sua reazione? Avrebbe scatenato la sua furia? E lei, come doveva comportarsi? Era giusto continuare a mantenere Carruthers ancora all'oscuro, e soprattutto, era ancora possibile? Troppe domande. Forse avrebbe dovuto chiamare Sutherland, ma ha dimenticato il cellulare a casa e in quella confusione non riesce a ricordare il suo numero. Fa per alzarsi e dirigersi verso un telefono che ha intravisto in fondo al corridoio, quando nota la sagoma familiare del tenente che avanza verso di lei. Distrattamente, getta il sacchetto di ghiaccio in una pattumiera.
Carruthers si avvicina e si siede accanto a lei, con un sospiro.
-Sai, - esordisce - una volta la mia vita era quasi tranquilla. Qualche regolamento di conti fra spacciatori, un delitto o due a settimana, quasi sempre per banali motivi e robetta simile. Poi, è arrivata la tua amica.
Jennifer lo guarda con aria stanca.
-La prenderò per una battuta. - dice. - Mi scuserai se non rido, ma quando lo faccio mi fa male la testa.
-Ti sei fatta vedere?
-Non è nulla. Passerà, e comunque finché fa male, vuol dire che è ancora al suo posto.
-Già. Mark Bowers non è stato così fortunato.
-Bowers era un sadico figlio di puttana, che ha meritato mille volte la sua fine, e se c'è un inferno, gli auguro di bruciarci fino alla fine dei tempi. - dice piano Jennifer. - E tu dovresti essere il primo a esserne contento, visto i guai che ti ha procurato.
Carruthers accenna alla porta alle sue spalle.
-Come sta? - chiede.
-Non lo so. Non me l'hanno fatta ancora vedere. Ma è viva ed è già un buon risultato. Quello che non capisco - aggiunge la donna alzandosi - è come ha fatto quel bastardo.
-Solamente? - chiede il tenente. - Questo è facile da spiegare. Sono ben altre le cose incomprensibili.
Jennifer, fingendo di non cogliere l'allusione ancora una volta buttata là da Carruthers, si volta verso di lui.
-Avete scoperto come è entrato?
-E' stata una cosa di una semplicità imbarazzante. - risponde lui. - Il nostro amico sarà stato anche matto come un cavallo, ma certo non difettava in astuzia. Le terrazze dei vari piani sono contigue, separate solo da un basso muretto. Bowers deve aver studiato i movimenti del palazzo e soprattutto dei tuoi vicini. I Webb, fratello e sorella. Lei tutte le sere esce per andare a prendere il fratello al bar. Bowers l'ha preceduta, ha tolto di mezzo lui, niente di grave, l'abbiamo ritrovato sul retro del locale, privo di sensi ma vivo, gli ha preso gli abiti ed è andato incontro a lei. Poi, sotto la minaccia della pistola l'ha costretta a farle strada. I due poliziotti di guardia non hanno avuto sospetti. Lui camminava con la testa china, come se fosse ubriaco, così ha raggiunto l'appartamento dei Webb, ha legato e imbavagliato la donna e si è installato là, aspettando fino a quando è stato sicuro che voi due foste andate a dormire e il resto lo puoi immaginare da te. Quello che invece vorrei immaginare io, è cosa è capitato dopo. - Carruthers lancia un'occhiata significativa a Jennifer. - Tu non lo ricordi proprio, eh?
-Tutto quello che ricordo è una botta alla testa e poi mi sono risvegliata chiusa nel bagno.
-Non esattamente. - dice il tenente.
-Come? - chiede Jennifer perplessa.
-Il bagno non era proprio chiuso. C'è una finestra e anche quella, guarda caso, dà sul terrazzo. - precisa lui.
-E allora?
Jennifer continua a non capire.
-Nulla. Una mia considerazione.
-Non ti capisco, George.
-Lascia perdere. E' la stanchezza. Non ero a letto neanche da due ore, quando mi hanno chiamato. - Carruthers si passa le mani sul viso. - C'è una toilette qui? Ho bisogno di darmi una sciacquata alla faccia.
-Si`, laggiù dietro l'angolo.
-Torno subito.
Il tenente si allontana con un andatura strascicata ed è appena scomparso in fondo al corridoio che la porta della stanza di Joyce si apre e ne esce un medico. Jennifer subito gli è accanto. L'uomo la fissa un attimo.
-Lei è Jennifer? - chiede.
-Sono io.
-La sua amica ha chiesto di lei. Non la stanchi, mi raccomando.
-Come sta?
-Bene, tutto sommato, per una persona a cui hanno sparato un colpo di pistola alla testa. Ma è stata molto fortunata. Mezzo centimetro più a sinistra e non saremmo qui a scherzare. - conclude il medico con serietà. - Vada ora, ma non più di qualche minuto.
Jennifer entra nella stanza in punta di piedi. Un'infermiera dalla corporatura decisamente robusta sta allestendo gli ultimi dettagli. Alcuni strumenti sono collegati ai polsi di Joyce distesa nel lettino al centro e mandano le loro pulsazioni luminose su piccoli schermi. La ragazza giace con la testa sul cuscino, gli occhi chiusi e una larga benda le copre parzialmente la fronte. Jennifer non può fare a meno di sobbalzare nel vederla.
-I suoi capelli. - dice.
L'infermiera si volta sorridente.
-Abbiamo dovuto tagliarli. Mi dispiace, erano incrostati di sangue e la ferita è molto estesa sul cuoio capelluto.
Sentendo parlare, Joyce apre gli occhi e, appena vede Jennifer, le tende una mano che lei si affretta ad afferrare.
-Ora vi lascio sole. - dice l'infermiera. - Le ho dato un leggero sedativo. Tra qualche minuto si addormenterà. Non resti troppo.
Con un cenno d'assenso, senza smettere di fissare gli occhi dell'amica, Jennifer allunga un braccio e prende una sedia, accomodandosi accanto a lei, mentre l'infermiera esce.
Lo sguardo di Joyce appare diverso agli occhi di Jennifer. E' difficile dire da cosa lei lo stabilisca, ma c'è qualcosa di nuovo nella ragazza che le sta di fronte, in quel letto d'ospedale. C'è una grande differenza con la ragazza con cui ha condiviso quelle settimane, e addirittura un abisso da quella che aveva visto per la prima volta in un altro letto di ospedale anni luce prima. Joyce continua a fissarla, mentre le loro mani restano intrecciate.
-Come stai, cara? - le chiede Jennifer. - Come ti senti?
-Non lo so. Confusa, credo. - risponde lei. - Ma c'è qualcosa che devo dirti.
-Dimmi, tesoro.
Joyce solleva a fatica la testa e tende il viso verso di lei.
-La donna con la spada. Era in quella stanza, Jen. Mi ha salvato la vita, altrimenti Mark mi avrebbe uccisa.
-Tu l'hai vista?
-Era china su di me, come la prima volta. Mi carezzava il viso. Pareva quasi che piangesse per me, Jen, e… Oddio, tu mi prenderai per pazza, davvero, stavolta!
L'esclamazione improvvisa, quasi urlata, fa sobbalzare la psicologa che col cuore in tumulto, si affretta a rassicurarla.
-No, no, cara. Dimmi ciò che vuoi e cerca di non agitarti così. Il dottore dice che devi riposare. Se vuoi, puoi dirmelo domani, quando sarai più calma.
-No. Non ce la farei a tenermelo dentro un minuto di più. - risponde con tono disperato Joyce, tirandosi su e afferrandole anche l'altra mano. - Questa volta ricordo chiaramente il suo viso, Jen, e io la conosco. Io so chi è.
Negli occhi della ragazza, un miscuglio di sensazioni si susseguono, paura, smarrimento, tensione, mentre li tiene inchiodati in quelli dell'amica. Jennifer, con la voce un po' tremante, si decide a fare la domanda che le brucia sulle labbra.
-Chi è, Joyce? Dimmi il suo nome.
Stringendole le mani nelle sue con una forza impensabile, Joyce avvicina il viso al suo, abbassando la voce ad un livello appena udibile.
-Il suo nome è Xena. - sussurra - Non chiedermi come lo so, ma in queste ultime ore sono successe cose… cose incredibili.
Joyce continua a parlare, mentre Jennifer l'ascolta incapace di dire una parola.
-Quando mi sono svegliata e tu non c'eri, volevo venirti a cercare, ma poi ho sentito qualcosa. Sembrava che fossi sola. Il silenzio era assoluto, ma io ho sentito qualcosa, Jen, dietro il silenzio. Ricordi quella frase nel sogno? Non ascoltare i suoni, ma quello che c'è dietro i suoni. Quella frase mi ha salvata, Jen. Mark era lì, nascosto, in attesa di uccidermi. Era immobile e silenzioso, ma io l'ho sentito. Di più, ne ho avvertito la presenza. Non so come ho fatto. Non sembravo neanche io. Sentivo le sue mosse nel buio. Lui mi è saltato addosso, abbiamo lottato e io l'ho scaraventato a terra, Jen. L'ho sconfitto. Ma lui ha sparato. Ho sentito una botta tremenda e poi più nulla. E quando ho ripreso i sensi, lei era là. Mi toccava delicatamente la testa e, quando i nostri occhi si sono incontrati, ho ricordato il suo nome. Mio Dio, Jen, è talmente bella, proprio come allora.
-Come allora? - La domanda le viene spontanea, con una voce arrochita e quasi irriconoscibile alle sue stesse orecchie dal groppo che le chiude la gola. - Cosa vuoi dire?
-Non lo so. Non lo so. Non ci capisco nulla. - risponde Joyce, ricadendo sul cuscino. - E' come se si fosse aperta una porta nella mia mente. Vedo scene di battaglia, di lotta, sangue, distruzione e io sono sempre là, al suo fianco. E questi non sono sogni, Jennifer, sono reali. Lo sento, lo so. Tu mi credi, vero?
Lo sguardo che le invia è colmo di supplica e Jennifer si sente stringere il cuore.
-Sì, sì, certo che ti credo, Joyce. - risponde.
-Ma sai, - prosegue lei - non ci sono solo visioni di morte, ma anche momenti di allegria, di risate, di incredibile tenerezza… - Un lieve sorriso le sfiora le labbra, poi lo sguardo torna intento. - Che significa tutto questo, Jen? Se sono ricordi a chi appartengono? E se appartengono a me, allora chi sono io?
Così dicendo, Joyce si passa una mano sulla testa e il suo gesto si blocca all'improvviso, mentre si tasta i capelli sul collo.
-Ho i capelli corti. - dice quasi tra sé.
-Te li hanno dovuti accorciare - risponde Jennifer - per suturarti la ferita, e poi erano sporchi di sangue.
-Ho i capelli corti. - ripete Joyce, come se non avesse sentito. - Come nel sogno.
-Ora devi dormire un po', Joyce. - le dice Jennifer, ma la ragazza non sembra ascoltarla, mentre fissa il vuoto davanti a sé e continua a passarsi la mano tra i capelli che lei tenta di afferrarle. - Joyce, per l'amor di Dio, ti riaprirai la ferita.
-Olimpia! - esclama d'un tratto Joyce, e la mano di Jennifer si ferma a mezz'aria.
-C…come?
-Olimpia! - ripete l'altra. - Sono io! Sono io!! Come ho potuto dimenticare?
La psicologa, cui il rapido succedersi degli avvenimenti sta facendo girare la testa, cerca nuovamente di calmarla.
-Joyce, ti prego…
Ma la ragazza, come posseduta, getta da parte le coperte e fa per alzarsi, mentre gli strumenti collegati a lei cominciano a pulsare più velocemente.
-Joyce, sei impazzita?!? Dove vuoi andare? - grida Jennifer, afferrandola con forza e costringendola faticosamente a distendersi.
-Io devo andarmene di qui! Non capisci? Devo trovarla, devo parlarle!! Mark potrebbe…
-Joyce! Joyce!! - continua a gridare Jennifer, trattenendola con tutte le sue forze. - Mark non può più fare niente. E' morto!
A queste parole, Joyce si immobilizza e il suo sguardo terrorizzato si fissa in quello dell'amica.
-Morto? Mark è morto? - mormora. - Ma io credevo…
-Pensavo che tu lo sapessi. Dicevi di ricordare tutto.
-Ma io… no, questo no. Dovevo essere svenuta. L'ha ucciso lei? E' stata lei, Jen?
Jennifer lascia leggermente la presa, vedendo che la ragazza ha smesso di divincolarsi.
-Credo di sì. - risponde. - E' stato… trovato morto nella stanza in cui eri tu.
-Ma allora, le daranno la caccia, le faranno del male.
-Non devi pensare a queste cose, tesoro. Tu ora devi soltanto dormire.
-Tu devi impedirlo, Jennifer. Lei lo ha fatto per me. Per difendermi. - Gli occhi di Joyce cominciano a riempirsi di lacrime. - Non è malvagia. Non l'avrebbe fatto, se non ci fosse stata costretta.
-Non preoccuparti. Farò tutto il possibile, ma non credo che la prenderanno.
Joyce l'abbraccia stretta.
-Dov'è, Jen? Io ho bisogno di lei. Devo vederla.
-Non lo so, ma tu non devi fare così. - le sussurra Jennifer, rispondendo completamente al suo abbraccio. - Devi stare calma. Vedrai che sarà lei a trovarti. Credo che abbia altrettanto bisogno di te.
Le due donne si sciolgono dall'abbraccio e Joyce sorride all'amica, con le lacrime che ancora le scorrono sulle guance.
-Sì, - dice - hai ragione.
-Ehi, che succede qui? - La voce dell'infermiera alle loro spalle le fa sobbalzare. - Cosa sono quelle coperte in terra? E lei, non dovrebbe dormire? - Con fare esperto e risoluto, raccoglie le coperte cadute e le rincalza, quindi si rivolge a Jennifer con aria severa. - Quanto a lei, non le avevo raccomandato di non restare troppo?
-Mi scusi. - risponde la psicologa. - L'ho vista un po' agitata… Vado via subito.
E si dirige verso la porta. Poi, prima di uscire, lancia un ultimo sguardo a Joyce, quasi scomparsa dietro il poderoso donnone ancora intenta a risistemare il letto. L'amica ricambia il suo sguardo e a Jennifer pare di leggervi un'ultima richiesta di aiuto.


-Io non me ne vado da qui.
Il tono di Jennifer è secco e deciso. Carruthers, ormai ha imparato per esperienza che quando la donna assume quell'atteggiamento, c'è ben poco da fare per cercare di smuoverla dalla sua decisione.
-Ma a cosa puoi servire? - prova tuttavia ad obbiettare. - La tua amica è più che al sicuro. Suo marito ormai non può più farle del male, e comunque lascerò un mio uomo a sorvegliarla.
-E come mai, visto che secondo te, non corre più rischi? - chiede Jennifer, fissandolo. Poi, spalanca gli occhi di fronte all'idea che lo sguardo colpevole del tenente le ha comunicato. - La sospetti?!? E' questo che vuoi dire? Tu sospetti di lei?!? - E' troppo sorpresa perfino per arrabbiarsi.
-Rowles, - dice Carruthers imbarazzato, senza neanche riuscire a guardarla. - quella donna è stata trovata per ben due volte accanto ad una mano mozzata, e questa volta a quel disgraziato hanno addirittura staccato la testa. Ammetterai che ce n'è più che abbastanza per tenerla almeno d'occhio.
-George, è ridicolo. A Bowers hanno tagliato la testa con un solo colpo e anche senza essere medico, ti posso dire che ci vuole una notevole forza per riuscirci. Joyce non ha nemmeno il fisico per farlo.
-Forse no. Ma sotto stress, in qualche caso le persone trovano energie insospettabili.
-Sotto stress? Perché non la chiami col suo nome? Follia! Quindi Joyce sarebbe anche pazza? Magnifico!
-Insomma, Rowles! - esplode alla fine il tenente. - Io sono un poliziotto! E non posso farmi condizionare dai sentimenti. Comunque, in casa tua, in questo momento, stanno facendo tutti i rilievi del caso e se la tua Joyce non c'entra nulla, salterà fuori.
Jennifer, stanca, quasi priva di forze, si lascia cadere su una sedia di metallo.
-Sappiamo tutti e due come deve essere andata, George. Joyce è innocente. A questo punto, ci mancherebbe solo che sospettassi di me. - mormora, poi, alza di scatto la testa e fissa il tenente. - Un momento. Quell'allusione a proposito della finestra del bagno… Cristo, George!!
-OK, OK, piantala, adesso. - risponde Carruthers, sedendole accanto. - Te l'ho detto, sono un poliziotto. E' mio dovere considerare tutte le ipotesi possibili.
-Ipotesi possibili?!? - urla quasi lei, scandalizzata. - Mi conosci da anni!
-Tu dici? - chiede con tono rabbioso e sarcastico allo stesso tempo il tenente. - Beh, io non lo so se ti conosco ancora. In questi ultimi giorni mi hai mostrato dei lati di te che neanche sospettavo. Bowers non è stato il primo ad aver perso la testa per quella donna, se mi passi l'espressione!
Troppo furiosa per poter rispondere, Jennifer si alza e si dirige con passo fermo verso il fondo del corridoio.
-Ehi, e adesso dove vai? - le urla dietro Carruthers, ma la donna si allontana senza voltarsi.


Nella piccola stanza gli strumenti elettronici continuano a pulsare, mandando i loro baluginii nella semioscurità della sera. L'ospedale è ormai silenzioso. Le ore di visita sono trascorse. Jennifer è appoggiata con le spalle al vetro della finestra e guarda Joyce addormentata sotto l'azione dei sedativi. E' riuscita ad ottenere il permesso di trascorrere la notte accanto all' amica. L'infermiera, molto comprensivamente, le ha fatto portare un cuscino e una coperta, raccomandandole però di sistemarsi fuori dalla stanza, su un divanetto fatto sistemare appositamente vicino alla porta.
Joyce appare abbastanza calma nel suo sonno ma, di tanto in tanto, Jennifer ha colto il movimento delle sue labbra. Tuttavia, nonostante le sia andata più vicina possibile per riuscire a cogliere qualche parola, senza rischiare di svegliarla, non è mai stata capace di afferrare il benché minimo senso in quel leggero mormorio. Scoraggiata, ha presto desistito ed è rimasta là, semplicemente a guardarla. Forse Joyce ha ripreso a parlare in quella sua strana, incomprensibile lingua. Affascinante e inquietante al tempo stesso. Una lingua venuta da duemila anni nel passato, la lingua di Xena, la principessa guerriera, e di Olimpia, la sua amica inseparabile, come le aveva definite il professor Sutherland.
Rammentare il professore, le ricorda che ancora non l'ha avvertito che il suo "progetto" si sta frantumando minuto dopo minuto.
Joyce ora ricorda Xena, e ricorda di essere Olimpia. Ricorda di aver diviso la vita, le battaglie, con lei e sente il suo richiamo sempre più forte e, Jennifer ne è certa, altrettanto sta accadendo a Xena. Probabilmente solo l'arrivo dei poliziotti le ha impedito di portare soccorso alla sua amica, costringendola alla fuga, consapevole che avrebbe ricevuto un aiuto migliore di quello che era in grado di darle lei. E tuttavia è vicina. E' quasi come se la potesse sentire.
Sull'onda di questi pensieri, Jennifer si volta e scruta i tetti degli edifici adiacenti. Appaiono deserti e appena illuminati dalle ultime luci del giorno al tramonto, ma chi può dire se lo sono davvero. Se una giovane donna guerriera, spuntata da chissà quale piega del tempo, non sia proprio là, a pochi metri, con la sua spada e il suo cerchio, a guardare lei attraverso quella finestra, e a giudicarla… come? Una possibile alleata? O una rivale? E lei stessa, trovandosela davanti, con che occhi l'avrebbe guardata? Jennifer scuote la testa davanti ai pensieri che le stanno affollando la mente.
Mio Dio, stai davvero considerando la possibilità di incontrarti con una guerriera vissuta ai tempi dell'Impero Romano, come se fosse un'eventualità normale? Questo universo è impazzito, e noi con lui.
In quel momento, due fatti concomitanti la strappano alle sue fantasie.
In un angolo del tetto alla sua sinistra, qualcosa manda un riflesso luminoso a colpirle gli occhi, come se gli ultimi raggi di un pallido sole, minacciato da nubi scure in lontananza, avessero rivelato qualcosa di metallico in un rapido movimento, tanto rapido che nel tempo che Jennifer mette a cercare di focalizzare l'origine del riflesso, questa è già scomparsa, e contemporaneamente un rumore alle sue spalle la fa voltare e dimenticare all'istante l'impressione appena provata.
La maniglia della porta si sta abbassando e un viso appare oltre la soglia. Due occhi chiari dietro un paio di lenti dalla montatura leggera, una capigliatura corvina raccolta severamente sulla nuca e un sorriso appena accennato, Cheryl Cooper si affaccia all'interno della stanza.
-Si può? Disturbo? - dice a bassa voce, lanciando un'occhiata alla figura immobile sul letto.
Jennifer, con uno scatto, è sulla porta, l'afferra per un braccio e la costringe a uscire, richiudendosi prontamente la porta alle spalle.
-Che ci fa qui lei? Chi l'ha fatta entrare? - sibila con rabbia in faccia alla giornalista.
-Ehi, calma! - risponde la Cooper, liberandosi con uno strattone della presa. - Che razza di reporter sarei, se non avessi agganci nei distretti di polizia e negli ospedali della città?
-Avrebbe dovuto esserci un agente in fondo al corridoio.
-Evidentemente anche gli agenti sono soggetti ad esigenze fisiologiche imprescindibili. Proprio mentre arrivavo l'ho visto allontanarsi verso le toilettes. L'ho considerato come un segno del destino.
La giornalista continua a discutere con Jennifer senza mai perdere il suo autocontrollo. Solo i suoi occhi tradiscono questa sua apparente freddezza, saettando quasi impercettibilmente verso la porta chiusa accanto a loro.
-Mi pareva che avessimo fatto un patto. - dice Jennifer, fissandola.
-Non l'ho scordato. - risponde Cheryl. - Ma questa situazione è decisamente nuova. Non crede?
-Non so cosa intenda dire.
-Per quanto tempo pensa di riuscire a tenere nascosta una decapitazione in un appartamento del centro della città, dottoressa Rowles? Io voglio semplicemente avvertirla che se questa storia arriverà alle orecchie della stampa, e mi creda sarà difficile evitarlo, mi vedrò costretta a mettere in piazza ciò che so, e a ricordarle, io questa volta, il nostro patto.
-Nessuno saprà niente, se lei non rovinerà tutto. - dice Jennifer, gelidamente. - Se ne vada, ora.
Cheryl Cooper sostiene per qualche istante lo sguardo della psicologa, poi d'improvviso ha un sobbalzo che le fa contrarre i muscoli del viso.
-Che ha? Non sta bene? - chiede preoccupata Jennifer, osservandola con attenzione.
-Non… non è niente. - Cheryl cerca di sforzarsi di sorridere. - Solo un brutto ricordo rimastomi da una vecchia inchiesta. Non si preoccupi. Mi passa abbastanza presto. Basta un po' di riposo e una tonnellata di antidolorifici, e s'impara anche a conviverci. - La giornalista fa per allontanarsi, poi si volta. - la prego, mi scusi, se ho fatto irruzione così. Faccia i miei migliori auguri alla sua amica.
Jennifer fa un cenno d'assenso.
-Grazie. - risponde e l'osserva mentre si allontana con passo un po' incerto.


Nel buio della notte, piccole, fitte gocce di pioggia battono sui vetri delle finestre dell'ospedale. Al ritmo del loro suono, Jennifer avvolta nella coperta, comincia lentamente a perdere contatto con la realtà, mentre il sonno, lungamente respinto, sta prendendo il sopravvento. Infine, la battaglia è persa, e la donna cade pesantemente addormentata.


Nella stanza di Joyce, le gocce di pioggia che rigano il vetro, acquistano strani colori alla luce degli strumenti accesi nei quali si riflettono.
La ragazza, anche nel sonno più profondo, continua a muovere le labbra come proseguendo un discorso rivolto ad un'invisibile platea.
E sul cornicione della finestra, la figura pericolosamente in bilico, ma totalmente incurante di ciò e della pioggia che continua a scorrerle addosso, lascia scivolare una mano lungo il vetro, osservando la ragazza nel lettino, come per stabilire un contatto con lei.
-Olimpia. - mormora una voce leggermente rotta, mentre lacrime si uniscono alla pioggia sul suo volto.
All'interno della stanza, Joyce, pur addormentata, s'illumina in un sorriso e le sue labbra emettono un suono, questa volta chiaro e comprensibile.
-Xena. - mormora, e la sua mano nel sonno, si tende nella direzione della finestra, dove però ora la pioggia sta cadendo sul nulla.






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