EPISODIO N. 4
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CAPITOLO III

Akrastas, 20 anni prima

<<Il Consiglio ha deciso. Lenore, la tua condanna è la morte. Vi sarà data esecuzione domani stesso all’alba>> l’uomo vestito con una tunica bianca si sedette ed un pesante silenzio calò nella sala. Gli altri giudici rimasero impassibili, i visi che parevano scolpiti nel marmo.
Lenore, il condannato, rimase in piedi con le catene che gli legavano caviglie e polsi. Non abbassò lo sguardo. I suoi occhi scuri si mossero, scrutando i giudici uno ad uno. Un raggio di sole entrò da una delle finestre e gli illuminò il bel viso dalla carnagione scura contornato da ricci bruni sporchi di polvere. L’intera figura emanava autorità e sicurezza, sebbene fosse stato appena condannato a morte.
Due guardie gli si avvicinarono e fecero per afferrargli le braccia, ma le fermò con un cenno della mano. I due si arrestarono immediatamente. Il giudice che sedeva sul seggio più alto li fissò negli occhi rabbiosamente
<<Vuoi forse dire qualcosa in tua difesa? La sentenza è irrevocabile>> la sua voce era striata di sarcasmo. Lenore non raccolse la provocazione ed annuì.
<<Sì, anche se la mia sorte è segnata. Se è volere degli dei che io muoia, ebbene non mi opporrò alle loro decisioni, ma soprattutto non mi piegherò a supplicare nessuno affinché possa avere salva la vita. L’Olimpo intero può essermi testimone: la mia morte è ingiusta, sono completamente estraneo ai crimini che mi imputate. Che il sommo Zeus mi fulmini se mento>> attese alcuni secondi, guardando nuovamente negli occhi ognuno dei presenti.
<<Domani mia moglie sarà vedova e mio figlio orfano. In nome degli dei che ho sempre e rettamente onorato e del bene che ho portato a questa città quando la corona di arconte mi cingeva ancora il capo, ora chiedo a voi di provvedere affinché loro non soffrano più del dovuto per la mia morte. Lasciate loro una dimora e delle proprietà da cui possano ricavare di che vivere. È tutto ciò che ho da chiedervi>>
Di nuovo il silenzio impose la sua presenza nella sala. I giudici si guardarono tra di loro e si scambiarono alcune parole sottovoce. Prese di nuovo la parola il membro che aveva emesso la condanna.
<<E sia, Lenore. Tua moglie e tuo figlio non vivranno nella miseria dopo la tua morte. Te lo dobbiamo, sebbene ti sia macchiato di un crimine orribile>> fece un cenno alle guardie che gli afferrarono le braccia con deferenza. Lenore le seguì senza opporre nessuna resistenza, guardando dritto davanti a sé e senza mai voltarsi indietro.
Quando fu uscito e le porte chiuse, un mormorio confuso si diffuse tra i presenti. Le voci si facevano sempre più concitate, fino a quando uno dei giudici, alzandosi, impose il silenzio sollevando la mano.
<<Silenzio! Chi vuole parlare lo faccia come si conviene a quest’assemblea!>>
Il mormorio si estinse immediatamente, senza che nessuno avesse il coraggio di esprimere a voce alta quello che era riuscito solo a sussurrare.
Dopo alcuni momenti uno dei più giovani si alzò in piedi.
<<Quello che quest’assemblea ha decretato è un’ingiustizia: sappiamo tutti benissimo che Lenore è innocente! Ha solo pestato i piedi a chi era troppo in alto, vero?>> sul suo viso erano evidenti la rabbia e lo sdegno. L’imbarazzo corse tra le file dei seggi più alti della sala, dove sedevano i più anziani che godevano di maggior prestigio.
<<Nessuno ha il coraggio di replicare? Siete corrotti a tal punto che nessuno è sufficientemente estraneo alla cosa da potermi smentire?>> incalzò.
Ancora silenzio. Il giovane abbassò il capo, sistemandosi la tunica immacolata con le mani. Quando lo rialzò, una luce gli brillava negli occhi.
<<Io non posso continuare a sedere tra di voi, se è questa la vostra posizione. Come potete continuare a giudicare gli altri se le vostre mani sono sporche del sangue di un innocente?>>
Solo allora un altro giudice ebbe il coraggio di alzarsi in piedi e prendere la parola.
<<Leandro ha ragione: quest’assemblea non ha più nessun valore>> si voltò verso Leandro <<Io sono con te: hai il mio appoggio e la mia fiducia incondizionati, qualunque decisione tu prenda>> rimase in piedi, il viso deciso. Leandro gli annuì sorridendo, lasciando che di nuovo scendesse il silenzio.
Pian piano molti dei presenti si alzarono, manifestandogli il loro favore. Rimasero seduti solo i più anziani, che presero a sussurrare tra di loro nella parte alta. Solo uno di loro prese la parola.
<<Leandro, anche qualora tu abbia ragione, sai benissimo che una sentenza emessa da quest’assemblea non può essere ritirata né modificata. La sorte di Lenore è ormai segnata>>
Leandro non replicò: purtroppo sapeva fin troppo bene che aveva ragione e che l’indomani il condannato sarebbe andato incontro alla morte, qualunque cosa avesse detto.
<<Eleggiamolo arconte!>> urlò uno dei primi che si era schierato in suo favore.
<<CHE COSA???>> l’indignazione era più che lampante in ognuno dei giudici anziani.
<<Sì>> proseguì <<Eleggiamo Leandro arconte, così che possa proseguire l’opera di Lenore. È certamente più degno di tutti noi di occupare quel seggio!>>
I giudici anziani si opposero strenuamente, ma non poterono nulla quando lo portarono in trionfo nella piazza, consegnandogli il diadema.
Leandro li seguì per reazione, più che per un reale desiderio di ottenere la carica che gli stavano imponendo, sconvolto dalla piega che avevano preso gli eventi. Tutto si sarebbe aspettato meno che ascendere al ruolo di arconte.
La gente lo accolse con favore, sebbene fosse stato appena condannato alla pena capitale l’uomo che era riuscito a risollevare la città dalla miseria in cui una lunga guerra l’aveva precipitata.
Giurò a se stesso che avrebbe fatto di tutto per continuare la sua opera e permettere al suo ricordo di sopravvivere all’infamia che il Consiglio gli aveva gettato addosso. Non poteva dare una sepoltura degna di un re ad un condannato, ma si promise di erigergli un mausoleo nel bosco dove tutti avrebbero potuto onorarne la grandezza senza contravvenire alle leggi della città.
Alzò lo sguardo verso il palazzo che Lenore stesso aveva fatto erigere come sua dimora. Vide alla finestra una figura ammantata di nero che lo fissava con rabbia. Cercò di distogliere lo sguardo, ma sembrava che quella donna l’avesse incatenato con i suoi occhi, sebbene non potesse neppure vederli chiaramente. Ebbe però la certezza che emanassero potere, un potere che trascendeva di gran lunga quello che lui aveva appena ottenuto, un potere che andava ben oltre il mondo materiale.
La donna si coprì il viso con un velo altrettanto nero e scomparve all’interno, lasciandogli addosso un senso di vuoto. Leandro non ebbe il tempo di far nulla che venne portato via per la celebrazione dei riti propiziatori per la sua incoronazione.
All’interno del palazzo la donna accarezzava il viso del bambino che le si era avvicinato, costringendola a chinarsi tirandole il peplo. Gli sorrise con dolcezza da dietro il velo.
<<Madre, cosa succede?>> chiese ingenuamente.
<<Nulla, tesoro. Nulla che riguardi noi…>> cercò di trattenere le lacrime e mantenere la voce ferma. Doveva essere forte: ora che aveva perso il padre non poteva venirgli meno anche lei. Era troppo piccolo per capire…
Il bambino le tirò ancora la veste per ottenere la sua attenzione.
<<Madre, papà mi porterà a caccia con lui la prossima luna?>>
La donna aspettò prima di rispondergli, lottando con le lacrime che le pungevano gli occhi. Ringraziò di avere il velo che le nascondeva gli occhi lucidi.
<<No, Teucro, non potrà portarti a caccia con sé…>>
Il bambino fece per replicare, ma la madre lo fermò.
<<No, non dire altro. Ora obbedisci, piccolo mio, vai a giocare>>
Contrariato Teucro fece un inchino formale un po’ goffo che la fece sorridere prima di uscire, seguito dalla balia.
“Sei così piccolo, tesoro mio. Come posso dirti che tuo padre sta per morire? Siano maledetti coloro che l’hanno condannato!”
La rabbia prese a scorrerle nel sangue, risvegliando in lei un desiderio di vendetta così potente da non poter essere ignorato. Quello che aveva appreso al tempio di Ecate quand’era fanciulla le riaffiorò dalla memoria con chiarezza impressionante ed il piano per punire i colpevoli dell’omicidio di suo marito le si presentò altrettanto spontaneamente.
“Mia Dea, assistimi e dammi la forza di portarlo a termine…”


<<LEANDRO!>>
Un uomo riccamente abbigliato irruppe nella sala dove l’arconte sedeva, intento nella lettura di una pergamena. Nel riconoscerlo sentì una goccia di sudore freddo corrergli lungo la schiena.
<<Cassiodoro…>> non ebbe la forza di rimproverargli la mancanza pressoché totale del rispetto dell’etichetta. Gli fece cenno di sedersi ed ordinò ad un servitore di portar loro del vino.
<<Com’è potuto accadere, Leandro?>> la sua voce era piena di rabbia e dolore. Lo fissò negli occhi e l’arconte imputò le sue occhiaie e gli occhi arrossati più al pianto che alla mancanza di sonno.
<<Cassiodoro, sono molto addolorato per quanto è accaduto….>>
<<TU SEI ADDOLORATO? ED IO COSA SAREI, ARCONTE? HO PERSO IL MIO UNICO FIGLIO!>> il rancore impregnava la sua voce, ma era il dolore a far da padrone nell’espressione del suo sguardo.
<<Calmati, amico mio. Sto facendo tutto quanto è in mio potere per trovare l’animale responsabile di tutto questo>>
<<Animale? Parli ancora di animale? Questo è stato un assassinio! Mio figlio è stato assassinato e qualcuno deve pagare! E subito!>>
Leandro sostenne il suo sguardo, attendendo che si calmasse un po’ prima di rispondergli.
<<Cassiodoro, non affrettare le cose. Non puoi certo far condannare un uomo qualsiasi solo per placare la tua sete di vendetta. Ora non sappiamo con certezza se ci sia una mente umana dietro tutto questo e tu non puoi che attendere. Se è un uomo il responsabile sarà giustamente punito, ma tu non puoi macchiarti dell’omicidio di un innocente>>
Cassiodoro parve rasserenarsi alla promessa di giustizia dell’arconte. Dopo pochi istanti, però, cambiò completamente, tornando alla rabbia.
<<NO! Mio figlio è morto e questo deve essere riscattato con il sangue. Non m’importa nulla della tua giustizia, Leandro, se non mi consegni un colpevole da condannare e giustiziare>>
<<Ora basta, Cassiodoro! Non posso permettere neppure a te di parlare così empiamente nella mia dimora. Il Consiglio non è uno strumento di vendetta personale. Né tuo né di nessun altro>>
Cassiodoro proruppe in una risata sarcastica.
<<Proprio tu parli così Leandro? Tu che devi la tua carica ad una condanna emessa per interesse personale? Non venirmi a fare la morale: sei il meno adatto>>
L’arconte sgranò gli occhi ed il sangue gli defluì dal viso per la collera. Strinse con forza lo stilo che aveva tra le mani fino a farsi diventare le nocche bianche. Fissò il suo sguardo lampeggiante di collera in quello di Cassiodoro.
<<Il dolore ti sconvolge e le tue parole non sono dettate dalla tua volontà. Farò finta di non aver udito nessuna accusa uscire dalle tue labbra, ma sappi che se ti arrogherai questo diritto un’altra volta finirai i tuoi giorni nei sotterranei delle carceri. Ora esci di qui prima che cambi idea e che chiami gli armati>>
L’anziano lo guardò con rabbia, poi si alzò ed uscì sbattendo la porta. Leandro si lasciò andare sullo scranno, tenendosi la testa tra le mani.

<<Xena, che dici se oggi andiamo a fare un giro nel mercato? Sembrava molto ricco quando siamo arrivate ieri….>>
Olimpia era appoggiata al davanzale di un’ampia finestra ed osservava la piazza che si apriva di fronte al palazzo. La guerriera, invece, seduta allo scrittoio, osservava una mappa della zona che si era fatta portare per farsi un’idea di come procedere.
<<È un’idea>> le rispose distrattamente.
Il bardo si voltò per risponderle seccata, ma uno squillo di trombe riempì l’aria con le sue tonalità festose. Xena alzò gli occhi ed arrotolò la mappa, andandole vicino. Sorrise nel vedere l’espressione ancora sorpresa dell’amazzone, presa alla sprovvista dallo squillare delle trombe.
<<Che dici se ci andiamo nel pomeriggio? Mi è sembrato che ci fosse un mercante che portava delle essenze dall’Egitto>>
Il viso di Olimpia si distese in un ampio sorriso che Xena ricambiò.
<<Ti sei già fatta un’idea?>> chiese alla guerriera indicando con un gesto del capo la mappa arrotolata.
<<Più o meno. Anche se è molto strano>>
<<In che senso?>>
<<Bhè, non si comporta come un’animale normale. Sembra quasi che segua uno schema preciso. Tutti i morti sono stati trovati intorno ad una zona abbastanza circoscritta>>
Olimpia la guardò con aria interrogativa.
<<E cosa c’è di strano? Forse è la zona dove si trova la sua tana e non ci si allontana>>
<<Lo so, ci ho pensato anch’io, ma ho la sensazione che qualcosa non quadri come dovrebbe. Non credo sarà semplice come sembra. Sono stati uccisi dei cacciatori di professione e non accade spesso. Possibile che fossero tutti degli stolti?>>
<<Di sicuro nessuno era la Principessa Guerriera>> scherzò il bardo, strappandole un sorriso.
<<Ti preoccupi troppo: vedrai che sarà una passeggiata>> la guerriera non poté che scuotere la testa rassegnata di fronte al sorriso più che radioso di Olimpia.
Alcuni colpi alla porta attirarono la loro attenzione.
<<Chi è?>> chiese Xena.
<<L’arconte vi manda a chiamare: il pasto è pronto nella sala grande e siete attese>> le rispose una voce oltre la porta.
La guerriera sbuffò andando ad aprire e si trovò di fronte il servo che le aveva accompagnate il giorno prima.
<<Riferisci all’arconte che lo stiamo raggiungendo>>
Non attese neppure un cenno di assenso prima di chiudere il battente.
Olimpia rise divertita mentre la guerriera la fissava interrogativa.
<<La tua cortesia sta diventando proverbiale, lo sai?>>
Xena inarcò il sopracciglio destro provocando un’ulteriore risata dell’amazzone.
<<Se hai finito di ridere, io andrei>> le disse seccata riaprendo la porta. Olimpia la raggiunse continuando a sorridere.
<<La vuoi finire?>> insistette la guerriera.
<<No>> rispose il bardo e le posò un bacio a fior di labbra.
Sorridendo Xena scosse la testa con aria rassegnata, scostandosi per lasciarla passare per prima e le rifilò una pacca scherzosa sul sedere.
<<Ahia!>> il bardo si voltò di scatto sorpresa. Xena fece spallucce sorridendo soddisfatta.
<<Questa me la paghi>> le sibilò il bardo all’orecchio quando la guerriera l’affiancò.
<<Non vedo l’ora>> le rispose con una vena di malizia.
Insieme imboccarono un corridoio ampio e sorretto da colonne che conduceva ad un’altrettanto vasta sala dove trovarono una tavola preparata riccamente. L’arconte, seduto all’estremità opposta rispetto all’entrata, fece loro cenno con la mano. Raggiungendolo, le due guerriere sentirono su di loro gli occhi indagatori di tutti i presenti che le osservavano, lasciandosi sfuggire qualche commento che entrambe non mancarono di cogliere.
<<Mie carissime ospiti, vi prego di sedervi qui alla mia destra. Ho lasciato liberi questi posti appositamente per voi>> Leandro indicò con un ampio gesto della mano i due seggi vacanti. Xena gli rivolse un sorriso di circostanza che solo il bardo riconobbe come dettato dal disagio.
L’arconte si schiarì la voce per attirare l’attenzione di tutti i commensali ed attese che tutti gli occhi fossero diretti verso di lui.
<<Prima di ringraziare gli dei per l’abbondanza e la prosperità di Akrastas, voglio presentarvi due famose guerriere che hanno deciso di portare le loro armi a soccorso della nostra amata città>>
La guerriera notò come studiasse attentamente le pause da inserire nel suo discorso per manipolare il pensiero dei suoi ascoltatori.
“Ottimo oratore, pessimo bugiardo” pensò mentre l’uomo continuava a decantare le loro lodi.
<<Xena?>> il bardo attirò la sua attenzione chiamandola a bassa voce. La guerriera si voltò verso di lei e notò che le gote le si erano imporporate. Le sorrise gentilmente, facendole cenno con gli occhi di non preoccuparsi.
<<Forse sta un po’ esagerando…>> insistette l’amazzone.
<<Non è il primo e non credo sarà neppure l’ultimo oratore che enfatizza un po’ il discorso>>
<<Un po’?>> Olimpia la guardò ironica. La guerriera sospirò.
<<Va bene, ha esagerato>> si voltò verso Leandro con espressione seria.
<<Arconte, forse temi che andremo via se ti esimerai da dedicarci questo panegirico?>>
Leandro rimase un po’ spiazzato, provando a cavarsi d’impaccio con una risata. Il viso di Xena assunse un’espressione di soddisfazione.
<<Non ti avevo chiesto di metterlo in imbarazzo…>> le sussurrò l’amazzone ancora più rossa. La guerriera sogghignò un po’.
<<Non avevi detto che la mia gentilezza sta diventando proverbiale?>>
Quest’affermazione le fruttò un pestone da parte di Olimpia.
<<Vogliate scusarmi, ma le vostre imprese sono così straordinarie che meritano senz’altro di essere ricordate in ogni mensa in cui vi trovate a sedere, onorando i commensali con la vostra presenza>>
La guerriera sbuffò stufa.
<<Quel che è fatto è fatto, non è necessario ripeterlo ad ogni passo. L’unica cosa che invece andava detta non mi è parso di averla udita>>
L’arconte la guardò interrogativo, cercando però di mascherare la sua sorpresa agli occhi degli altri. Xena fu tentata dall’insistere con il suo tono ironico, ma si contenne, decidendo che l’imbarazzo che gli aveva procurato era più che sufficiente.
<<Mi riferisco al fatto che la nostra presenza qui è dovuta a quella della bestia che vi sta procurando così gravi preoccupazioni>>
Il solo nominare la piaga che terrorizzava la città sembrò congelare il tempo. Ad Olimpia parve quasi di sentire un vento freddo soffiare tra i commensali.
<<Suvvia, mia gradita ospite, non rattristiamo questo banchetto parlando di eventi così nefasti>> rivolse la sua attenzione all’amazzone.
<<Olimpia, permettimi di chiamarti per nome, la tua fama di guerriera è pari solo a quella di aedo. Vorresti allietare questa tavola con la tua abilità di narratrice?>>
Il bardo sorrise, accettando la proposta.
<<Preferisce qualche storia particolare oppure posso scegliere io?>>
L’arconte si prese il mento tra le dita, aggrottando le sopracciglia, rimanendo un po’ in silenzio mentre ripassava il suo repertorio narrativo.
<<Potresti raccontare il mito degli androgini>> una voce giovane venne dal fondo della sala attirando su di sé l’attenzione. Il viso dell’arconte si illuminò in un sorriso.
<<Teucro, figlio mio! Non speravo più che riuscissi ad arrivare in tempo! Vieni a sederti qui accanto a me>> indicò l’unico seggio ancora vuoto.
Xena lo guardò con attenzione: il viso, glabro, aveva tratti delicati ed armoniosi ed i capelli, tenuti fermi da una sottile fascetta di tessuto rosso, scendevano in ricci curati appena sopra le spalle. Notò gli sguardi lascivi che gli indirizzava più di una donna seduta alla tavola. Quando si sedette, la guerriera si rese conto della notevole differenza tra lui e l’arconte.
<<Certo, il mito degli androgini è anche uno dei miei preferiti>> rispose l’amazzone, abbassando un attimo lo sguardo dagli occhi verde scuro che il giovane le aveva puntato dolcemente sul viso. Xena rimase impassibile, lasciando che la voce di Olimpia, con il suo timbro dolce, plasmasse le parole per dare abilmente forma alla narrazione. Si lasciò trascinare dal flusso di immagini che il bardo stava evocando sapientemente, estraniandosi da tutto ciò che non fosse la sua voce.
<<Così, oggi, ognuno di noi è alla ricerca della metà perduta di se stesso che gli dei separarono per invidia. Ma sebbene in due corpi diversi, le anime continueranno ad essere una sola entità e non c’è potere, neppure quello degli Immortali dell’Olimpo, che possa scindere questo legame>>
Quando tacque più di uno dei presenti aveva gli occhi lucidi e Xena le sorrideva felice, carezzandole dolcemente la mano che l’amazzone le aveva posato sulla gamba sotto al tavolo.
L’applauso di Teucro ruppe l’atmosfera soffusa che si era creata.
<<La tua fama sminuisce la tua bravura. Nessuno era mai riuscito a farmi battere il cuore al ritmo delle tue parole>> il giovane accompagnò al complimento un sorrise che lo fece quasi risplendere.
Olimpia ringraziò chinando appena il capo senza lasciare la mano che Xena aveva intrecciato con la sua.
<<Sì, mio figlio ha assolutamente ragione: non ho mai ascoltato un racconto così meravigliosamente narrato. Non posso che ringraziarti, Olimpia. Ora, però, è giusto che si faccia onore alla tavola: non vorrei che i miei cuochi ne abbiano da risentirsi>>
Ad un suo cenno entrò una fila di servitori che portavano vassoi ricolmi d’ogni genere di cibo e che servirono in abbondanza.
Xena insistette con l’arconte per avere un quadro completo della difesa della città, deviando la conversazione su quali potessero essere i sistemi difensivi più efficaci.
Olimpia rimase in silenzio fino a quando sentì di nuovo su di sé gli occhi di Teucro. Voltandosi incrociò il suo sguardo e non poté che rispondere al nuovo sorriso che le stava indirizzando.
<<Sai, Olimpia, anch’io ho scritto delle pergamene. Certamente non sono neanche lontanamente paragonabili alle tue, ma mi farebbe molto piacere se mi facessi l’onore di leggerne qualcuna>>
<<Certo, lo farò con molto piacere. Però non c’è bisogno che mi decanti così: sono un bardo come ce ne sono tanti>> si portò la coppa alle labbra bevendone alcuni sorsi. Lo sguardo di Teucro si posò con attenzione sui muscoli del collo di lei che si contraevano al passaggio del vino. Quando riposò il boccale sul tavolo, lui le sfiorò la mano con la sua.
<<No, Olimpia, non ho mai sentito nessuno narrare con tanta intensità emotiva. Potresti far cadere ai tuoi piedi qualsiasi uomo solo accennando poche parole>> la guardò intensamente, stringendole appena la mano. Olimpia arrossì vistosamente, ritraendosi dalla sua stretta con delicatezza.
Con la coda dell’occhio notò che Xena era piuttosto presa dalla conversazione e sperò che non avesse né notato il gesto di Teucro né udito le sue parole. Ne sarebbe sicuramente derivata una gelosia tutt’altro che piacevole.
<<Ti ringrazio, sei molto gentile>> riuscì a dire, indecisa se respingerlo con decisione o cercare di farlo con più delicatezza.

di Nihal

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