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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo IX)

Parte 1

(52) Croft e Jennifer

 

Scendendo le scale che dal suo palazzo conducevano sulla strada, Brian Croft respira a pieni polmoni l'aria insolitamente tersa del mattino. Il sole più deciso delle ultime settimane aveva fatto presto capolino attraverso le tende del suo appartamento, destandolo da un sonno profondo e ristoratore che aveva fatto piazza pulita, come previsto, dei dubbi e dei tormenti del giorno prima. Faceva ancora molto fresco, ma di lì a poco i raggi della sfera luminosa che già brillava alta avrebbero trasformato il gelo notturno in una tiepida e piacevole giornata d'autunno inoltrato, quasi un'anticipazione d'estate indiana.

Incredibili i miracoli che poteva fare un buon sonno. Adesso le sue preoccupazioni di poche ore prima gli apparivano in tutta la loro assurdità. La notte non aveva portato spiegazioni alla sua strana avventura, ma Brian non pensava nemmeno che ve ne fossero da cercare. Preferiva invece concentrarsi sul lato positivo di quella sua passeggiata con la testa tra le nuvole. Il fatto che il caso, o la fortuna (non sarebbe stato male se la dèa bendata si fosse per una volta ricordata di lui), l'avevano fatto inciampare in qualcosa d'interessante. Di molto più interessante della morte di una povera mendicante che si prostituiva nei ritagli di tempo, ne era sicuro. E la presenza di un ufficiale di polizia importante come il capitano Carruthers sul posto ne era la migliore conferma. Così, mentre si radeva, aveva improvvisamente capito cosa fare, e con un rinnovato entusiasmo per la vita e la sua professione, si era vestito velocemente, si era gettato sulle spalle il solito soprabito ed era uscito, diretto verso il centro cittadino e la centrale di polizia.

Aveva rapidamente scartato l'ipotesi di prendere un taxi o un altro mezzo pubblico, tanto meno andare fino all'autorimessa dove teneva abitualmente la sua macchina. Era una mattinata troppo bella per sprecarla nel traffico. Se la sera prima si era fatto venti isolati a piedi senza accorgersene, una passeggiatina di un quarto d'ora non poteva costituire un problema.

Lungo la strada, Brian si era fermato davanti ad un'edicola dove aveva adocchiato la copertina del nuovo numero del View. La rivista aveva tutto l'aspetto e il profumo del prodotto appena uscito dalle stampe. La copertina patinata e luccicante al sole era dedicata ad un nuovo caso di misteriosi disegni nel grano, scoperto qualche giorno prima in una fattoria del Wisconsin. Quel film di quel regista dal nome impronunciabile (come s'intitolava?, Signs, ecco!), aveva riacceso negli ultimi anni l'interesse del grande pubblico nel fenomeno, e il View, come da tradizione, non si faceva mai sfuggire quelle correnti di curiosità collettiva che erano il suo pane. Ma, su un lato, subito sotto il titolo principale, c'era qualcosa che lo interessava molto di più.

 

"HO VISTO IN SOGNO THE OGRE!"

 

sparava a caratteri abbastanza grandi e in grassetto una frase virgolettata, e sotto ancora, più in piccolo, ma altrettanto in evidenza

 

lo stupefacente racconto di una medium ad un nostro inviato

 

Un nostro inviato, pensa Brian, scuotendo la testa con rassegnazione. Hannigan si sarebbe fatto scuoiare ed impalare vivo prima di concedergli la soddisfazione di mettere il suo nome in copertina.

Al diavolo! Fatti un giro, stronzetto impettito, non ti permetterò di rovinarmi l'umore, stamattina!

Aveva preso una copia dalla pila che l'edicolante doveva avere appena sistemato ordinatamente su un panchetto e aveva cominciato a sfogliarla rapidamente alla ricerca del suo articolo, incurante delle occhiatacce che l'uomo gli lanciava.

L'articolo, questa volta debitamente firmato, si trovava esattamente in corrispondenza delle pagine centrali (buona cosa, erano quelle che si aprivano quasi automaticamente quando prendevi in mano la rivista) e quindi probabilmente sarebbe stato il primo ad essere letto, o quanto meno scorso.

Ad una prima veloce disamina, non gli pareva che fosse stato tagliato o ritoccato, e Brian se ne era riletto alcuni passaggi con compiacimento. Non sapeva che farci. Nonostante fosse ormai un giornalista professionista da anni, vedere stampata nero su bianco qualcosa pensata e scritta da lui gli dava sempre un leggero senso di euforìa.

Riposta senza troppa cura la rivista in cima al mucchio di sue sorelle, si era allontanato fischiettando, mani in tasca, senza neanche degnare di uno sguardo l'edicolante (un nero alto quasi due metri che somigliava in maniera impressionante a Michael Jordan) che gli borbottava dietro, mentre la risistemava nervosamente sulla pila accuratamente ordinata.

Brian aveva così ripreso la sua strada, notando che era già quasi arrivato a destinazione. Il quartier generale della polizia metropolitana era proprio dietro l'angolo, e stava per apprestarsi ad attraversare, quando aveva visto un taxi fermarsi dall'altra parte della strada e una donna scenderne.

La prima reazione era stata di pura ammirazione. Dopo essere scesa, la donna si era fermata un attimo per guardarsi intorno, come se non fosse ben sicura di dove andare, ma poi si era avviata nella stessa direzione che stava per prendere lui. Una donna piuttosto alta, lunghi capelli scuri tirati indietro in una fluente coda di cavallo che le scendeva su una spalla, occhiali neri grandi, ma non abbastanza da nasconderle il naso diritto e proporzionato, gli zigomi alti e la bocca piccola e carnosa. Tutti dettagli che lo sguardo allenato di Brian riusciva a distinguere anche da lontano. E quindi, non aveva certo problemi a notare il corpo snello, il seno ben disegnato che spingeva proprompente dalla camicetta che si intravedeva sotto il soprabito di colore chiaro, sbottonato, e le gambe slanciate emergenti da una gonna corta, ma non troppo.

All'inizio, Brian aveva lasciato che il suo gusto per la bellezza femminile prendesse il sopravvento, gustandosi, mentre la seguiva ad una certa distanza, l'andatura flessuosa di lei, ma poi quando la donna aveva imboccato le scale che portavano all'ingresso della centrale di polizia e si era voltata per un attimo indietro, come se avesse avvertito di essere osservata, l'aveva riconosciuta con stupore.

Ormai la distanza tra loro si era ridotta a sufficienza da non lasciargli dubbi, nonostante gli occhiali neri ed un'aria e un portamento molto diversi da quelli della prima volta che si erano incontrati.

"Dottoressa Rowles." Brian si avvicina con la mano tesa verso la donna che lo fissa attraverso le lenti scure. "Mi fa piacere rivederla. La trovo molto bene."

"Signor Croft." Jennifer tende a sua volta la mano all'uomo con istintiva cautela.

"Non mi aspettavo d'incontrarla da queste parti. Credevo che avesse interrotto ogni sua collaborazione con la polizia."

"Ho ancora degli amici qui, signor Croft. Se adesso mi vuole scusare..." e Jennifer fa per voltarsi e andarsene.

"Aspetti." la ferma Brian, mettendosi al suo fianco. "Stavo per entrare anch'io. Magari abbiamo amici comuni."

"Ne dubito." ribatte Jennifer, affrettando il passo per le scale.

"Io sono qui per parlare con il capitano Carruthers. E lei?"

Colpita e affondata, pensa Brian con un sorrisetto. Jennifer si blocca per una frazione di secondo con un piede tra un gradino e l'altro, poi riprende a salire, lo sguardo fisso davanti a sé, cercando di dissimulare i suoi pensieri.

"L'attende?" chiede con fare casuale.

"No, non credo. Vorrei solo fargli un paio di domande."

"Non penso che le sarà facile, signor Croft. Il capitano è molto occupato in questi giorni."

"Sì, l'ho sentito dire."

Superata la grande porta a vetri automatica fianco a fianco, i due si erano trovati nella grande sala d'ingresso, dove su una parete laterale si trovava la grande lastra in marmo nero per l'individuazione dei vari uffici. Erano passati attraverso la porta elettronica per la rilevazione dei metalli, giungendo infine alla reception vera e propria, dove un anziano poliziotto era intento a controllare alcuni schermi.

"Buon giorno, dottoressa. Che piacere. Come sta?" L'uomo balza subito in piedi, sporgendosi sul suo banco, con un largo sorriso sulle labbra.

"Salve Bernie." risponde sorridendo Jennifer. "Meglio, grazie."

"La prego, mi dica che è tornata a lavorare con noi."

Continuando a sorridere all'uomo, Jennifer si toglie gli occhiali, gettando un'occhiata a Croft che, sempre accanto a lei, l'osserva con aria sorniona. Guardandola con attenzione, senza più la protezione delle grandi lenti nere, ora Brian è in grado di notare i segni evidenti, anche se ritoccati da un sapiente trucco, dei difficili mesi trascorsi. La pelle un po' più scura intorno agli occhi e un po' troppo chiara sul viso. Un pallore generale che però sembra accentuare la sua bellezza, anziché diminuirla.

"No, Bernie, mi dispiace." risponde lei, fingendo d'ignorare i suoi sguardi, all'anziano poliziotto che la fissa con aria adorante. "Hai visto il capitano Carruthers?"

"L'ho visto uscire presto questa mattina, dottoressa. Credo fosse diretto in procura. Se è una cosa importante posso provare a rintracciarlo."

"Non importa. Avrei dovuto..."

Breve esitazione, ed altra occhiata di sottecchi a Brian, che in quel momento stava mostrando un interesse esagerato per una serie di pieghevoli che illustravano al cittadino perché poteva fidarsi delle forze di polizia che erano lì all'unico scopo di proteggerlo e servirlo.

"...Avrei dovuto incontrarlo a pranzo" prosegue Jennifer "ma ho avuto un impegno improvviso, e purtroppo non ho potuto avvisarlo. Ho il cellulare che non funziona. Posso lasciargli un messaggio?"

"Ma certo!". Bernie schizza letteralmente ad un lato del suo bancone e torna con un foglio ed una matita. "Mi dica pure."

"Vorrei scrivergli io due parole, se non ti dispiace."

"Ma certo!" ripete Bernie. "Sicuro! Nessun problema!"

L'uomo passa il foglio e la matita a Jennifer che mettendosi di spalle a Croft (che comunque pare sempre più preso dal suo interessantissimo opuscolo) scrive qualcosa, poi piega il foglio e lo riconsegna al poliziotto.

"Mi raccomando. Assicurati che lo riceva." dice Jennifer, regalandogli un'altro dei suoi più incantevoli sorrisi.

"Glielo consegnerò di persona." afferma Bernie solennemente, sottintendendo che Dio proteggesse chiunque avesse cercato di impedirglielo.

"Grazie." Con un ultimo sorriso all'uomo, Jennifer inforca nuovamente i suoi occhiali e si volta verso Brian, che ora è tornato a fissarla. "Beh, ora devo proprio salutarla, signor Croft."

"Oh, tanto esco anch'io." dice il giornalista. "Visto che Carruthers non c'è..."

"Bene, buona giornata." Jennifer si dirige verso l'uscita.

"Aspetti."

La donna si volta con fare irritato verso Brian che la sta seguendo scarabocchiando qualcosa su una busta spiegazzata.

"Signor Croft, come posso farle capire in maniera sufficientemente educata che vorrei essere lasciata in pace?" chiede.

"Tenga." Brian le tende la busta sulla quale sono stati scritti alcuni numeri di telefono. "Sono del mio ufficio al giornale, di casa mia e anche del cellulare."

La donna lo guarda interrogativamente, senza fare l'atto di prenderla.

"E che cosa dovrei farne?"

"Lei sta collaborando con Carruthers al caso dei bambini rapiti e uccisi. Non lo neghi."

"Io non lavoro più con la polizia, e comunque, non vedo come la cosa possa riguardarla." ribatte Jennifer, continuando a camminare e riattraversando l'area del metal detector.

"Mi riguarda perché il mio giornale segue l'inchiesta." Anche Brian passa sotto la porta e si riaffianca a lei.

"Come ogni altro giornale. E comunque, lei non era già abbastanza occupato ad indagare sulla morte della sua amica?"

"Infatti, e non mi chieda perché ma sospetto che le due cose possano essere collegate in qualche modo."

Ancora una volta, un'affermazione di Brian pareva aver colpito in un punto sensibile la psicologa, che si arresta in cima alle scale esterne, mentre la porta automatica con un silenzioso pffft si richiude alle loro spalle. Anche attraverso le lenti scure, Brian riesce a vedere l'espressione accigliata dei suoi occhi.

"Che significa questo?" chiede la donna gelidamente.

"Gliel'ho detto. Non lo so." Brian le tende nuovamente la busta con i numeri scritti sopra. "Ma la prego, li prenda. Senza impegno. Per ogni eventualità. Ora che non ha più a disposizione la procura, potrebbe tornarle utile qualche altro aiuto."

L'esitazione nell'attegiamento rigido che Jennifer ostenta appare ancora più evidente.

"Tanto non ho intenzione di chiamarla." dice.

"Come le ho detto, senza impegno."

Lentamente Jennifer solleva la mano.

"E lei mi lascerà in pace?"

"Parola. Se non mi chiamerà lei, io non la cercherò."

Jennifer prende la busta e l'infila nella tasca del soprabito.

"Va bene." mormora infine. "Ma adesso ci salutiamo davvero."

E con un rapido cenno del capo, la donna se ne va, scendendo agilmente e con grazia le scale, mentre Brian la guarda svanire in lontananza, tra la folla. L'uomo resta immobile per qualche momento tra la gente che gli passa accanto, poi fa per voltarsi e tornare all'interno dell'edificio e in quell'istante, qualcosa colta con la coda dell'occhio, raggiunge la piccola parte del suo cervello non sommersa da mille pensieri e dubbi, e si gira per trovare conferma a quella sensazione. Era stato solo un attimo, poco più che un lampo oscuro tra gli sciami di passanti che come formiche operose s'incrociavano, mescolandosi tra loro sul marciapiede sotto di lui, ma gli era proprio sembrato di vedere...

Brian rimane ancora fermo per qualche secondo scrutando la massa di persone in movimento, quindi scuotendo la testa, torna a dirigersi verso la grande porta a vetri.  

 

 

(53) Xena e Olimpia

 

"Come va?"

"Sto bene, Olimpia. Smettila di chiedermelo in continuazione."

Olimpia fissa la compagna con preoccupazione, mentre le due donne, con Alexi che le segue a distanza di qualche passo su istruzioni della guerriera, avanzano con estrema circospezione attraverso la sempre più fitta boscaglia, esaminando ogni arbusto e cespuglio, alla ricerca di tracce che indichino la strada da seguire.

"Qui." segnala ad un tratto Xena, attirando l'attenzione della compagna. "Devo avere attraversato esattamente questo punto."

Avvicinandosi, Olimpia nota alcuni rametti spezzati al suolo ed un ramo più grosso a circa quattro piedi da terra, tagliato quasi di netto da quello che è evidentemente un colpo di spada.

"Non si può dire che tu abbia usato molta cautela nel muoverti." osserva con un sorriso.

"Non ne avevo il tempo. Ti credevo in pericolo."

I loro sguardi s'incontrano per un momento, poi entrambe tornano a concentrarsi sulla ricerca di altre tracce.

"Senti qualcosa?" chiede Olimpia, scostando con un braccio un ramo basso, a cui sono state strappate alcune foglie.

"Ancora niente."

"Ma lui ha sentito noi." dice improvvisamente Alexi, facendole quasi sobbalzare. L'uomo si muove silenziosamente alle loro spalle, tanto da aver quasi fatto dimenticare la sua presenza alle due donne. Olimpia si volta verso il giovane.

"Avverti qualcosa, Alexi?"

"No, non proprio. Niente di... fisico. E' difficile da descrivere..." risponde Alexi, girandosi intorno, come cercando di individuare l'origine delle sue sensazioni. "E' come una specie di vibrazione nell'aria. Voi non la sentite?" chiede.

Xena e Olimpia si fermano e tacciono, provando a loro volta ad ascoltare oltre il silenzio della foresta.

"Sì. Adesso sì." mormora Olimpia. "Non me ne ero accorta, prima che me la facessi notare tu. Però a me sembra che provenga dal basso, da sottoterra. La senti, Xena?"

"Si, forse." dice a bassa voce la guerriera, quasi come parlando a se stessa. "Molto debolmente. E' strano che non l'avessi notata prima. Quanto distiamo ancora, secondo te?" chiede poi, lanciando un'occhiata all'uomo, mentre riprende a sondare il suolo.

"Non molto." risponde questi. "Riconosco quell'albero curvo." aggiunge, indicando con il dito una quercia dal fusto molto ampio che cresce quasi orizzontalmente al terreno."Ricordo che quando venni qui, quella volta, pensai che gli alberi crescevano nelle più strane posizioni in questa zona. Guardate. Danno quasi l'impressione di volersi allontanare da qualcosa. Non vi sembra?"

Effettivamente, guardandosi intorno, Olimpia comprende quello che Alexi sta sforzandosi di dire. Ora che li guarda bene, man mano che si avvicinano al punto più folto della foresta, i tronchi sembrano davvero tutti piegarsi nella direzione opposta a quella verso cui loro sono diretti, proprio come se cercassero di sradicarsi dal terreno e fuggire. E contemporaneamente, quella sensazione indescrivibile di tensione nell'aria sembra mutare in una sottile angoscia che lentamente sta penetrando dentro di lei.

"Sì." dice Alexi a bassa voce. "Siamo vicini, molto vicini. Credo non più di un centinaio di passi dopo l'albero."

Xena rimane un attimo immobile, poi con un'improvvisa decisione, si slega il fodero con la spada dalla schiena e stacca il chakram dalla cintura, tendendoli ad Olimpia.

"Ma cosa...?" La ragazza la fissa sorpresa e preoccupata. "Che significa?"

"Tienili tu, Olimpia." dice la guerriera. "Saranno sicuramente più sicuri in mano tua."

"Xena, io non..."

"Ti prego, fai come ti dico." Xena continua a stringere in mano le sue armi, porgendole alla compagna. "Se quel demonio dovesse nuovamente impadronirsi della mia mente, non voglio che tu corra rischi."

"E se invece s'impadronisse della mia?" chiede Olimpia piano, mentre si allaccia la spada alla schiena, assicurando anche il chakram alla stessa cintura come ha fatto la sera precedente.

"Spero che con te non ci riesca." dice Xena con un sorriso in cui aleggia un velo di tristezza.

"E io spero che tu abbia ragione." mormora la ragazza sorridendole di rimando. "Come pensi di agire?"

"In nessun modo. Per ora mi limiterò a studiare il posto e a cercare di capire se davvero quella cosa è più debole di giorno."

"E come?"

"Mi apposterò il più possibile vicino alla sua tana. Se il suo potere diminuisce alla luce del sole, forse non sarà in grado di influenzarmi."

"Xena, quella cosa poche tacche fa ti ha fatta quasi impazzire, ed eri lontana dalla foresta. Come puoi pensare che avvicinandoti a lei, anche se di giorno, non le resti sufficiente potere da..."

"Infatti non posso esserne sicura, Olimpia." La guerriera prende per un braccio la compagna, e le due donne si allontanano di qualche passo da Alexi che si è messo a sedere su un tronco d'albero abbattuto su un lato dello stretto sentiero.

"Ma devo saperlo." La voce di Xena è poco più che un sussurro. "Devo rendermi conto di persona di quanto il mio lato oscuro mi renda vulnerabile a quell'essere, e questo è un modo per scoprirlo. Adesso seguimi" aggiunge, alzando un po' il tono, perché anche Alexi la possa sentire "ma tieniti ad una decina di passi di distanza dietro di me." Poi, rivolta al giovane che le sta osservando: "E tu, vienici dietro, ma mantieni un'uguale distanza da lei."

Quindi, la guerriera alza la testa per guardare lo spicchio di cielo visibile tra il fogliame alto.

"Muoviamoci. E' una giornata limpida come poche, ma in questo periodo dell'anno, il sole tramonta presto e non possiamo correre il rischio di trovarci ancora qui quando accadrà."

E con queste parole, Xena s'infila tra la vegetazione, e in un attimo solo un leggero fruscio tra le foglie ne testimonia la presenza.

"Questa faccenda non mi piace per niente." borbotta Olimpia, seguendola dopo qualche attimo e voltandosi solo un momento per lanciare un'occhiata ad Alexi dietro di lei. "Sole o no, nella sua tana il suo potere è molto forte. Tu ci sei stato di giorno e per poco non t'inghiottiva."

Senza rispondere, l'uomo le segue a sua volta e i tre scompaiono nel folto.

 

crack!

Il rumore secco e la netta percezione sotto la suola dello stivale di qualcosa di più duro del terreno erboso del bosco, ma di più friabile di una pietra, bloccano all'istante Olimpia e Alexi che cammina dietro di lei, ma adesso ad una distanza inferiore a quella richiesta da Xena, mentre la guerriera che li precede si ferma di scatto a sua volta nell'udire il suono alle sue spalle.

"Che c'è?" chiede a bassa voce. "Cosa hai calpestato?"

"Non lo so." risponde la ragazza, chinandosi e tastando il terreno sotto la folta erba. "Dalla forma sembrava un sasso, ma si è frantumato subito e...".

La voce di Olimpia si spegne in un soffio, mentre solleva la mano tenendo qualcosa di ancora imprecisabile tra le dita. Appena la comprensione di ciò che sta stringendo le arriva al cervello, la ragazza schizza in piedi, lasciando cadere contemporaneamente il piccolo oggetto in frammenti ai suoi piedi.

"Dèi dell'Olimpo!" esclama, cercando di trattenere l'impulso di urlare che sente spingerle in gola. "Xena, guarda!"

Colmando in un balzo la distanza tra loro, Xena si accoscia in terra, per cercare di vedere la cosa caduta dalla mano di Olimpia e che ora è nuovamente nascosta dall'erba alta.

"Sono ossa. Umane." mormora Olimpia con gli occhi spalancati. "Il cranio... E' questo che ho calpestato. E queste sembrano le vertebre." Il tremito nel dito con il quale indica i minuscoli oggetti sparsi e in parte sepolti sotto un leggero strato di terra è evidente.

"Doveva avere solo pochi mesi." dice Xena, disseppellendo un frammento di teschio con un orbita vuota e la piccola fessura corrispondente al naso, incrostate di terra.

"Povero piccino. E' stato lui?" chiede Olimpia, mentre un'eco di rabbia si fa strada nella sua voce. "Lo ha... divorato?"

"No. Direi di no. Almeno non nel senso che intendi tu." Xena sposta con la mano l'erba e la terra residua sul piccolo scheletro, rivelandolo quasi nella sua interezza. La spina dorsale, le costole, il bacino, le minuscole braccia e gambe. Il cranio, calpestato dallo stivale di Olimpia, e ridotto in schegge è l'unica parte non intera di un'ossatura altrimenti intatta.

"Acros e i suoi accoliti li portano qui e ve li abbandonano a morire." Alexi si è inginocchiato accanto a loro e fissa come ipnotizzato le ossa ormai ingiallite dal lungo contatto con il terreno umido, parlando lentamente. "E mentre muoiono, la Bestia assorbe la loro forza vitale. Non ha neanche bisogno di uscire dal suo rifugio per impadronirsene. E questo è ciò che ne resta. Ce ne devono essere molti qui intorno."

L'attenzione del giovane d'improvviso si sposta sullo sguardo, pieno di rabbia ed orrore, che adesso Olimpia sta puntando su di lui, mentre la sua espressione passa dalla perplessità allo sconcerto.

"Tu lo sapevi! Tu e tuo padre lo sapevate!" sibila, furente la ragazza, mentre grandi lacrime le scorrono sul viso. "E non avete fatto niente?!? Tutto questo tempo, li avete lasciati qui a piangere e urlare per il freddo e la paura, mentre quella... cosa disgustosa si nutriva di loro?!?"

E la sua mano chiusa a pugno si abbatte con tutta la sua forza sul volto del giovane, che sotto l'impatto improvviso cade all'indietro e resta disteso, immobile, fissandola, troppo sorpreso per poter dire o fare qualunque cosa, mentre un rivolo rosso gli emerge da un angolo della bocca.

"Olimpia!" Xena scatta ad afferrare la compagna prima che questa possa gettarsi sull'imbambolato Alexi, stringendola per la vita e tenendola ferma contro il suo corpo. "Ehi! Calmati!"

Ma la rabbia sta rapidamente scemando nell'espressione di Olimpia, mentre il suo corpo è scosso dai singhiozzi ed un dolore quasi fisico sembra pervaderla.

"Xena. Quei poveri bambini." La ragazza si gira verso di lei e le getta le braccia al collo, nascondendo il viso contro la sua spalla. La guerriera la stringe a sé più forte che può, lasciando che i singhiozzi si calmino gradatamente.

"Lo so, piccola, lo so. Calmati adesso. Ho bisogno che tu mantenga tutto il tuo sangue freddo."

"Ma hai sentito come ne parlava?" Olimpia solleva la testa dalla spalla di Xena, gettando un'ultima occhiata rabbiosa verso Alexi, che adesso si sta alzando lentamente da terra, sempre fissandola con uno sguardo tra il sorpreso e l'impaurito. "Come... come se non gliene importasse niente! Come se quelle povere creature fossero... vittime sacrificabili... predestinate... in una loro guerra personale!"

"Olimpia..." prova a dire Xena.

"Ma non capisci?" Gli occhi della ragazza sono gonfi di lacrime, mentre si aggrappa a lei, stringendola alle braccia. "E' per questo che abbiamo avuto quella discussione ieri sera. Non volevo parlartene, ma è questo che siamo... che sei anche tu, per loro. Una pedina in più da usare in questa orribile partita. E magari da immolare senza troppi rimpianti, in attesa della prossima mossa."

Xena, con gli occhi inchiodati in quelli della sua compagna, le prende il viso tra le mani, asciugandole le lacrime con la punta delle dita.

"Dài, calmati adesso." dice a bassa voce, appoggiando la propria fronte a quella dell'altra. "Ora ho bisogno di te. Di quella donna forte e meravigliosa che sei e a cui affiderei la mia vita senza esitare."

Olimpia tira su con il naso e solleva le labbra fino a sfiorare quelle di Xena in un bacio leggero che avverte però trasmetterle tutta la sua forza e restituirle in parte la calma.

"Stai meglio?" le chiede Xena. "Coraggio." aggiunge al suo silenzioso cenno d'assenso. "Andiamo."

E questa volta facendo molta attenzione a dove posare i piedi, il gruppetto riprende la marcia, con Alexi, ammutolito e in posizione molto più arretrata di prima.

 

 

(54) Carruthers

 

Il capitano Carruthers richiude lentemente la porta dell'ufficio del procuratore, cercando di mantenere la calma e trattenendosi dallo sbatterla violentemente dietro di sé. Fin dal mattino, l'istinto che ormai aveva sviluppato da anni nel fiutare le brutte giornate, lo aveva avvisato che quella che era appena iniziata non sarebbe stata una di quelle piacevoli. Come ieri, del resto, si era detto, tirando giù le gambe dal letto, impregnato ancora del sudore di una notte agitata, e quella prima, e quella prima ancora. D'altronde, da quanto non c'erano più giornate che si potessero definire piacevoli nella sua vita?

Passando per il salotto, aveva lanciato un'occhiata al telefono. Era il caso di riprovare?

La sera prima aveva perso il conto delle volte che aveva cercato di parlare con Jennifer, ma tutte le volte il segnale della linea occupata era stata l'unica risposta ai suoi tentativi. Il cellulare della donna doveva essere guasto o scarico, e da quando si era trasferita non aveva più neanche l'apparecchio fisso, quindi Carruthers non sapeva come mettersi in contatto con lei. Aveva anche pensato di prendere la macchina ed andarci direttamente, ma poi in uno sprazzo di lucidità si era ricordato che la sua macchina era in officina, e inoltre come l'avrebbe potuto interpretare Jennifer, se l'avesse visto piombarle in casa di notte solo per dirle che c'era una vaga possibilità che si trovasse in pericolo? E per di più basandosi su un ragionamento contorto e pieno di falle che anche mentre ci ripensava, radendosi davanti allo specchio del bagno, gli pareva sempre più campato in aria?

No, aveva deciso alla fine, molto meglio soprassedere. Il suo rapporto di amicizia con Jennifer si era riannodato miracolosamente, ma con fili non più solidi di quelli di una ragnatela, e sarebbe bastato un nulla per spezzarlo, stavolta definitivamente. E questo non lo voleva. Non lo voleva davvero.

Così, una volta rasato e vestito aveva fatto una smorfia guardando l'ora (i suoi abituali tempi non avevano tenuto conto della mancanza di un mezzo proprio), e aveva chiamato in centrale, chiedendo che gli fosse mandata un'auto, e nell'attesa, in barba a tutti i suoi proponimenti, si era ritrovato a comporre ancora una volta il numero della psicologa. Si era pentito di averlo fatto nel momento stesso in cui aveva premuto l'ultimo numero e quando dall'altra parte aveva sentito il solito segnale della linea non raggiungibile, se ne era sentito quasi sollevato.

Se si fosse soffermato a pensare anche solo per qualche attimo a come mai l'idea di parlare con la sua amica doveva essere una tale fonte di dubbi ed angosce, forse questo avrebbe potuto dare il via ad un interessante serie di riflessioni, che seguite fino alla logica conclusione, lo avrebbero probabilmente riempito di sorpresa e sgomento, ma non l'aveva fatto, per una qualche misericordiosa forma di autodifesa mentale, e quindi era un uomo sostanzialmente tranquillo quello che aveva fatto il suo ingresso una ventina di minuti più tardi nel suo ufficio alla centrale di polizia.

Tranquillità, che per quanto superficiale ed approssimativa potesse essere, aveva salutato con rammarico nel momento in cui aveva letto la nota che gli era stata lasciata in bell'evidenza sulla scrivania.

Ore 8,45 a.m., aveva scritto qualcuno dei suoi in una calligrafia che non riusciva a identificare, l'ha cercata il Procuratore Ballister. Le chiede di recarsi immediatamente da lui, appena arriverà in ufficio. E subito sotto: Ore 9,15 a.m. Il Procuratore Ballister ha chiamato di nuovo.

Il misterioso scrittore di annotazioni non aveva aggiunto altro, ma lo spazio vuoto che seguiva alla seconda nota, parlava più chiaramente di qualunque frase scritta.

Aveva dato un'occhiata al suo orologio. Erano le nove e quaranta. Quasi mezz'ora dall'ultima chiamata di Ballister. Il destino, come al solito, aveva scelto il momento migliore per mettergli la macchina fuori uso e farlo arrivare in ritardo in ufficio. Carruthers aveva considerato velocemente la situazione. Con un'auto di servizio sarebbe arrivato in procura in una decina di minuti, traffico permettendo. Prima, sperabilmente, che Ballister chiamasse ancora. Quindi meglio muoversi subito, e rimandare a poi la telefonata che voleva fare in officina per sapere se avevano scoperto per quale motivo la sua macchina si era rifiutata di ripartire il giorno prima, o un nuovo eventuale tentativo di rintracciare Jennifer. Ed ancora una volta, quello strano miscuglio di voglia e, al tempo stesso, timore di parlare con Jennifer Rowles, non aveva colpito e neanche scalfito lievemente il solido muro di razionalità che proteggeva il capitano George Carruthers, lasciando che il suo pragmatismo lo tenesse concentrato su quanto poteva attendersi dal suo prossimo colloquio con il procuratore, ed impermeabile ad ogni altra sensazione.

 

Qualunque altra emozione avesse potuto, più o meno incosapevolmente, agitarsi nel profondo della sua anima, era stata letteralmente spazzata via dal suo incontro con Kennet G. Ballister, Procuratore Capo, come recitava l'insegna in metallo placcato d'oro fuori dalla sua porta, futuro sindaco della città e successivamente governatore dello stato, come proclamavano invece le sue ambizioni non troppo nascoste nelle cerchie politiche che contavano. E quanto il procuratore tenesse a mantenere inalterate queste sue prospettive di carriera, Carruthers aveva subito potuto toccarlo con mano, appena oltrepassata quella porta.

"Entri." aveva esordito seccamente Ballister, vedendolo sulla soglia. "E chiuda la porta."

Il capitano aveva eseguito e se ne era rimasto immobile, in piedi, sul folto tappeto di foggia orientale che arredava il pavimento del grande ufficio, silenziosamente in attesa di un invito a sedersi che non sembrava voler arrivare. Invece, il procuratore si era alzato, e girando intorno alla sua scrivania, di un qualche lussuoso tipo di legno che Carruthers non riconosceva, si era andato a posizionare esattamente al centro della stanza, a cinque o sei metri di distanza da lui, con fare riflessivo e braccia incrociate.

"Questa mattina ho dovuto farle telefonare tre volte, Carruthers. Come mai non era in centrale?"

Così, dannazione, non ce l'aveva fatta ad arrivare prima che lo chiamasse ancora.

"Mi dispiace, signore. Ieri sera mi si è guastata la macchina e ho dovuto farmene mandare una di servizio. C'è voluto più di quanto pensassi."

Senza commentare la sua risposta, Ballister aveva continuato a squadrarlo per qualche secondo, facendo valere la sua statura superiore a quella del poliziotto. A Carruthers, quella situazione ricordava qualche spiacevole esperienza liceale, quando alcuni suoi comportamenti giudicati non in linea con l'etica scolastica lo avevano inviato nell'ufficio del preside, il signor Prescott, un ometto azzimato, piccolo e calvo, che nonostante la sua aria dimessa era un autentico terrore per tutti quegli studenti che avevano la disgrazia di cadere sotto le sue grinfie. Il signor Prescott non era uno che parlava molto. Non ne aveva bisogno. Si abbassava gli occhialini da miope che portava continuamente sul naso e fissava il reo, e quello sguardo da solo era sufficiente, come per magia, a trasformare anche il più refrattario dei teppistelli, come li chiamava, in un fascio di nervi che non vedeva l'ora di sottrarsi a quella tortura silenziosa per scappare di là e non doversi mai più trovare davanti a lui. Carruthers non era mai riuscito a spiegarsi come facesse, visto che la metà degli studenti del suo liceo erano giovani energumeni, che avrebbero potuto farlo volare dall'altra parte della stanza con un semplice schiaffetto, ma il trucco qualunque fosse funzionava sempre, come anche lui, nonostante non facesse parte certamente dei peggiori elementi del gruppo, aveva avuto modo di sperimentare. E quell'ometto che, la sera, smesse le sue funzioni di rigido difensore della moralità del liceo Southwood, immaginava tornasse alla sua modesta vita di tranquillo cittadino come tanti, aveva sempre avuto tutto il suo rispetto. Per cui ora lo irritava non poco avvertire quelle stesse impressioni al cospetto di un individuo che invece disprezzava profondamente come pochi altri. Eppure non poteva evitarlo e, con una grande rabbia nel cuore, aveva finito per abbassare il suo sguardo, sotto quello inquisitore dell'altro.

Forse, pago di questa sua vittoria, Ballister si era voltato con uno scatto e si era portato con passi lunghi e atteggiamento studiato davanti alla grande finestra che illuminava il suo ufficio. Da lì si potevano vedere gli alti alberi del parco cittadino e palazzi a perdita d'occhio, fino ad arrivare al breve scorcio di oceano che era appena visibile sullo sfondo, ma Carruthers era pronto a scommettere che Ballister non stava guardando niente di tutto questo. Quello che fissava era il proprio riflesso nel vetro. E a conferma di questa intuizione, il procuratore si era aggiustato il nodo della cravatta, prima di girarsi nuovamente verso di lui e tornare con passo altrettanto studiato alla sua scrivania.

"A proposito di ieri sera, capitano" aveva detto, riaccomodandosi nella confortevole poltrona e continuando a guardarsi bene dal concedere all'altro di fare lo stesso "mi risulta che lei si sia recato sul luogo di un delitto."

E Ballister non aveva aggiunto altro, in attesa della sua risposta. Il tono era discorsivo, quasi affabile, ma Carruthers sapeva riconoscere un sottofondo minaccioso, quando ne sentiva uno. E così il Grande Stronzo l'aveva saputo. Non gli interessava neanche capire come avesse fatto. L'unico pensiero intorno al quale mulinava la sua mente era che cosa avrebbe potuto dirgli. Ed in realtà, quanto ne sapeva il procuratore? Se avesse ammesso di essere stato chiamato da Price, avrebbe rischiato di compromettere anche lui? O Ballister sapeva già tutto? In ogni caso, aveva scelto la soluzione più semplice.

"Il sergente Price mi aveva fatto chiamare perché la vittima risultava essere quella mendicante che aveva ritrovato le ossa sepolte nel parco, ma dai rilevamenti non sembrano esserci elementi di contatto tra le due cose. Quella donna è rimasta probabilmente uccisa in una lite tra barboni per una bottiglia o..."

"PROBABILMENTE?!" aveva tuonato la voce di Ballister, sottolineata da un pugno sbattuto con violenza sulla scrivania, facendo sobbalzare il poliziotto. Il procuratore era famoso per la sua calma olimpica. Gelido, a volte tagliente, si era fatto la nomea dell'uomo che non perdeva mai le staffe e riusciva a mantenere la sua imperturbabilità anche nelle situazioni di maggior tensione. Per quanto si sforzasse, Carruthers non ricordava di averlo mai visto infuriato come gli appariva in quel momento. Era schizzato in piedi dalla poltrona, che per l'improvviso scatto in avanti del suo occupante, era stata scagliata contro la parete, ed ora, appoggiato con entrambe le braccia alla scrivania, si sporgeva in avanti verso Carruthers (che adesso era lieto di non essere stato invitato a sedersi ed era istintivamente arretrato di un passo, avvertendo la rassicurante presenza della porta alle sue spalle), con gli occhi arrossati dalla rabbia e la bocca serrata.

"Probabilmente?" aveva ripetuto in una specie di sibilo. "La testimone dell'occultamento di un cadavere viene uccisa poche ore, forse pochi minuti, dopo il suo rilascio, e lei non trova di meglio che venirmi a dire che probabilmente è morta in una rissa? Che si sarebbe trattato di una semplice coincidenza?"

"Ma allo stato dei fatti..." aveva provato a dire Carruthers, non ben sicuro neanche lui di come proseguire la frase. Ma l'imbarazzo gli era stato gentilmente evitato dalla pronta reazione del procuratore che aveva battuto ancora una volta, e con più violenza di prima se possibile, il pugno sul ripiano di lussuoso legno pregiato che forse non aveva mai considerato che nella sua esistenza di mobile lussuoso in un ufficio così raffinato, sarebbe mai stato trattato tanto rudemente.

"SILENZIO!" Ballister era nuovamente uscito da dietro la sua scrivania ed era venuto verso di lui, con un passo di carica che questa volta aveva ben poco di studiato. "Sono due le possibilità, Carruthers.

O lei è il più grosso imbecille che abbia mai occupato la carica di ufficiale di polizia in questa città e forse in tutto lo stato, o probabilmente pensa che l'imbecille sia io, eh?"

"Signore, io.."

"ZITTO! Parlerà quando io le dirò che può farlo!" Ballister che era arrivato a non più di due passi di distanza dal poliziotto, gli puntava il dito contro il petto e la sua furia era ormai talmente scatenata che minuscoli schizzi di saliva arrivavano sul volto dell'altro.

"Meno di ventiquattro ore fa, mi pareva di avere disposto affinché le forze di polizia agissero coordinatamente in questo maledetto caso. Dico bene?"

Questa volta Carruthers non aveva provato neanche ad accennare ad una risposta.

"E la sera stessa, accade un fatto che potrebbe essere di fondamentale importanza per le indagini e lei decide di intervenire personalmente senza consultarsi con nessuno? Mi ascolti attentamente, Carruthers." Adesso la faccia arrossata dalla rabbia del procuratore era china sulla sua a pochi centimetri. "In caso le ragioni della mia decisione non le fossero chiare, mi permetta di illuminarla. Questa indagine è troppo complessa e scabrosa per il suo cervello. Forse lei può andare bene per dare la caccia a qualche pazzoide che si crede Giovanna D'Arco, ma qui abbiamo a che fare con un pericoloso maniaco, un essere abominevole che rapisce e uccide bambini per gli scopi più innominabili che si possano immaginare, e queste cose colpiscono molto negativamente l'opinione pubblica. La gente si spaventa, gli elettori si innervosiscono, gli oppositori gongolano e i giornali ci inzuppano il pane. Ci sono già state manifestazioni in cui sono state chieste le dimissioni del sindaco e le mie. E io esigo, esigo!, che gli uomini assegnati ad un incarico di questa gravità, lo facciano nei modi e nei tempi che decido io. Lei provi un'altra volta a prendere un'iniziativa personale di questo genere e le giuro che non solo la farò sbattere fuori da questo caso, ma farò anche in modo di farla tornare a pattugliare i bassifondi così velocemente che tutta la sua carriera le sarà sembrata solo il sogno di una notte. Sono stato abbastanza chiaro, questa volta?"

Dopo questa sparata, durante la quale Carruthers se ne era rimasto silenzioso ed immobile a fissarlo, Ballister pareva aver sbollito almeno in parte il suo furore e cercando di riacquistare un contegno più consono alla sua immagine, si era riaggiustato nuovamente la cravatta e si era passato le dita sulla testa per ricomporre le chiome lievemente scompigliate. Quindi con un'ultima occhiata fulminante, si era voltato e diretto al suo posto.

Il poliziotto lo aveva guardato allontanarsi, infine era riuscito a raccogliere quei brandelli di dignità che ancora gli restavano.

"Questa sera presenterò la mie dimissioni, signore." aveva detto, ed ascoltandosi quella voce non gli era sembrata neanche la sua.

Il procuratore, che si era già rimesso a sedere, aveva alzato lo sguardo, guardandolo al di sopra degli occhiali da lettura che aveva inforcato.

"Non sono cose che riguardano me." aveva risposto semplicemente. "Ne parli con i suoi superiori, che tra parentesi ho già provveduto ad avvisare della sua condotta."

Con lo stomaco chiuso ed una gran voglia di rimettere la colazione sul costoso tappeto, Carruthers aveva esercitato tutta la sua forza di volontà per sradicare i piedi che parevano inchiodati al suolo e voltarsi verso l'uscita. Gli sembrava di camminare in un corpo che non gli apparteneva. Come se il suo subconscio avesse voluto estraniarlo da una situazione come quella, che non poteva essersi verificata davvero.

Non a lui. Non ad un vecchio poliziotto con oltre trent'anni di servizio sulle spalle. Trattato così, come l'ultima recluta. Ma a strapparlo da quello stato aveva provveduto la voce di Ballister che era giunta da dietro di lui, proprio mentre abbassava la maniglia di lucido metallo dorato che si apriva docilmente alla minima pressione, in linea con la perfetta efficienza di tutto e tutti in quegli uffici.

"Comunque, se fossi in lei, ci rifletterei bene, Carruthers. Non credo che le sarebbe facile trovare qualcos'altro che sappia fare. Più o meno."

Più o meno.

Quelle parole, sferzanti, eppure pronunciate con un tono di suprema indifferenza, avevano avuto il potere di scuoterlo se non altro, ed era stato un uomo profondamente umiliato, ma assolutamente presente a se stesso ad uscire da quell'ufficio, trattenendo disperatamente la voglia di sbattere la porta, quella bella, lussuosissima porta in legno levigato fino ad una lucentezza quasi abbagliante, con tanta forza da scardinarla, e che adesso si trovava, fermo, in piedi sulle scale del palazzo della procura, a fissare senza vederlo il panorama di quella splendida giornata di sole.

Denuncialo! Sputtanalo davanti a tutti!

La voce di Jennifer gli risuona talmente reale nella mente che Carruthers si guarda intorno, quasi aspettandosi di vedere la donna lì accanto a lui, ma a circondarlo è solo la folla anonima di indaffaratissimi funzionari che sale e scende le scale con espressione intenta e concentrata.

Quel pensiero improvviso e d'un tratto spaventosamente affascinante, lo paralizza per un attimo. Poi, con passo lento, l'uomo comincia a scendere lentamente i gradini con aria riflessiva e concentrata quanto quella della gente che gli passa accanto.

 

 

 

 

Interludio

 

 

Dietro la porta chiusa: la morte

 

Il luogo è buio oltre ogni possibile descrizione. Un buio così fitto, così profondo che a tendere una mano ci si può perfino aspettare di toccarlo come una cosa materiale, tangibile. Ma la figura sul letto non può tendere una mano, né muovere un solo muscolo del suo corpo. Mani, piedi, e perfino la testa, sono costretti in una posizione orizzontale da cinghie di pelle, sottili ma resistenti, su un materasso duro e pregno del suo sudore. Un'altra cinghia più larga le si avvolge intorno alla vita passando al di sotto della vecchia rete metallica per impedirle anche il più piccolo movimento. A completare il tutto, un pezzo di nastro adesivo, di quello da imballaggio, le è stato applicato sulla bocca.

La figura che si muove appena, emettendo mugolii soffocati ed inudibili dall'esterno, è in preda al terrore. Un terrore che probabilmente le impedirebbe di muoversi comunque, anche senza quei legami ad immobilizzarla.

Non sa da quanto tempo si trova in quel posto. E non riesce a capire chi possa avercela rinchiusa e perché. Non ha che ricordi caotici, lampi di memorie che l'assalgono improvvisi. Occhi dilatati, volti orridi, bocche spalancate che mostrano file di denti affilati. 

E allora, pur nel terrore che le provocano, cerca, cerca disperatamente in quei ricordi qualcosa, qualcosa a cui la sua mente, paralizzata dal panico, possa aggrapparsi, per dare una parvenza di logica a quell'incubo.

Ma l'unica immagine che la sua memoria confusa continua a rimandarle è quella che la terrorizza più di tutte.

Un'ombra. Un'ombra altissima, torreggiante su di lei. E una voce sinistra che le risuona nel cervello, pronunciando frasi incomprensibili, a volte in un mormorio, a volte in un urlo.

E quel solo ricordo basta a riempirla di un tale terrore cieco e annicchilente da farla desiderare di raggomitolarsi su se stessa fino ad annullarsi in una forma fetale, a richiudersi in un bozzolo protettivo che la tenga al riparo da quell'essere orribile, perché non possa più vederla, perché non possa più trovarla.

Ma non può. E inutilmente tende i lacci di pelle che la stringono. Inutilmente contrae i muscoli della bocca per emettere gemiti e parole che non troveranno la via d'uscita.

E la figura sul letto continua ad agitarsi debolmente, invisibile nel buio ed inudibile oltre le mura compatte e la spessa porta sbarrata.

 

(9 - continua)





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