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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo I)

Parte 1

Lo sguardo di Brian si sofferma sul volto nella foto, fissandosi in quello della donna che sembra rimandarglielo, con quell'aria ironica tanto tipica di lei.

"Che diavolo ti è successo, Coop?" mormora tristemente. "In che casino ti eri cacciata?"

Per lunghi momenti, quei due occhi così vivi ancora, lo tengono agganciato come se dietro di loro, scrutando abbastanza a lungo, fosse possibile scorgere la risposta a tante domande rimaste inespresse.

Lo squillo del telefono sulla scrivania lo fa quasi sobbalzare, strappandolo da quello stato quasi mesmerico.

Brian lancia un'occhiata in tralice all'apparecchio, poi senza mai distogliere gli occhi da quelli nella foto, arretra di un paio di passi e allunga una mano a tentoni, afferrando il ricevitore.

"Brian!" La voce di Hannigan, il redattore capo esplode nella cornetta prima ancora che la porti all'orecchio. "Si può sapere che stai facendo? Stiamo aspettando solo il tuo pezzo!!!"

"E' pronto." risponde lui. "Stavo per mandartelo."

"E muoviti, cazzo! Possibile che debba sempre metterti il pepe al culo?!"

Va' a farti fottere, pallone gonfiato.

"Arriva subito."

Senza ascoltare altro, Brian posa il ricevitore e si mette alla tastiera del computer. Lo schermo si accende su una pagina a quattro colonne fittamente riempite, con un titolo a grandi caratteri in testa.

UN ALTRO BAMBINO SCOMPARSO

 ANCORA "THE OGRE"?

Brian scorre rapidamente le colonne dell'articolo, poi posa il dito sul tasto invio e la pagina si spenge lasciando il posto alla finestra di conferma.

(3) Xena e Olimpia

Sotto una pioggia fitta ed insistente, le due figure, avvolte in pesanti mantelli, resi ancora più pesanti dall'acqua da cui sono intrisi, spuntano dalla strada infangata e procedono a fatica verso un debole chiarore appena distinguibile in lontananza dietro la coltre d'acqua.

"Coraggio, Olimpia, Siamo quasi arrivate."

Arrancando dietro la compagna, aggrappata alla sella di Argo, Olimpia lancia un'occhiata a Xena che si è fermata e le sta tendendo una mano per aiutarla a superare l'ultimo declivio. La ragazza afferra la mano di Xena e lascia con sollievo che questa la sollevi quasi da terra, liberandola dalla morsa  del denso fango sul sentiero in salita.

"Ehi, non è giusto, mettimi giù. Anche tu sei stanca." protesta, ma senza molta convinzione, quando invece di posarla di nuovo al suolo, Xena l'afferra saldamente tra le braccia.

"Oh, sono solo pochi passi ancora" risponde questa "e poi mi è venuta in mente una cosa."

Lo sguardo sorridente della guerriera aggiunge un tocco di malizia alla frase.

"Cioè?" chiede Olimpia incuriosita, posando il braccio intorno al collo della compagna.

"Dopo la cerimonia del Congiungimento, non mi pare di averti portata in braccio oltre la soglia della nostra capanna, come voleva la tradizione."

"Mmh," sorride la ragazza "non credo che questa particolare tradizione faccia parte dei costumi amazzoni, e comunque, in quel momento eravamo piuttosto occupate, se non ricordo male."

"Già. Quindi ho tutte le intenzioni di porre rimedio a quella dimenticanza, che non sarà una tradizione amazzone, ma è profondamente radicata in me. Oltre regalarci poi una notte tranquilla e tutta per noi. Naturalmente col tuo regale permesso, mia regina."

Il sorriso malizioso continua a brillare negli occhi di Xena, sotto il cappuccio fradicio.

"Permesso accordato." risponde Olimpia, mentre con uno sguardo ugualmente sbarazzino, percorre tra le braccia della compagna la breve distanza che ancora le separa dall'ingresso della locanda, davanti alla quale la fiamma della torcia, opportunamente al riparo della pioggia, ondeggia alla debole brezza notturna.

"Comunque, la prossima volta, sarà bene portare con noi dei ferri di scorta per Argo." aggiunge.

"Beh, ci vorrebbero anche chiodi e martello." risponde Xena, con un lieve affanno nella voce. "Un bel po' di peso in più da portarsi in giro."

"Non so, troveremo un sistema. Ma ho l'impressione che quest'idea del ferro di scorta, potrebbe prendere piede."

Sono le ultime parole udibili prima che Xena spinga con un calcio la porta della locanda spalancandola ed entri, lasciando poi che si richiuda dietro di loro.

Entrando all'interno della locanda, le due donne fingono di non notare nemmeno gli sguardi sorpresi e perplessi dei pochi avventori.

Vedere la porta spalancarsi e una figura, che sotto il mantello e il cappuccio grondanti di pioggia pareva ancora più grande e minacciosa di quanto già fosse in realtà, entrare reggendone tra le braccia un'altra, a sua volta avviluppata in una cappa ugualmente fradicia, non doveva evidentemente essere una visione consueta.

Nel silenzio che si è istantaneamente prodotto, lasciando dietro di sé una larga scia d'acqua, la figura torreggiante si avvicina con passo fermo e pesante al grande banco al centro della sala, dietro il quale si trova un ometto che la fissa come ipnotizzato, indeciso tra il suo dovere di locandiere, e l'istinto che invece gli suggerirebbe di fuggire a gambe levate.

"Ch...che... cosa è successo?" riesce alla fine ad articolare, asciugandosi nervosamente le mani su una camicia di un colore indefinibile. "La signora si è ferita, forse?".

Continuando a sorreggere il peso di Olimpia, che con grazia si libera del cappuccio, Xena si scuote il suo dalla testa, lasciando che le lunghe ciocche di capelli corvini le scendano sulle spalle.

Se possibile, il gesto genera ancor più sconcerto del loro ingresso. Ora anche quei pochi che avevano già spostato l'attenzione dalla strana coppia appena entrata ai loro boccali, tornano a fissarle.

"No, grazie, sto benissimo.", risponde Olimpia sorridendo all'uomo, per attenuare l'atmosfera di minaccia che la sua compagna emana intorno a sé. "Siamo solo molto stanche e desidereremmo una stanza per la notte. Ed un buon pasto."

Incapace di distogliere gli occhi dalla figura alta e bruna che lo fissa con uno sguardo gelido da ghiacciare il sangue nelle vene, il locandiere alla fine riesce a raccogliere qualche resto di professionalità e, cercando di darsi un contegno, gira intorno al bancone, venendo loro incontro.

"Certo, certo. Se volete seguirmi." E fa per muoversi verso la scala che conduce ai piani superiori, quando una voce profonda lo blocca.

"E un riparo e biada per il mio cavallo."

"Sicuro, sicuro."

Adesso l'ometto non sa davvero cosa fare e resta interdetto con un piede sul primo gradino della scala, voltato a metà verso le due donne.

"Lascia che ci mostri prima la nostra stanza, Xena." si inserisce conciliante Olimpia. "Poi si occuperà di Argo."

Ad un cenno della testa della donna alta, l'uomo schizza su per le scale seguito a grandi passi da Xena che tiene ancora tra le braccia il suo prezioso fardello.

Davanti alla porta della stanza, il locandiere si sposta e lascia che la guerriera entri per prima. Solennemente, col braccio di Olimpia saldamente assicurato intorno al collo, Xena fa un passo all'interno, fermandosi sulla soglia. Gli occhi delle due donne percorrono le pareti e gli angoli della camera con intenti diversi, suggeriti da indoli diverse.

"Oh, Xena, guarda, è stupendo!" fa Olimpia, lanciando un gridolino deliziato, nel vedere il piccolo ma sufficientememente spazioso letto a baldacchino che troneggia nel centro della stanza, abbastanza spartana per altro nel resto dell'arredamento.

"Beh, almeno c'è una sola finestra da sorvegliare." ribatte Xena.

"Se volete, posso mostrarvi anche un'altra camera sul retro, con due letti..." dice il locandiere alle loro spalle, evidentemente fattosi più audace.

"Questa andrà benissimo, grazie." lo interrompe Olimpia, senza dargli neanche il tempo di finire la frase. Poi si volta per guardarlo oltre la spalla di Xena a cui è ancora aggrappata. "E potremmo avere anche una vasca grande e acqua calda in abbondanza?"

"Per l'acqua non c'è problema, ma la vasca non è molto grande." risponde l'uomo.

"Ci adatteremo." sorride la ragazza, dopo uno sguardo complice alla compagna.

"Bene, mia signora." E con un inchino il locandiere fa per andarsene, quando ancora una volta viene fermato dalla voce di Xena.

"Non abbiamo parlato del prezzo."

"Oh, nessun problema. E' bassa stagione per il nostro villaggio. Vi farò un prezzo di favore. Due denari a testa tutto compreso, va bene?" E per la prima volta il volto dell'uomo si apre in un sorriso, mostrando tutta una schiera di denti gialli e smangiati dalla carie.

Xena e Olimpia si guardano per un attimo, poi la poetessa fa un cenno d'assenso.

"D'accordo." risponde Xena, rivolta al locandiere. "Aspettiamo la vasca."

"Subito. Subito, mie signore." E l'uomo scompare rapidamente tirandosi dietro la porta.

Rimaste sole nella stanza, la due donne fanno ancora un giro su se stesse guardandosi intorno.

"Poteva essere peggio." dice Xena.

"Eccome." risponde Olimpia, con ancora entrambe le braccia allacciate al collo della guerriera. "Come hai detto che si chiama questo posto?"

"Non l'ho detto, ma il cartello sulla strada diceva Kyros, se non ho letto male."

"Non ci sei mai stata prima?"

"Non che io ricordi."

"Xena, che ne diresti di mettermi giù, ora? Dovremo liberarci di questi indumenti, stiamo allagando la stanza. Inoltre la tradizione è stata più che rispettata, e tu sei stanca, non negarlo. Ti sento chiaramente ansimare."

"Giusta osservazione, mia regina... Ma non si tratta di stanchezza."

"Oh."

 

4) Jennifer e Croft 

 

"Dottoressa! Dottoressa Rowles!"

Nell'atto di salire i gradini che portano all'ingresso del suo palazzo, persa come sempre nei suoi pensieri, Jennifer mette qualche momento a rendersi conto che la voce che ha sentito sta chiamando proprio lei. Si volta, cercando di focalizzare la vista sul marciapiede opposto distogliendola da visioni che esistono solo nella sua mente, e la sua attenzione è attratta da un uomo che sta attraversando la strada correndo verso di lei, rischiando quasi di farsi investire dalle auto che sfrecciano nelle due direzioni.

"Dottoressa Rowles, aspetti un momento, la prego."

Per un attimo, Jennifer resta immobile a guardare quell'uomo, bruno, piuttosto alto, aspetto giovanile, anche se l'ampia stempiatura denuncia senz'altro un'età più avanzata di quella che dimostrerebbe a prima vista. Trentotto, quarant'anni, giudica quasi soprappensiero, mentre lui si avvicina, poi d'improvviso si gira nuovamente verso la porta del palazzo, estraendo le chiavi di tasca e infilandole nella serratura.

"Aspetti, non abbia paura." dice l'uomo afferrandole il braccio. "Voglio solo farle qualche domanda."

"Mi lasci subito o chiamo un poliziotto!"

L'uomo lascia immediatamente la presa che per altro era appena accennata, ammette tra sé Jennifer, che sta continuando a cercare di aprire la porta con la chiave che ora sembra incastrata.

"Dottoressa, la prego." ripete l'uomo. "Non so a chi rivolgermi."

"Non so di che cosa sta parlando."

Ma che ha questa maledetta chiave?!

"Sono giorni che sto provando a telefonarle. Non le chiedo che pochi minuti."

"E io le ripeto che non so di cosa stia parlando."

Apriti! Apriti! Apriti!

Jennifer ha un sobbalzo, quando sente la mano dello sconosciuto posarsi sulla sua.

"Permette?"

Con uno scatto, Jennifer stacca la mano dalla chiave e da quella dell'uomo. Senza altre parole, questi armeggia per qualche secondo con la serratura e subito dopo l'uomo spinge la porta che si apre docilmente verso l'interno e si sposta da un lato, liberandole il passaggio.

"Ecco. Ci sono abituato. Succede spesso anche a me." dice tendendole le chiavi.

Jennifer allunga cautamente la mano e le prende.

"Grazie."

Ora che lo osserva da vicino, mentre quell'improvviso attacco di panico che l'aveva travolta sta recedendo, vede un viso scavato, una barba di un paio di giorni e due occhi scuri, arrossati probabilmente dalla mancanza di sonni regolari. Uno stato che, barba a parte, non si discosta molto da quello in cui si trova lei. E in quell'esitazione, lui scorge una breccia a cui attaccarsi.

"Glielo giuro, dottoressa, Solo pochi minuti."

"Ma si può sapere chi è lei?"

"Mi chiamo Brian Croft. Le ho lasciato molti messaggi sulla segreteria in questi ultimi giorni."

"Non li ho ascoltati. Non accendo più il cellulare. Non ricordo neanche dove l'ho messo."

Jennifer abbassa lo sguardo dal viso di lui ed entra nell'atrio, girandosi sulla soglia.

"E che cosa vuole?" chiede, fissandolo.

"Vorrei parlare con lei di una mia collega. Cheryl Cooper."

Nell'udire quel nome, una serie di sentimenti indefinibili (rabbia? dolore? tristezza?) sembrano attraversare lo sguardo della donna che immediatamente fa per richiudere la porta. Brian inserisce la mano all'interno un attimo prima che questa si serri sullo stipite, rischiando di schiacciargli le dita. Ora la separazione tra porta e stipite è ridotta ad una fessura, ma riesce ancora vedere l'occhio di Jennifer e parte del suo viso che lo scruta.

"Tolga quella mano."

"Dottoressa, glielo assicuro. Non riguarda il View. E' una cosa personale. Loro neanche sanno che sono qui."

La donna esita ancora un momento e Brian decide d'impulso di sparare tutte le sue cartucce.

"Cheryl è stata uccisa, dottoressa Rowles. E la polizia ha chiuso le indagini con troppa fretta. Io devo scoprire cosa le è successo e lei è l'unica che possa aiutarmi."

"Si sbaglia. Io non so nulla."

"Sono alla disperazione, dottoressa. Mi conceda solo cinque minuti. Dopodiché, se non vorrà, non mi vedrà più."

La donna resta immobile col viso incollato alla fessura della porta per un tempo che a Brian sembra infinito. Poi i suoi occhi si abbassano e la fessura si allarga.

"D'accordo." mormora Jennifer, aprendo del tutto la porta. "Cinque minuti. Ma la smetta di chiamarmi dottoressa."  

Nel tragitto che la separa dal suo appartamento, Jennifer non cessa un istante di darsi della stupida. Ma cosa aveva? Non riusciva a dire una semplice parolina come no? E adesso? Come avrebbe potuto sbarazzarsi di questo scocciatore, una volta che l'avesse fatto entrare in casa sua? Jennifer medita per un momento sulla possibilitá di fare uno scatto dopo aver aperto la porta lasciandolo sul pianerottolo, ma scarta quasi subito l'ipotesi. L'ultima cosa di cui ha bisogno è un uomo che bussi rumorosamente alla sua porta, magari gridando e chiamandola, attirando cosí attenzioni indesiderate. No. Meglio farlo entrare, ascoltare quello che ha da dirle e liberarsene al più presto e più discretamente possibile.

La serratura dell'appartamento non fa le bizze, per fortuna, e seguita come un'ombra da Brian, Jennifer entra, accendendo la tenue luce dell'ingresso.

Appena dentro il giornalista si guarda intorno con occhio allenato dalla lunga esperienza professionale a registrare il maggior numero di dettagli in pochi secondi. Talvolta anche osservare semplicemente l'arredamento della casa di qualcuno aiuta a capirne il carattere, ma qui c'è davvero poco da vedere e capire. L'ingresso contiene appena un attaccapanni ed un tavolino con una lampada, mentre dalla porta sulla destra s'intravede un piccolo salotto, probabilmente arredato con stile altrettanto sobrio.

Liberandosi del soprabito, ma studiatamente evitando di invitare lui a fare altrettanto, la donna entra in salotto e va a sedersi in una poltrona di fronte ad un ampio divano.

"Va bene." dice, guardandolo per la prima volta da quando sono entrati nel palazzo. "Voleva parlarmi, no? Mi dica."

Brian, che è rimasto sulla soglia del salottino, notando che Jennifer non l'ha invitato neanche a sedersi, se ne sta per qualche momento immobile, poi si decide, avanza verso la donna e la fissa a sua volta nella penombra. Le finestre, due, piuttosto grandi, sono oscurate da pesanti tendaggi che mantengono nella quasi totale oscuritá l'ambiente, appena mitigata dall'illuminazione che dall'ingresso filtra attraverso la porta semiaperta.

"Non mi piace molto la luce." dice lei, quasi leggendogli nella mente. "Spero che la cosa non la metta a disagio."

"Nessun problema, non si preoccupi, dott... Come vuole che la chiami? Signorina Rowles?"

Se aveva immaginato che Jennifer gli accordasse un minimo di confidenza, dicendogli magari di chiamarla per nome, Brian resta deluso.

"Non c'è necessità che mi chiami in alcuna maniera. Mi dica ciò che vuole dirmi e poi se ne vada."

"Bene." risponde Brian, sedendosi senza invito sul divano davanti a lei. Vediamo se mi dici di rialzarmi, pensa.

La donna lo fissa, mentre il suo volto è attraversato da una smorfia di disapprovazione, perfettamente visibile anche a quella poca luce, ma non dice niente.

"Come le dicevo, lei non mi conosce, ma ha conosciuto la mia collega, Cheryl Cooper, la giornalista che è stata trovata morta qualche mese fa."

Brian s'interrompe, aspettandosi qualche parola dalla sua laconica interlocutrice, ma ancora una volta resta deluso.

"Come ricorderà" prosegue poi "prima di morire, Cheryl si stava occupando di un caso in cui era coinvolta anche lei, dot... signorina Rowles. Il caso della cosiddetta Amazzone."

Jennifer interrompe il contatto con gli occhi dell'uomo e tende istintivamente una mano verso il tavolino accanto come a cercare qualcosa. Poi non trovandola, riporta la mano in grembo e posa nuovamente lo sguardo su di lui, ma questa volta Brian nota un che di diverso nell'espressione della donna. Un pò di quella durezza che vi era stata fino a pochi secondi prima sembra essersi attenuata, sostituita da qualcos'altro.

"Mi ci sono trovata solo per aiutare... una ragazza." dice quasi in un sussurro.

A Brian pare quasi di scorgere delle lacrime agli angoli delle palpebre, ma in quel buio è difficile a dirsi.

"Sí, questo lo so... Joyce Randall."

Le dita delle mani s'intrecciano tra loro fino a sbiancare le nocche. La poca luce che filtra nella stanza cade esattamente sul grembo della donna e Brian può vederle distintamente. Sentire ancora il nome di Joyce le ha dato un balzo al cuore. Randall era il nome da nubile della ragazza che, quando la storia era alla fine arrivata sui giornali, lei aveva insistito  fosse usato, invece di Bowers, affinché la sua memoria non fosse legata a quello del defunto marito, evitando il più possibile ogni collegamento con quel ricordo terribile.

"Tuttavia," prosegue Brian, come se non si fosse accorto di nulla "mi pare di aver capito che lei avesse sviluppato una... forte simpatia per questa Randall. Al di là del suo dovere professionale."

Nella stanza resta un silenzio sospeso per attimi che sembrano lunghissimi. Lo sguardo della donna e dell'uomo si misurano senza recedere di un millimetro, poi Jennifer quasi di scatto si alza spostandosi verso la porta del salotto.

"Senta, signor... Croft, vero? Abbiamo detto cinque minuti e lei li sta sprecando raccontandomi cose che conosco anche troppo bene. Ora le sarei grata se volesse decidersi a dirmi cosa vuole esattamente."

"Signorina Rowles, io sto solo cercando di capire cosa è successo alla mia collega. Sono passati mesi dall'omicidio e la polizia non ha ancora saputo, o voluto, dare uno straccio di spiegazione."

"E vorrebbe averla da me? Credo che stia perdendo il suo tempo, mi dispiace. Io non so niente che non abbiano scritto anche i giornali."

"La notte in cui morí Cheryl, anche la sua amica è rimasta uccisa, e in circostanze mai chiarite. Mi risulta comunque che lei fosse sul posto. Vorrei semplicemente che mi raccontasse cosa è successo."

Jennifer, che ha già la mano sulla maniglia, l'abbassa  e la rialza meccanicamente due o tre volte, con gli occhi puntati sul giornalista, ma in qualche modo vuoti, distanti come se vedesse cose visibili solo a lei.

"Non so da chi abbia saputo queste cose, ma si sbaglia, signor Croft  Io... arrivai solo dopo. Non so cosa potrei aggiungere alle sue informazioni."

Brian la fissa tanto intensamente che alla fine Jennifer deve arrendersi ed abbassare lo sguardo. Poi l'uomo si alza a sua volta.

"Beh, se non vuole dirmelo, non posso farci niente, suppongo. Ma la prego, non mi tratti da idiota. Ho letto abbastanza materiale della mia collega, da sapere che lei ha svolto un ruolo molto più attivo in questa storia di quanto voglia ammettere."

"No, sono io a pregare lei, signor Croft. Sono molto stanca e, se non le dispiace, vorrei che se ne andasse ora."

Brian, seguito dallo sguardo di Jennifer, attraversa il salotto ed esce, dirigendosi verso la porta d'ingresso, ma un momento prima di andarsene, si ferma e si volta verso di lei.

"Quella ragazza, la Randall, lei non l'aveva mai conosciuta prima, vero?"

Jennifer resta un attimo interdetta dalla domanda improvvisa, poi risponde.

"No."

"Lei era... ed è un'ottima psicologa, mi dicono, inserita nello staff del procuratore distrettuale e con una carriera davanti. Perché ha rinunciato a tutto per una ragazza che nemmeno conosceva?"

Per la prima volta, a Brian sembra di notare una crepa nel muro che la donna pare aver costruito intorno a sé.

"Joyce era una ragazza dolce e innocente che non meritava ciò che le stava succedendo e io ho cercato solo di esserle amica."

"E cosa le stava succedendo esattamente, signorina Rowles?"

Per tutta risposta, Jennifer va alla porta d'ingresso e la spalanca. Il muro è di nuovo solido.

"Buon giorno, signor Croft. Spero di non rivederla più."

Brian le lancia un altro sguardo, cercando di raccogliervi tutte le sensazioni che l'espressione sul viso di lei in quel momento le ispira, poi con un sorriso esce sul pianerottolo.

"Non me la sento di assicurarglielo. Il mondo è così piccolo. Arrivederci."

E sempre sorridendo scende a passo rapido le scale.

 

(5) Xena e Olimpia

"Olimpia?"

"Mmmh?"

"Non credi che dovremmo alzarci adesso?"

"Mmmh..."

"Prima ho sentito distintamente il tuo stomaco brontolare."

"Mmmh."

"Almeno se ti facessi un po' più in là, potrei alzarmi io e andare a cercare qualcosa da mangiare."

Per tutta risposta, la ragazza si stringe ancora di più alla compagna, appoggiando meglio la testa nell'incavo tra la spalla e il mento di Xena con un sospiro soddisfatto. Gli occhi della guerriera si posano affettuosamente sulla capigliatura bionda e arruffata che le sta solleticando il naso, quindi vagano senza meta per le pareti e il soffitto della piccola stanza. Definirla spartana è decisamente eufemistico. Un paio di sedie, un tavolo e un armadio sono le uniche cose visibili, oltre alla vasca che con uno sforzo le aveva contenute tutte e due e il cui piccolo lago intorno testimoniava di un bagno non esattamente rilassante, almeno non nel significato convenzionale della parola. La battaglia si era poi spostata sul letto, morbido e pulito, le cui coperte e lenzuola, arrotolate e gettate da un lato, dicevano quanto non avesse perso d'intensità. Quello stesso letto su cui in quel momento posavano le loro schiene, o meglio, su cui posava la schiena, ancora un po' umida d'acqua e di sudore, Xena, perché Olimpia aveva trovato una superficie anche più soffice e confortevole su cui giacere. Un sorriso si disegna sul viso della Principessa Guerriera, mentre il suo pensiero ritorna a quei piacevoli momenti. E la sua mano percorre delicatamente su e giù il dorso nudo della compagna, godendosi sotto le dita la pelle liscia e anch'essa ancora leggermente umida e fresca. Poi, dopo un bacio leggero sui capelli biondi, Xena sposta il braccio di Olimpia che le si è avvinghiato intorno al seno e con un movimento rapido e sinuoso le scivola da sotto lasciando che la sua semiaddormentata compagna cerchi a tastoni il cuscino da abbracciare come sostituto.

"Bene, piccola, resta pure qui." mormora, passandole una mano tra i capelli. "Io scendo a prendere da mangiare e controllare anche che abbiano accudito Argo come si deve."

Xena si china a terra per riprendere i suoi vestiti dall'informe fagotto che giace ai piedi del letto dove sono finiti avvolti insieme a quelli di Olimpia. Rapidamente la guerriera si veste, quindi lancia un'occhiata alla spada e all'armatura leggera, posate invece con cura sul tavolo chiedendosi per un attimo se non sia il caso di lasciarle dove sono. Poi, con un sospiro di rassegnazione, comincia ad indossarle. Ha appena fissato l'ultima cinghia che il suo sensibilissimo udito registra qualcosa. All'inizio, è solo un lontanissimo lamento misto al rumore della pioggia che sembra non abbia smesso un istante di cadere, ma poi avvicinandosi alla finestra, Xena riesce ad individuarlo meglio per quello che è realmente: urla disperate, femminili si direbbe, ma a quella distanza è difficile esserne certi. Finché i suoi occhi puntati come pugnali nelle tenebre esterne, non cancellano ogni dubbio.

Con uno scatto, Xena si volta, afferra  la spada sul tavolo e liberatala in un sol colpo dal fodero, corre di nuovo alla finestra.

"Xena, che c'è? Che succede?"

La voce assonnata di Olimpia le giunge alle spalle un secondo prima che si lanci dal cornicione.

"Rivestiti velocemente." le grida. "Credo che la nostra cena sia stata appena rimandata."

E con queste parole la guerriera balza fuori dalla finestra scomparendo alla vista.

Con un grugnito di sconforto, Olimpia si lascia cadere all'indietro sul morbido materasso.

"Fantastico!" esclama tra i denti. "Ecco che ci risiamo!"

Appena i piedi toccano terra, Xena flette i muscoli delle gambe, lasciando che l'impatto col suolo venga assorbito senza danni, quindi si guarda intorno nel buio della notte, mentre la pioggia continua a cadere forte e continua. Da principio le ci vuole qualche attimo per individuare il punto in cui dalla finestra le era parso di scorgere una figura agitarsi scompostamente. Il paesaggio debolmente illuminato dalla torcia sotto il portico della locanda non mostra niente d'insolito intorno a lei, tanto meno tracce di esseri umani.

Poi, la vista acuta della Principessa Guerriera scorge, accanto al pozzo del cortile, una forma che si contorce, nel tentativo di rimettersi in piedi. La figura avvolta in un ampio mantello pare scossa da un violento tremito. Abbandonato il supporto della bassa muratura che circonda il pozzo, la persona, poco più che un'ombra nel buio e nella pioggia, fa un altro paio di passi e poi si abbatte nuovamente al suolo.

Con un balzo, Xena le è accanto e la gira a faccia in su, liberandole il volto dal mantello che le si è attorcigliato intorno. La pallida luce circostante le rivela un viso femminile, ancora giovane, ma segnato dalle sofferenze. Due occhi scuri si spalancano e, incurante della pioggia che la martella senza tregua, la donna afferra in una morsa d'acciaio il braccio di Xena.

"MALEDETTI! DOV'E' MIA FIGLIA?!?" urla. "RIVOGLIO IL MIA BAMBINA!!!"

Sorpresa dall'inattesa reazione, Xena resta a fissare per un momento quel viso stravolto e gli occhi dilatati che pur puntati su di lei in realtà è quasi come se non la vedessero.

"Calmati." Tenta di dire più pacatamente possibile, cercando di non agitare ulteriormente la donna. "Spiegami cosa ti è successo. Qualcuno ha rapito tua figlia?".

Ma la donna, in preda a violente convulsioni arcua il corpo all'índietro continuando a lanciare urla inframmezzate da frasi incomprensibili. Poi d'improvviso si accascia come priva di conoscenza, ma gli occhi restano spalancati, malgrado la pioggia che continua a cadere.

Xena posa una mano sulla gola della donna e avvertendone il battito forte e accellerato, senza perdere altro tempo, la prende tra le braccia e la solleva, affrettandosi verso l'ingresso della locanda. Dietro la finestra sul portico, attraverso gli scrosci d'acqua le pare di scorgere dei visi che guardano verso di lei. Nonostante le urla della donna, che non possono non aver sentito, nessuno che sia accorso a vedere cosa fosse successo. Giunta alla porta ancora chiusa, la guerriera la spalanca con un calcio, e si getta all'interno, facendosi strada attraverso i tavoli. Gli ultimi clienti rimasti la guardano entrare, sbalorditi, sperimentando un'inspiegabile sensazione di aver già vissuto quel momento. Il locandiere esce da dietro il bancone, mentre Olimpia, rivestita ma con i capelli ancora umidi e scarmigliati, appare in cima alle scale. Rapidamente le scende e si avvicina alle spalle dell'uomo, la cui indecisione comincia chiaramente ad evidenziarsi come uno stato cronico.

"Non preoccuparti." gli dice, superandolo con un sorriso e dirigendosi verso la compagna. "Non è una sua abitudine. Non lo fa quasi mai neanche con me."

Xena, intanto, ha portato la donna fino ad un tavolo accanto al caminetto e dopo averla liberata dal pesante e fradicio mantello ve l'ha distesa sopra.

"Cosa è successo?" chiede la voce di Olimpia alle sue spalle, mentre sente la mano di lei posarlesi sulla schiena bagnata.

"Non lo so ancora. Questa poveretta è sconvolta, ma non mi sembra ferita. E là fuori non c'era nessuno tranne lei."

"Xena, guarda."

Olimpia prende un braccio della donna e lo mostra alla compagna. Intorno al polso ci sono chiare ed evidenti abrasioni dovute ad una corda.

"E' stata legata."

Xena esamina l'altro polso e annuisce, quindi si volta verso il locandiere e le altre persone  che continuano ad osservare la scena senza fare il minimo accenno d'intervento.

"Conosci questa donna?" chiede all'ometto che non si è avvicinato di un passo e che sembra soffrire di un'improvvisa paralisi alla lingua. Gli occhi della guerriera passano da un volto all'altro dei presenti.

"Qualcuno di voi la conosce?"  

Ma nessuno nella sala apre bocca e, sotto lo sguardo inquisitorio di Xena, alcuni tornano a fissare il proprio piatto o bicchiere.

"Insomma, che cos'è questa storia?" chiede ancora la guerriera, includendo in un unico sguardo l'intera sala.

"Niente che vi riguardi." risponde una voce alle loro spalle.

A quel suono, Xena e Olimpia si voltano all'unisono verso il punto da cui proviene. Sulla porta, c'è un uomo, anziano e molto alto con una folta barba grigia e gli abiti e il portamento tipici di un'autorità. Dietro di lui, le figure di altri due uomini restano un po' nell'ombra.

"Quella è Sarah," dice il vecchio avanzando con passo fermo "sorella di Tiros."

L'uomo si avvicina e posa una mano sulla testa della donna che al contatto, nonostante sia ancora priva di coscienza, ha una specie di sussulto.

"Gli Dèi le hanno tolto il lume della ragione e suo fratello ormai da anni è costretto a tenerla legata ogni volta che deve uscire e lasciarla sola, perché non dia fuoco alla casa o non si faccia del male. Deve essere riuscita a slegarsi ed a scappare."

Continuando a parlare, l'uomo fa un cenno con una mano al locandiere.

"Tindaro apri il magazzino. Per ora la lasciamo lì. Qualcuno vada a cercare Tiros."

Ma la guerriera scatta in avanti sbarrandogli il passaggio.

"Non tanta fretta. Prima di tutto, tu chi sei?".

Ergendosi in tutta la sua statura che supera leggermente anche quella di Xena, il vecchio posa uno sguardo freddo negli occhi altrettanto gelidi della donna.

"Il mio nome è Acros, sono Capo del Consiglio di questo villaggio, straniera, e come tale ti suggerisco di non immischiarti in faccende che non ti riguardano. Questa disgraziata non è in grado di ragionare e deve essere messa al sicuro in attesa che suo fratello venga a riprendersela."

Per niente intimidita dal tono imperioso di Acros, Xena continua a fissare negli occhi il vecchio quasi a cercare di leggerne l'animo dietro quel gelido muro di alterigia.

"Prima, là fuori" dice con studiata lentezza "ha parlato di una bambina. Diceva che le hanno portato via la figlia."

Con un gesto di esasperazione Acros congeda le parole di Xena.

"Chi può dire cosa è capace d'inventarsi una povera pazza? Sarah non ha mai avuto figli, per fortuna. Tindaro!"

Acros si gira rabbiosamente verso il locandiere che è rimasto immobile per tutto il tempo, come pietrificato, accanto al suo bancone.

"Vuoi aprire quel magazzino, sì o no? E voi due," dice rivolto a due uomini al suo seguito "prendetela e legatela a uno dei barili e che uno di voi resti a sorvegliarla."

"Un momento."

Olimpia che si è inginocchiata accanto alla donna priva di sensi per verificarne le condizioni, guarda Acros indignata.

"Non credo che legarla e rinchiuderla sia il metodo adatto da usare con una donna in questo stato. Voi cercate pure suo fratello. Intanto ci occuperemo noi di lei."

Acros guarda Olimpia come se si accorgesse solo ora della sua presenza. Poi include nel suo sguardo anche Xena che si è portata al fianco della compagna.

"Chi siete voi per arrogarvi il diritto di immischiarvi in affari che non vi riguardano?" chiede con occhi che mandano lampi di furore.

"Questo affare ha cominciato a riguardarci nel momento in cui ho raccolto questa donna in mezzo a quel cortile, mentre nessuno di voi si è neanche disturbato ad uscire per vedere cosa stesse succedendo."

La voce di Xena risuona fredda e determinata nel silenzio della grande sala, mentre i suoi occhi sottolineano le parole vagando da un volto all'altro dei presenti che sotto lo sguardo della Principessa Guerriera abbassano il viso sul tavolo.

"Ma che razza di persone siete?" Olimpia si alza per fissare a sua volta gli uomini seduti intorno a loro. "Come potete lasciare che una povera donna venga legata e trattata a questo modo? Come potete restare indifferenti davanti ad uno spettacolo del genere?"

"Cosa sta succedendo qui?"chiede qualcuno dietro di loro.

Tutti gli sguardi nella sala si dirigono alla porta dove ora sta un uomo non piú giovanissimo con gli abiti gocciolanti di pioggia. Non molto alto, l'uomo si muove lentamente verso il centro della sala guardandosi intorno con un'espressione guardinga negli occhi scuri.

"Tiros! Finalmente!"

Acros supera Xena e si dirige a grandi passi verso l'uomo.

"Riprenditi tua sorella e procura che in futuro non fugga più, causando queste imbarazzanti situazioni."

"E come farai? La metterai in catene?" chiede Olimpia, senza nascondere la rabbia nella sua voce.

Xena con uno sguardo ammonisce la compagna e si avvicina a sua volta a Tiros, passando oltre Acros come se non esistesse.

"Da quanto tempo tua sorella è in queste condizioni?"

L'uomo la fissa incerto se rispondere o no e il suo sguardo corre ad Acros come in una muta richiesta di soccorso.

"Donna!" tuona la voce di questi. "Per l'ultima volta..."

Il dito di Xena si punta sul vecchio senza che la guerriera si volti neanche a guardarlo.

"Acros, o come diavolo ti chiami, aggiungi solo un'altra parola e sarai il prossimo ad essere disteso su uno di questi tavoli. Sono stata chiara?"

Senza dare il tempo all'oltraggiato Capo del Consiglio di ribattere, Xena continuando a fissare il fratello della donna, lo incalza.

"Allora? Ti ho fatto una domanda."

Vedendosi privo del supporto dei suoi concittadini che paiono tutti molto interessati alle proprie consumazioni, e hanno deciso evidentemente che non vale la pena di rischiare la propria incolumitá, Tiros lancia un'occhiata a Xena e risponde.

"Da anni ormai, ma ultimamente è peggiorata. Ha cominciato a farneticare che le avevano rapito la figlia. Che sciocchezza... Mia sorella non ha mai avuto figli. Non si è mai nemmeno sposata."

"Ti assicuro che la cosa non rappresenta un impedimento insormontabile." dice Olimpia, prima di rendersi conto dell'insinuazione implicita nelle sue parole.

Tiros la guarda come se volesse fulminarla con gli occhi.

"Mia sorella è pazza, ma non è una..."

"Calmati." interviene prontamente Xena, lanciando contemporaneamente uno sguardo eloquente alla compagna. "Non intendeva dire niente di offensivo."

"Sì, scusami." aggiunge Olimpia a mezza voce, con un leggero rossore sul viso. "Pensavo a... cose del passato... troppo lunghe da spiegare."

Xena torna ad studiare il corpo esanime della donna, sollevandole le palpebre ed osservando con attenzione le pupille.

"Tuttavia vorrei darle un'occhiata, se non ti dispiace."

"Xena è una valente guaritrice" dice di getto Olimpia, felice di cambiare argomento "e se può fare qualcosa per tua sorella, lo farà volentieri."

L'uomo le guarda esitando e i suoi occhi s'incontrano con quelli di Acros. Lo sguardo tra i due, benché non duri più di un attimo, non sfugge a Xena, che resta comunque impassibile, continuando ad esaminare la donna.

Dopo qualche altro momento di silenzio, Tiros si decide a rispondere.

"Ti ringrazio, ma noi siamo povera gente e non possiamo permetterci guaritori."

"Chi ha mai parlato di denaro?" risponde Olimpia con un sorriso. "Vieni, porteremo tua sorella nella nostra stanza. Xena la visiterà e credo anche di avere un unguento per quelle ferite ai polsi."

Prima che qualcuno possa dire qualunque cosa, Xena riprende tra le braccia il corpo privo di conoscenza della donna e seguita da Olimpia sale le scale verso la loro camera.

Tiros fa per accodarsi, ma la mano di Acros lo afferra per la spalla bloccandolo sul posto.

"Sei un idiota!" gli bisbiglia all'orecchio."Se scoprono qualcosa, tu e tua sorella la pagherete!"

Con uno strattone, Tiros si libera dalla presa del vecchio e senza una parola segue le due donne per le scale.

(6) Carruthers

Il capitano Carruthers, fermo di fronte al palazzo della procura, lancia un'ultima occhiata al cielo grigio di quella tipica mattinata autunnale, notando ancora una volta, come si intoni al suo umore, mai particolarmente garrulo, ma da un po' di tempo a quella parte anche peggiore del solito. E ricevere una convocazione nell'ufficio del procuratore Ballister non lo migliorava certamente.

Carruthers sapeva esattamente di cosa volesse parlargli il Grande Stronzo, come lo aveva privatamente ribattezzato, e stava già preparandosi psicologicamente su cosa rispondergli. Ma dentro di sé sapeva bene che non era quella la ragione principale del suo continuo malumore (anche se la sola vista o il solo sentire nominare il procuratore contribuivano in misura massiccia), bensí il profondo disgusto che provava verso se stesso. Quante volte in quei mesi si era svegliato in piena notte, nel suo appartamentino da scapolo di mezz'età, con nella mente gli occhi arrossati dal pianto, pieni di disperazione e rancore (rancore? No, chiamalo col suo giusto nome, odio) di Jennifer Rowles.

L'ultima volta che l'aveva vista era stato al funerale della Bowers. Lui aveva cercato prudentemente di restarsene in disparte, non ben sicuro di quale avrebbe potuto essere la reazione della donna se si fosse accorta della sua presenza, ma non era certo di esserci riuscito. Più di una volta, volgendo lo sguardo verso la snella figura in nero a pochi passi dal feretro, gli era parso che lei lo stesse fissando dietro gli ampi occhiali scuri, ma la donna era rimasta immobile e rigida, mai dando l'impressione di averlo realmente scorto nel sia pur scarso gruppo di partecipanti, qualche parente alla lontana, la ragazza aveva perso i genitori da anni, un paio di ex-colleghe, forse amiche era un'espressione troppo forte, del locale in cui aveva lavorato piú a lungo, e quella donna completamente vestita di nero che si era aggregata silenziosamente senza rivolgere la parola a nessuno e di cui tutti sicuramente si stavano chiedendo l'identità, come altrettanto sicuramente si chiedevano chi si fosse occupato di pagare i funerali e in particolare quella cassa dall'apparenza tanto costosa.

Carruthers si era trattenuto poco. Ad un certo momento, quando la cerimonia non era neanche giunta a metà, se ne era andato senza voltarsi indietro, e con  la netta sensazione di due occhi incollati sulla sua schiena. Da allora, non l'aveva più vista, né cercata. Aveva saputo che aveva dato le dimissioni dallo staff del procuratore, dopodiche di lei si erano perse le tracce.

Dopo quella notte da incubo, anche lui era stato ad un passo dal lasciare la polizia sbattendo la porta. Il ruolo che gli era stato attribuito in quella storia non gli era piaciuto affatto. Tradire la fiducia di un'amica, sia pur allo scopo di catturare una fuorilegge, non l'esaltava. Ma poi, quel solido buon senso inculcatogli da suo padre, aveva avuto il sopravvento. Era giunto alla conclusione che la morte della ragazza e tutti gli avvenimenti seguiti in quei caotici giorni l'avevano scosso profondamente e che gettare anni di carriera nella spazzatura non sarebbe servito comunque a restituire la vita a quella poveretta né a tranquillizzare la sua coscienza. Cosí aveva soprasseduto, almeno per il momento, alla sua decisione. E poi ciò che che era accaduto nelle ore immediatamente seguenti allo scontro con l'Amazzone, l'aveva distolto totalmente da riflessioni personali, costringendolo a relegare i suoi scrupoli per la morte della Bowers e per le accuse rivoltegli da Jennifer in fondo alla propria mente.

La notizia gli era giunta a poche ore dall'operazione alla villa di Sutherland. Il corpo di una donna, Cheryl Cooper, giornalista dell'Inside View, era stato rinvenuto all'interno del suo appartamento, con numerose ferite d'arma da fuoco. Immediatamente aveva sentito i peli sul collo rizzarglisi e nonostante il delitto non fosse avvenuto nel suo distretto, si era precipitato sul posto per verificare di persona l'incredibile sospetto che gli era venuto.

Le ferite sul corpo non lasciavano dubbi. Lui aveva visto molto bene, pur nella confusione del momento, dove era stata colpita l'Amazzone, che invece di abbattersi morta sul colpo come sarebbe stato logico, aveva trovato la forza di allontanarsi di corsa facendo perdere le tracce, e sapeva altrettanto bene che per quanto forte potesse essere, non avrebbe potuto sopravvivere a lungo, ma tutto si sarebbe aspettato meno di ritrovarla nell'ingresso di quel lussuoso appartamento in pieno centro cittadino.

Eppure, fissando quel volto immobile nella morte, Carruthers non aveva potuto fare a meno di chiedersi cosa avesse realmente visto in quel giardino. Perché a parte alcune caratteristiche comuni, come il colore dei capelli e degli occhi, non c'era molto altro che potesse identificare la Cooper come la misteriosa giustiziera che i giornali avevano soprannominato l'Amazzone. Lui le aveva viste entrambe e per quanto la Cooper fosse alta, l'Amazzone la superava di diversi centimetri, tutto il suo fisico appariva più robusto e prestante di quello della giornalista, per non parlare dei tratti del viso che nella penombra tagliata dalle forti luci delle torce le erano sembrati piú marcati e spigolosi di quelli della donna che giaceva in un lago di sangue su quel pavimento lucidato a specchio. A meno che...

Carruthers aveva sentito dire che a volte nell'emozione del momento si possono vedere cose che non esistono, che le percezioni possono alterarsi, e preferiva aggrapparsi a questa ipotesi, perché l'alternativa lo gettava nello spavento e nella confusione.

L'accurata perquisizione a cui era stata sottoposto l'appartamento e l'intero palazzo non aveva dato luogo al ritrovamento della spada, di quegli strani abiti e tanto meno dell'ancora più strano cerchio di metallo che l'Amazzone usava con tanta abilità. Niente, a parte la raffica di proiettili che l'aveva quasi sventrata, avrebbe mai potuto mettere in relazione quel cadavere con quanto era accaduto quella stessa notte alla villa di Sutherland. E cosí doveva essere.

Ripensandoci Carruthers non avrebbe saputo dire perché, avvalendosi del suo grado e della sua autorità, aveva ordinato agli uomini della sua squadra e a quanti avevano partecipato a quell'operazione, di tacere su quello che avevano visto, ma aveva saputo subito che la sua linea di condotta aveva incontrato l'approvazione del procuratore. Naturalmente per ragioni assai piú pragmatiche. Nonostante l'individuazione e l'uccisione della pericolosa vigilante, quella storia conservava troppi misteri e troppe domande a cui Ballister non avrebbe saputo dare risposte in un momento cosí critico come quello dell'anno che precedeva le elezioni. Quindi mettere a tacere la questione era sembrata nel palazzo della procura, la soluzione piú idonea e meno compromettente.

Ma a tutto questo, Carruthers non aveva neanche pensato. La sua decisione improvvisa era stata solo frutto, probabilmente, di un estremo tentativo di proteggere almeno la privacy, non avendo potuto impedire il disastro, di quel piccolo gruppo di morti e sopravvissuti che ne erano rimasti coinvolti. E quando era arrivata la promozione, ne era stato profondamente sorpreso e anche un po' disgustato. Era come se accettandola, firmasse la sua adesione a quel circolo di politicanti e loro cortigiani che manovravano nell'ombra le vite e i destini di persone ignare. Ma non accettarla avrebbe significato dare l'addio al suo lavoro, e ciò che più contava, ai suoi modesti sogni di una vecchiaia tranquilla da pensionato.

Quindi, ingoiando la rabbia, aveva fatto quello che aveva sempre fatto nella sua vita: obbedire, riallineandosi ai dettami del buon senso, il caro vecchio odioso buon senso, insostituibile compagno della sua squallida esistenza, accettando le pacche sulle spalle e i complimenti dei colleghi e, suprema ironia, offrendo anche un piccolo rinfresco in ufficio, badando bene a non lasciare trasparire la più piccola traccia di quel tormento interiore, se non nell'evitare d'incontrare, anche solo per caso, Jennifer Rowles. Cosa che poi si era rivelata più facile del previsto, dato che la donna, dopo aver lasciato il suo lavoro, si era trasferita in una zona molto lontana da quella che era stata il teatro di quelle terribili giornate, tagliando o cercando di tagliare tutti i ponti col passato.

Ma lui sapeva che non ci sarebbe mai riuscita, proprio come lui, che al mattino provava a radersi guardandosi il meno possibile allo specchio. E questo, oltre ad evitargli di vedere la sempre più ampia pelata che si faceva strada sulla sua testa, gli impediva di scorgere nel fondo dei suoi stessi occhi quella bruciante sensazione di schifo che provava per se stesso.

Con un sospiro, il capitano Carruthers infila le mani più profondamente nelle tasche del pesante cappotto e sale i gradini del palazzo.  

7) Xena e Olimpia

Entrata nella stanza col corpo della donna completamente abbandonato tra le braccia, Xena si avvicina al letto, e ve lo adagia con cautela. Poi, inginocchiatasi accanto comincia ad visitarla con cura.

"Va bene." Olimpia che chiude il gruppetto, si appoggia con le spalle alla porta e afferra per la spalla Tiros, costringendolo a voltarsi verso di lei. "Vuoi raccontarci almeno tu cosa sta succedendo qui?"

L'uomo la guarda, ma i suoi occhi continuano a muoversi intorno cadendo di continuo sul corpo della sorella disteso sul letto e solo parzialmente visibile dal punto in cui si trova, dietro le schiena poderosa della guerriera.

"Non capisco cosa vuoi dire. Non sta succedendo niente. Mia sorella non è in sé, lo vedete, no?" Ma Olimpia non risponde e continua a fissarlo a braccia incrociate. "Io... io sono costretto a legarla. Devo andare a lavorare, sono l'unico che guadagna qualcosa nella nostra famiglia e non ho nessuno a cui affidarla. Non voglio che dia fuoco alla casa o si ferisca o... o peggio."

L'uomo appare sempre più agitato sotto lo sguardo fermo di Olimpia. La ragazza resta ancora in silenzio per qualche attimo, mentre in sottofondo si sente il leggero fruscio del vestito della donna che Xena sta tirando su per controllarne meglio le condizioni.

"Sì." dice poi, sempre senza staccare gli occhi da quelli di Tiros. "Lo sappiamo. Ce l'ha già detto Acros, e praticamente con le stesse parole. Ma tua sorella si è liberata, e non ha dato fuoco alla casa, non si è ferita o altro. E' soltanto scappata, come avrebbe fatto chiunque."

"Cosa volete che possa rispondervi, io? Come posso sapere cosa può inventarsi una povera pazza?"

Il volto immobile di Olimpia si apre in un sorriso inaspettato e velatamente ironico.

"E due. Tu e Acros siete proprio in sintonia. E' la seconda volta che usi parole sue. Siete sicuri di non essere anime gemelle?"

Pur nella drammaticità del momento, Olimpia è quasi sicura di aver sentito un leggero risolino giungere da dietro le larghe spalle di Xena, anche se la guerriera in apparenza sta continuando imperterrita ad esaminare la donna. Ma Tiros non pare aver colto il lato umoristico della cosa e continua ad andare con lo sguardo avanti e indietro tra la figura riversa sul letto e Olimpia, ancora appoggiata alla porta.

"Tu... stai accusandomi di mentire? E' così? Credi che potrei fare del male a mia sorella? Come puoi pensarlo?"

Il tono dell'uomo potrebbe essere anche convincente, se in fondo ai suoi occhi non si agitassero sentimenti che poco si accordavano con l'indignazione nella voce. E Olimpia non è sorpresa di leggervi tra quelli anche la paura.

"Noi non pensiamo nulla... per ora." La voce della Principessa Guerriera, gelida e tagliente come una lama, fa voltare l'uomo di scatto verso l'alta figura che, alzatasi dalla sua posizione, ora si avvicina a loro.

"Ma tua sorella resta qui." aggiunge con un tono che non ammette repliche.

"Cosa?!?" Ora incredulità, rabbia, sgomento s'inseguono senza soluzione di continuità sul volto di Tiros, che sembra aver dimenticato nella concitazione dell'attimo, ogni ritrosia e timidezza. "Ma chi credete di essere, voi due? Chi vi dà il diritto di dare ordini? Quella è mia sorella e io me la riporto via!"

Senza neanche curarsi di rispondergli, Xena si volta e, con movimento studiato, estrae la spada dal fodero sulla schiena e la posa sul tavolo, per tornare dalla sua paziente.

"Olimpia, cerca di procurarti qualcosa da mangiare e da bere. E fai che ci mandino anche un secchio di acqua ben calda e dei panni puliti."

"Vado." Olimpia riapre la porta alle sue spalle ed esce dalla stanza.

Tiros l'osserva allontanarsi, con sguardo furente, poi si gira verso Xena che ha ripreso come se nulla fosse a tastare il corpo della donna all'altezza del ventre. L'uomo resta ad osservarla per un po', sempre più agitato, poi esplode.

"Che cosa le stai facendo? Metti giù le mani da lei!" urla quasi, ormai dimentico di ogni remora, correndo verso il letto. Fa per tendere un braccio verso la sorella, ma la mano di Xena lo afferra per il polso allontanandolo senza sforzo apparente.

"Tiros, se vuoi restare qui, non ho obiezioni, ma dovrai startene fermo ed in silenzio. In caso contrario ti butterò fuori di peso, a fare compagnia a tutti i tuoi illustri concittadini."

Tiros resta per un attimo basito, non sapendo cosa fare o dire, con gli occhi incollati in quelli duri e freddi della guerriera, quindi si volta, si dirige alla porta ed esce sbattendosela alle spalle.

Sulle scale incrocia Olimpia che sta salendo, tenendo tra le mani un vassoio con sopra alcuni piatti, boccali e una brocca colma. Subito dietro di lei, c'è il locandiere con un altro vassoio  pieno di frutta in una mano ed un secchio d'acqua fumante pieno fino all'orlo nell'altra con degli stracci appoggiati sopra. Con un ultimo sguardo rabbioso, Tiros li schiva e continua a scendere.

Senza curarsene, la ragazza apre la porta della stanza ed entra seguita da Tindaro che deposita il secchio accanto all'entrata.

"Ti ringrazio." dice Olimpia che ha appena poggiato il suo vassoio sul tavolo, raccogliendo l'altro dalle sue mani. Con un sorriso appena accennato, l'ometto se ne va.

Di nuovo sole nella stanza, Olimpia si avvicina al letto dove Xena è ancora china su Sarah.

"Che cosa ha?"chiede.

"Un febbrone da cavallo. Direi che prima di svenire fosse già in pieno delirio."

"Allora è vero quello che dicevano. E' fuori di sé."

"Può darsi. Ma di sicuro non si è inventata la bambina."

"Cosa?"

Xena si arresta un momento nel suo lavoro e volta il viso verso la compagna, fissando il suo sguardo in quello interrogativo di lei.

"Olimpia, questa donna ha partorito abbastanza di recente. Direi da non più di un paio di settimane. Il rilassamento della pelle e dei muscoli del ventre parla chiaro. Inoltre, o ha partorito da sola o chiunque l'abbia assistita ha fatto un pessimo lavoro. Ci sono ancora grumi di sangue tra le cosce ed è probabile che residui di placenta siano rimasti all'interno."

"Che cosa possiamo fare?"

"Non molto, purtroppo." risponde la guerriera, tornando al suo compito. "Avvicina quel secchio e tergile la zona tra le gambe. Cerca di rimuovere un po' di quel sangue, io intanto cercheró tra le mie erbe qualcosa per farle abbassare la temperatura e combattere l'infezione."

Poi, mentre Olimpia si mette all'opera, fa una pausa, alzandosi.

"Ma temo che sia già troppo avanzata." aggiunge, mentre si accoscia accanto al loro zaino, frugandovi dentro.

Nella sala in fondo alle scale, intanto la concitazione dei minuti precedenti ha lasciato il posto ad una relativa calma. Gli avventori del locale sono ormai ridotti a poche unità, e tutti troppo ubriachi per interessarsi o anche solo ascoltare distrattamente le frasi che un inquieto Acros scambia con i suoi accompagnatori. I tre sono seduti al tavolo più lontano vicino alla finestra in fondo. Quando Tiros appare in cima alle scale e li individua immediatamente scendendo rapidamente per dirigersi verso di loro, Acros si alza dal suo posto e con passo altrettanto rapido gli si fa incontro, raggiungendolo a mezza strada.

"Cosa è successo?" chiede subito, afferrando  l'uomo per le braccia  e costringendolo a guardarlo in faccia.

"Non temere. Non ho detto nulla." risponde Tiros.

"Idiota. Non c'è bisogno che tu dica qualcosa. Basterà che esamini tua sorella per accorgersi che ha partorito da poco." esclama il vecchio, spingendolo via con rabbia.

Uno degli uomini si alza e si avvicina ad Acros lanciando contemporaneamente un'occhiata circospetta in giro per accertarsi che nessuno realmente s'interessi alla loro conversazione.

"E allora?" chiede sottovoce, riconducendolo verso il tavolo. "Anche se avvenisse? Ti preoccupi troppo, Acros. In fondo sono solo due donne. Anzi, se le hai guardate bene" aggiunge poi, con un ghigno rimettendosi a sedere "costituirebbero un piacevole diversivo. Sono belle e robuste e scommetto che sarebbero perfettamente adatte allo scopo."

"E' proprio perché le ho guardate bene che mi preoccupo." risponde Acros, sedendosi a sua volta. "Lo so che sono due donne, ma la piú alta è sicuramente una guerriera e potrebbe procurarci un mucchio di guai. E l'altra? E' più piccola, ma ben piantata e ha l'aria di essere abile nell'uso di quei due spilloni che porta negli stivali."

"Se le cose dovessero volgere al peggio, ce ne libereremo in qualche modo." dice l'altro con una scrollata di spalle. "Guerriere o no, sono solo due."

In quel momento, Tindaro, il locandiere scende le scale e con passo felpato, raggiunge il gruppetto.

"Allora, cosa hai sentito?" chiede Acros.

"Non molto, parlano a bassa voce. Ma credo di aver capito che Sarah è grave e forse non ce la farà." risponde l'ometto chinandosi sul tavolo verso  i quattro uomini. Poi si raddrizza, allontanandosi.

Un mezzo sorriso si apre sul volto fino allora preoccupato di Acros.

"Perfetto. Se muore, non potrà dire niente."

"Ehi!" esclama Tiros. "Stai parlando di mia sorella."

Un risolino chioccio esce dalla gola di Acros.

"Ma finiscila. Se ti importasse qualcosa di lei, non le avresti fatto... quello che le hai fatto."

E la risata cosí stonata in quell'ambiente cupo si comunica agli altri due uomini seduti di fronte a lui, mentre Tiros li guarda cupo.

Nella stanza regna un silenzio tombale. Xena e Olimpia sono in piedi, accanto al letto ed osservano la donna che vi giace sopra. Nonostante la fronte sia madida di sudore e il corpo avvolto accuratamente nella coperta, è in preda ad un forte tremore.

"Che ne dici?" chiede Olimpia guardando la compagna.

"Non lo so. L'unica cosa che possiamo fare è aspettare, temo. Questa poveretta deve essere in queste condizioni da giorni, ormai. E' già straordinario che sia ancora viva."

"Ma secondo te, che cosa sta succedendo? Che significa questa storia? Perchè nascondere un parto, e che fine avrà fatto la bambina?"

"Calma, Olimpia." risponde Xena con un sospiro. "Una domanda alla volta."

Poi, stiracchiandosi la schiena, la guerriera si lascia cadere a sedere sul bordo del letto, e senza una parola, come per un messaggio telepatico, Olimpia le si posiziona dietro e, appoggiando un ginocchio sul lenzuolo, comincia a praticarle un massaggio sul collo. Con un mugolio di soddisfazione, Xena riprende a parlare.

"E' evidente che qui accadono cose che la gente del villaggio non vuole si sappiano in giro, e mi pare altrettanto chiaro che invece quell'Acros e i suoi accoliti la sappiano lunga in proposito."

"D'accordo. E noi che facciamo?"

"C'è da chiederlo?" chiede Xena, voltando la testa di quel tanto da permettere ad Olimpia di continuare il suo massaggio.

"Oh, lo so."risponde la ragazza con un sorrisetto."Se è ancora possibile, cercheremo di salvare la vita di questa povera donna, per farci raccontare da lei cosa le è capitato, altrimenti romperemo un po' di teste, finché non scopriremo la verità."

Chiudendo gli occhi, Xena inclina la testa all'indietro, lasciando che i benefici effetti del massaggio che le dita morbide della compagna le stanno praticando si estendano lungo tutta la spina dorsale.

"Mmmh." mormora con un mugolìo soddisfatto. "Mi piaci quando fai la dura."

Per il resto della notte, Xena e Olimpia si erano date il cambio al capezzale della donna, intingendo di continuo un panno nell'acqua fredda per stenderlo sulla fronte della poveretta che soltanto di tanto in tanto aveva emesso un gemito o pronunciato qualche parola incomprensibile nel delirio. Alla fine, la donna era sembrata trovare un po' di requie e pareva caduta in un sonno almeno più tranquillo se non profondo. E alle prime luci dell'alba, dopo essersi accertata della stabilità delle sue condizioni, Xena si decide e delicatamente posa una mano sulla spalla di Olimpia, addormentatasi sulla sedia, con la testa appoggiata tra le braccia conserte sul tavolo, scuotendola appena. La ragazza si sveglia di scatto e la fissa sorpresa e ancora assonnata, nel vederla, armata di tutto punto e pronta ad uscire.

"Ehi, dove vai?"

"Vado a cercare da mangiare. Qualcosa di serio, cioè, non quella brodaglia che il locandiere chiama stufato. Cercherò di procurarmi della selvaggina,"

Con un cenno, Olimpia indica la donna distesa sul letto.

"Lei come sta?"

"Né meglio, né peggio. Il che potrebbe anche essere un segnale positivo. Da come era ridotta ieri sera, non avrei scommesso che avrebbe passato la notte."

Olimpia si avvicina al letto chinandosi sulla donna per sentirle la temperatura.

"E' ancora molto calda, ma mi sembra che dorma meglio." Poi, si rialza girandosi verso Xena, con un mezzo sorriso. "Niente male la nostra notte tranquilla e tutta per noi, eh?"

"Beh, ormai dovremmo saperlo che la tranquillità non è cibo per i nostri denti." risponde la guerriera, restituendole il sorriso con un'ombra di tristezza, accompagnato da un bacio leggero. "Resta qua. Cercherò di tornare prima possibile."

E ancora una volta con un balzo dalla finestra, Xena in un baleno è scomparsa alla vista.

Olimpia rimane a fissare il riquadro attraverso cui i primi lumi del giorno cominciano a fare capolino.

"Ma perché non riesce ad entrare o uscire da una stanza in modo normale?" mormora, scuotendo la testa. Quindi torna a rivolgere la sua attenzione alla donna, immerge il panno umido nell'acqua fredda e, strizzatolo con cura, lo risistema sulla fronte ancora bruciante. Poi la sua bocca si spalanca in uno sbadiglio enorme e Olimpia si sfrega il viso, cercando di scacciare gli ultimi residui di sonno. Nonostante abbia dormito tutto sommato abbastanza, almeno per i parametri di qualcuno che divide la vita con la Principessa Guerriera, la lunga camminata del giorno prima su quell'interminabile sentiero in salita reso quasi impraticabile dalla pioggia e le emozioni della serata, quelle attese e quelle inattese, avevano evidentemente inciso più di quanto pensasse su di lei. Soffocando un nuovo attacco di sbadigli, Olimpia si dirige verso il catino posto contro la parete in fondo e si spruzza in faccia l'acqua resa gelida dall'aria della notte. A contatto con il liquido gelato, la pelle reagisce trasmettendole un brivido lungo la schiena e lei tremando, tende la mano verso il panno asciutto che pende dal bordo.

In quel momento un urlo altissimo risuona nella stanza. Con un guizzo, Olimpia si volta, mentre i suoi occhi corrono istintivamente ai due sai posati sul tavolo a pochi passi da lei, ma tutta la sua attenzione è richiamata sulla figura che solo un attimo prima era distesa e priva di conoscenza e che adesso è improvvisamente balzata a sedere e con due occhi spalancati oltre il verosimile, al punto da far temere che le possano cadere dalle orbite da un momento all'altro, si guarda intorno muovendo la testa a scatti, ma senza dare l'impressione di vedere realmente la stanza che la circonda. I capelli fradici di sudore le pendono sul viso arrossato dalla febbre in certi punti e pallidissimo in altri, rendendolo una maschera di terrore, accentuata dalla bocca aperta da cui il respiro esce come un rantolo. Paralizzata dalla sorpresa, Olimpia si riprende quasi subito. Corre verso di lei, e prendendola per le spalle, cerca di spingerla nuovamente a distendersi.

"Sarah! Calmati! Calmati! Va tutto bene! Sei al sicuro!" le dice, cercando di mantenere il tono della voce basso per tranquillizzarla. La donna fissa il suo sguardo folle su di lei, e d'un tratto le è addosso. Le sue mani  scattano e, come due tenaglie, le si serrano intorno alla gola.

"MALEDETTIII!!! CHE AVETE FATTO A MIA FIGLIA?!?!? RENDETEMI LA MIA BAMBINAAA!!!"

Sotto la pressione, la ragazza sente il respiro mozzarlesi immediatamente e l'improvviso flusso di sangue alla testa le riempie le orecchie di un assordante ronzio che quasi copre le urla della donna. Cercando di sottrarsi alla stretta, pur mantenendo la calma ed evitando di farle del male, Olimpia le afferra i polsi tentando di staccare le mani che le stanno artigliando la gola, mentre entrambe scivolano a terra nella collutazione. Ma la donna in preda alla crisi di follia stringe sempre più forte e Olimpia, che sta cominciando a cedere al panico sentendosi mancare il fiato, colpisce d'istinto l'assalitrice con un pugno al mento, mandandola a sbattere con la testa contro una gamba del tavolo, sotto il quale sono rotolate.

Sarah si affloscia immediatamente su se stessa restando immobile, mentre la gola di Olimpia liberata si contrae lasciando penetrare l'aria lungo la trachea in lunghi e quasi dolorosi respiri. Trascinandosi a fatica, Olimpia si solleva lentamente sostenendosi al bordo del tavolo e in quell'attimo, con la gola che ancora le brucia e la testa che gira come una trottola impazzita, qualcosa risveglia i suoi sensi intorpiditi dallo shock. Un rumore alle sue spalle, un fruscio quasi soffocato, ma prima che possa voltarsi, il mondo le esplode nel cranio facendola schizzare nel buio.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                           (1- continua)





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