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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo XVI)

Parte 2

 

(76) Xena/Jennifer e Sutherland

 

Seduto da solo sul divano nel grande salotto della sua casa, Sutherland guarda senza realmente vederlo il buio che preme contro le ampie porte a vetri da dove soltanto pochi minuti prima ha visto sparire nell'oscurità del giardino la figura della guerriera. Malgrado l'apparente calma che trasuda dalla sua persona, e che gli è servita non poco nella movimentata serata appena conclusasi, il vecchio sente che le emozioni succedutesi nelle ultime ore stanno prendendo il sopravvento. Il battito cardiaco accellerato, il leggero sudore che nonostante la serata decisamente fresca avverte bagnargli la fronte e il collo sono segnali di uno stato emotivo che alla sua età non può più concedersi.

Inspirando ed espirando lentamente, il professore attende con pazienza che il suo ritmo cardiaco riprenda un andamento regolare. Per lunghi minuti l'unico rumore nella stanza è quello del suo respiro appesantito dall'esercizio, finchè non sente che tutto il suo corpo si sta rilassando e il sangue scorre più tranquillamente nelle sue vene. Sutherland aveva sempre preferito non fare uso di farmaci, quando era possibile, e anche se ora era vecchio, non vedeva perché non proseguire in questa sana abitudine. Era giunto alla sua veneranda età senza problemi fisici di rilievo, oltre i normali acciacchi della vecchiaia, e il suo cuore anche se sicuramente indebolito dagli anni non gli aveva mai dato preoccupazioni, quindi sapeva che la sua attuale situazione non preludeva ad un prossimo infarto, ma era altrettanto certo che l'eccitazione causatagli dai tanti, troppi, avvenimenti che avevano travolto la sua tranquilla esistenza dovesse essere tenuta sotto attento controllo.

Non è il caso di uscire di scena proprio ora che la cosa si sta facendo interessante. E quindi, vecchio mio, mantieni la calma e lascia che gli eventi ti scorrano addosso come gocce d'acqua sulla pietra.

Una frase che aveva trovato molti anni prima in un libro sulle antiche discipline orientali. Gli era rimasta impressa nella mente e ora gli pareva essere stata scritta proprio per lui. Naturalmente a lungo andare, l'acqua finisce per levigare la pietra, scavarla, aveva riflettuto allora leggendola, ma questo è nell'ordine naturale delle cose. Niente è eterno.

Niente? Beh, quasi niente.

Perché cosa dire di una certa Principessa Guerriera giunta, anzi no, tornata, da un epoca sepolta dai millenni nel passato? Ma, in realtà, quanto ci aveva riflettuto? Poco, come aveva ammesso lui stesso. L'incalzare dei fatti non gli aveva lasciato il tempo di pensare in modo approfondito a come Xena potesse essere giunta fin lì. Alla luce degli ultimi avvenimenti, credo che la mia teoria della reincarnazione vada rivista, aveva buttato lì nella sua conversazione con Croft. Ed infatti, era così. L'intera tesi su ciò che era accaduto mesi prima, e che lui aveva romanticamente interpretato come il viaggio di due anime attraverso i millenni e un numero imprecisato di reincarnazioni alla disperata ricerca l'una dell'altra, diventava ora molto discutibile. Jennifer non era certo la reincarnazione di Xena. Era divenuta per ragioni ancora ignote il contenitore dello spirito della guerriera, e il suo stesso spirito si trovava probabilmente adesso (anche se l'espressione adesso poteva risultare fortemente inappropriata), nel corpo di Xena chissà dove. Perchè forse dove era la parola giusta, non quando.

Dal confuso racconto che Xena gli aveva riportato su quanto le era stato detto dai due uomini che vivevano in quella foresta, i due eremiti che l'avevano rapita insieme ad Olimpia, si poteva ipotizzare che lei non fosse arrivata da un lontanissimo passato, ma da un universo parallelo. Una realtà alternativa che esisteva contemporaneamente a quella in cui si trovavano, magari proprio accanto.

Un'ipotesi da fantascienza, l'avrebbe liquidata immediatamente Jennifer, pensa Sutherland con un sorriso al ricordo della sua faccia stupita quando le prospettava le sue elaborate teorie. Almeno la Jennifer di allora, quella che aveva conosciuto lui e che non voleva arrendersi all'assedio dell'irrazionale che bussava alla sua porta. Chissà come la pensava ora? Lui invece, la considerava molto più di un'ipotesi. Non aveva fatto fatica a prestare fede a quello che la guerriera diceva, perché il suo cervello aveva cominciato, senza che lui neanche ne fosse cosciente, a mettere in fila tutti gli indizi che aveva raccolto negli anni e a cui non aveva ma saputo dare una spiegazione soddisfacente.

Perché di una guerriera come Xena, una condottiera che al comando di un esercito si diceva avesse conquistato città e nazioni, non erano praticamente rimaste tracce, se non quelle poche pergamene rintracciate in alcune tombe in Egitto e in Mesopotamia, al punto da concluderne che tutte le storie su di lei fossero solo leggende prive di qualsiasi fondamento? Era verosimile che di un personaggio di una tale portata non fossero rimaste maggiori testimonianze? Ma se invece le poche tracce ritrovate non fossero appartenute al nostro passato, ma fossero arrivate da un altro mondo, da un altro universo, questo avrebbe potuto spiegare perché di una conquistatrice e di una guerriera simile si era ritrovato così poco? E si sarebbe potuto spiegare perché anche quel poco era stato nascosto e dimenticato? Forse perché nessuna traccia deve restare dell'esistenza di altri mondi, come quell'Alexi aveva detto a Xena. Quando il tessuto tra gli universi si lacera in qualche punto, erano state più o meno le sue parole come gliele aveva riferite la guerriera, quelli che ne restano coinvolti, finiscono sempre  per credere di aver sognato o di aver avuto delle allucinazioni.

Niente da dire, era un'ipotesi davvero affascinante. Qualcosa che avrebbe rivoluzionato, anzi sconvolto, le conoscenze dell'umanità. Una cosa del genere avrebbe fatto sembrare le congetture più innovative sull'argomento, dall'iperspazio alla teoria delle stringhe, come semplici favolette per bambini. Non c'era da stupirsi che i segni di una verità di questo genere fossero accuratamente celati. Ed ogni volta che qualcosa filtrava oltre il sipario fitto che le era stato creato intorno, tutto veniva messo a tacere, in un modo o nell'altro. La teoria degli universi paralleli, avrebbe potuto spiegare molti misteri, dal triangolo delle Bermude alle apparizioni degli UFO, molti dei quali, guarda caso, negati o ridicolizzati dalle autorità e dai media. Perché tutto doveva essere nascosto. Perché nessuno doveva sapere. Gli uomini in nero? Le dimensioni parallele? Lasciate che gli scrittori di fantascienza o gli sceneggiatori di Hollywood si scatenino. Che importa? Tanto sono solo storie. L'importante è che nessuno sospetti mai quanto quelle storie si avvicinino alla verità.   

Forse sto facendomi trascinare troppo dalla fantasia, pensa con un sorriso, o forse no. Forse tutta la nostra fantasia non è in grado di imbrigliare questo fantastico universo, e quello che riusciamo ad immaginare non è che una piccolissima porzione di quello che realmente è. Forse in ogni storia, in ogni leggenda, in ogni opera che l'umanità ha prodotto nelle forme più varie in tutta la sua esistenza esiste una briciola di quella verità, un minuscolo elemento di un mosaico immenso, ma nessuno ha mai pensato di poter mettere insieme tutti i pezzi per cercare di ricomporlo. La fantasia è la chiave che c'è stata fornita per cercare di capire, ma la serratura è rimasta ben nascosta, da sempre invisibile ai nostri occhi, e forse è meglio così.

Sutherland si scuote dalle sue meditazioni come da un sogno ad occhi aperti e lascia vagare lo sguardo per la stanza riprendendo contatto con la realtà che lo circonda. E in quel momento, il rumore soffocato del meccanismo idraulico che apre automaticamente la vetrata lo riporta definitivamente al presente e il professore contempla con stupore la figura sulla soglia con gli abiti e i capelli in disordine, la pelle umida di sudore, ma uno sguardo limpido e, sì, quasi felice negli occhi.

"Che cosa hai fatto?" chiede.

"Movimento." risponde con un sorriso ferino la guerriera. "Questo corpo non è poi in così cattive condizioni come credevo. Aveva solo bisogno di sbloccarsi un po'. Mi sento ancora un po' indolenzita, ma  adesso va molto meglio." Xena si dirige al mobile bar e afferrata la caraffa dell'acqua se la porta alla bocca svuotandone in pochi attimi il contenuto. "Il nostro amico ficcanaso si è avvicinato per vedermi." dice poi, lasciandosi cadere su una poltrona.

"Croft?" Il professore spalanca gli occhi. "Non gli avrai...?"

"Sta' tranquillo." risponde la donna. "Ho fatto finta di non accorgermene nemmeno. Beh, se aveva ancora qualche dubbio quello che ha visto stasera dovrebbe averlo convinto che qui dentro non c'è più quella Jennifer."

"Bene." dice Sutherland sollevato. "Quell'uomo potrebbe tornarci utile se non lo spaventiamo troppo."

"E in che modo?"

"Non ne ho idea, ancora." risponde il professore scuotendo la testa. "Devo confessarti che non so proprio cosa fare. Non sono un poliziotto e questo è un territorio completamente sconosciuto per me."

"Nel mio mondo, saprei io cosa fare." mormora Xena. "Ma qui... mi sento così impotente."

I due restano in silenzio per qualche momento guardando fissamente il vuoto.

"Pensavo ad Olimpia, tornando qua." dice la guerriera. "Cosa direbbe o farebbe sapendo che un bambino è in pericolo. Lei non si arrenderebbe. Non sopporterebbe l'idea che per colpa sua non possa essere salvato." Xena solleva lo sguardo sul professore. "Ma se non posso fare nulla, a cosa è servito portarmi qui?"

"Non lo so." risponde Sutherland. "Possiamo solo aspettare e sperare che succeda qualcosa."

"Non sono molto brava ad aspettare quando non sono io a gestire le cose. Intanto vado a farmi un bagno." sospira Xena, passandosi una mano tra i capelli sporchi e madidi di sudore. "Mi auguro che la tua fede sia ben riposta." dice poi, alzandosi.

"Me lo auguro anch'io." mormora Sutherland guardandola sparire oltre la porta del salotto.

 

 

(77) Carruthers

 

Il capitano Carruthers infila velocemente la porta del suo appartamento e la richiude con un tonfo alle sue spalle, appoggiandovisi contro con un grosso sospiro. Finalmente un po' di pace. Un angolo tranquillo dove poter riflettere con calma. Perché c'era da riflettere, e tanto. C'era una decisione da prendere, e dopo quella, la sua vita non sarebbe potuta più essere la stessa. Sempre che lo fosse ancora in quel momento. E di questo era tutt'altro che sicuro.

Tutti gli avvenimenti di quella strana giornata che andava concludendosi gli si affollavano disordinatamente nella testa, tirando i suoi pensieri da una parte o dall'altra e impedendogli quasi di concentrarsi sull'idea che finalmente sembrava aver preso concretezza e che lo eccitava e spaventava in ugual misura. A Jennifer e al suo strano comportamento si era alla fine imposto di non pensare. Di tutto ciò che era successo, quello era l'evento che per ragioni misteriose gli procurava più disagio, per cui l'aveva messo da parte, ripromettendosi di esaminarlo con più calma in seguito. Perché c'era un altro evento che era invece ora di affrontare senza più esitazioni. Ballister. Non ne poteva più di lui. La cosa gli si era rivelata finalmente, chiara e lampante come il sole di ferragosto, e nel momento in cui aveva avuto la sua rivelazione aveva saputo cosa fare. O per lo meno, quello che avrebbe dovuto fare.

Quando era giunto sulla scena del crimine, Ballister non gli aveva neanche lasciato il tempo di ragguagliarlo sull'accaduto, ammesso che gli interessasse davvero, e aveva cominciato subito invece ad inveire contro i suoi uomini ma, come era parso a Carruthers, soprattutto contro di lui.

A quello che aveva capito dalla strapazzata furiosa che il capo della procura gli aveva riservato, l'origine della sua collera era da ricercare in un colloquio telefonico avuto con il sindaco, nel corso del quale la massima autorità cittadina gli aveva detto chiaramente che non intendeva più proteggergli il culo e la sua bella poltrona dove posarlo (erano state le precise parole, uscite dalla bocca sbavante di un Ballister che ormai aveva abbandonato ogni parvenza di aplomb) e che si sarebbe messo immediatamente in contatto con gli uffici della polizia federale, perchè prendessero in mano loro le indagini, visto che lui sembrava essere incapace di eseguirle.

Ballister pareva irriconoscibile. L'uomo che, secondo le dicerie, spendeva venti minuti al mattino per scegliere la cravatta che s'intonasse all'abito e che non metteva piede fuori di casa prima di essersi accertato che la scriminatura nei capelli fosse perfetta come se tracciata con il righello, sembrava ora il reduce di una rissa in un bar di infimo ordine. Scarmigliato, il viso rosso come nell'imminenza di un colpo apoplettico, il colletto della camicia slacciato di ben due bottoni e il costoso cappotto di cammello negligentemente gettato su una spalla. Carruthers avrebbe giurato perfino che nelle fiatate che gli tirava ad ogni urlo si avvertissero zaffate di gin e whisky provenirgli dalla bocca, come se prima di precipitarsi là avesse dato fondo alla sua ben nota e preziosa collezione di bottiglie d'annata.

"Ma non crediate di cavarvela così, voi due! Stark, sto parlando anche con lei!" aveva continuato ad urlare, rivolto al segaligno e disorientato collega di Carruthers che lo fissava ammutolito e ad occhi spalancati. "Se affonderò io in questa storia, voi e tutti quegli altri inutili sacchi di merda che si autodefiniscono ufficiali di polizia mi seguirete. Prima di lasciare il mio ufficio, farò la più grande epurazione che questa città abbia mai visto. Non riuscirete a trovare più un posto neppure come guardamacchine! Mi avete sentito bene?!?"

La domanda ovviamente era puramente accademica, dato che sarebbe stato impossibile non sentirlo nel raggio di un paio di miglia intorno. Gli agenti e gli altri membri della scientifica ancora intenti a rilevare tracce cercavano con tutte le forze di sembrare indifferenti e di prosegure il loro lavoro con attenzione e professionalità, ma era sicuramente difficile trattenere lo sguardo che continuava quasi di sua volontà a correre al singolare trio formato da due uomini che sembravano divenuti statue di sale e da un terzo che sbraitava e si dimenava come un indemoniato in mezzo a loro. Un gruppetto residuo di curiosi, tenuti a distanza ma non a sufficienza, sembrava invece godersela un mondo nell'assistere all'inaspettato spettacolo. Il povero Stark che evidentemente non aveva mai avuto l'occasione di vedere prima questa inedita versione del procuratore Ballister pareva un cagnolino bastonato furiosamente dal suo padrone, mentre Carruthers aveva già avuto modo di sperimentarla di persona, ma nel segreto del suo privatissimo e assolutamente insonorizzato ufficio. Il vederla invece manifestarsi lì, all'aperto, alla vista di tutti, gli aveva fatto più impressione che non la piazzata in sè. Esprimeva meglio di qualunque altra cosa, quanto ormai poco di studiato e controllato fosse rimasto in quell'uomo. Quello che stava mostrando era il nucleo centrale di se stesso, spoglio di ogni sovrastruttura o maschera di eleganza e signorilità. Un lupo ferito, messo con le spalle al muro e senza più scampo che sperava solo di poter portare con sé quanti più cani gli fosse possibile. Perché era questa l'unica interpretazione che Ballister riuscisse a dare di quanto stava accadendo: un piano subdolo e vigliacco proditoriamente architettato dal destino per privarlo della brillante carriera che si era accuratamente costruita per il suo futuro. Che la città fosse preda di un maniaco che uccideva e mangiava bambini come i peggiori mostri delle fiabe, che il terrore serpeggiasse nelle famiglie del territorio che lui amministrava, che solo negli ultimi tre giorni due persone fossero state ferocemente assassinate, e che probabilmente un'altra piccola vittima indifesa fosse proprio in quel momento nelle mani del suo carnefice, erano solo dettagli sfocati sullo sfondo, particolari senza importanza nel grande disegno ordito per provocare la sua rovina.

Ascoltandolo, Carruthers era passato lentamente dalla stanchezza e dallo sfinimento di una situazione che ormai aveva raggiunto in lui il livello di guardia, a un quasi sorprendente stato di buonumore e divertimento. La faccia di Stark era un interessante insieme di colori. L'improvviso rossore che l'aveva colpito alle guance e al collo formava un insolito contrasto con il naturale pallore della fronte e del lungo naso che gli sporgeva dal viso come il becco di un uccello e i suoi occhietti chiari avevano assunto una forma arrotondata che accentuava la sua somiglianza con un volatile, mentre Ballister con il suo continuo agitarsi gli ricordava una chioccia starnazzante e con il piumaggio tutto arruffato che era sfuggita per miracolo alle ruote della sua macchina una volta su una strada di campagna, e aveva sentito l'eco di una risata farsi strada in fondo alla gola, e francamente non sapeva per quanto sarebbe riuscito a soffocarla. Aveva sentito dire che gli attori agli esordi, quando salivano su un palcoscenico per combattere l'emozione e la paura dovevano cercare di immaginarsi le persone sedute in platea in mutande. Chissà se qualcuno aveva mai pensato a paragonarle invece a dei pennuti. Con lui stava decisamente funzionando. Anche troppo. Doveva mordersi l'interno della guancia quasi a sangue per impedire alla prepotente voglia di ridere di esplodere liberamente.

Finalmente, senza più fiato e con un'ultima occhiata fiammeggiante ai suoi due sottoposti, Ballister aveva voltato le chiappe e si era diretto a passo di carica verso la sua vettura, scomparendo nell'abitacolo protetto da vetri oscurati, il cui sportello era pazientemente tenuto aperto da un autista in divisa e occhiali neri che lo aveva subito richiuso dietro di lui, per poi tornare al volante e partire con una potente sgommata.

Solo allora, Carruthers si era lasciato andare ad una risata che non sarebbe riuscito a trattenere più a lungo, sollevando l'attenzione scandalizzata del suo collega che lo aveva fissato come se fosse impazzito.

"Che stronzo bastardo!" aveva esclamato, senza riuscire a smettere di ridere, sperando quasi che il procuratore lo avesse visto nello specchio retrovisore. "Che incredibile, incommensurabile pezzo di merda."

"Carruthers, ti sei bevuto il cervello?!?" gli aveva chiesto Stark. "Poteva sentirti."

"Sai, amico mio" gli aveva risposto Carruthers, battendogli una manata su una spalla e quasi rischiando di mandarlo lungo disteso in terra "ho appena scoperto che non me ne frega un cazzo. E ti dico di più, in questo momento il mio maggior rammarico è quello di essermi trattenuto tanto e di non essere scoppiato a ridergli in faccia mentre faceva la sua scena madre. Io adesso me ne torno a casa. Devo pensare ad un paio di cose. Rifletterci molto approfonditamente. Ma ti annuncio che se deciderò di fare una certa cosa il nostro beneamato Ballister finirà a gambe all'aria molto prima e molto peggio di quanto crede."

E se ne era andato, senza voltarsi, lasciando il povero capitano Stark a guardarlo allontanarsi con un'espressione di assoluta stolidità sulla faccia, ora ancor più simile ad un uccello.

Ma mentre tornava lentamente a piedi verso casa, assaporando il gusto della passeggiata, aveva sentito gradatamente scemare il piacevole ed inatteso stato di ebrezza che l'aveva preso, e la sua mente si era ritrovata a riesaminare quella strana giornata, chiedendosi che cosa in definitiva glielo avesse provocato. Perché si era sentito all'improvviso quasi esaltato, quando invece il suo morale avrebbe dovuto trovarsi al livello delle suole delle scarpe, essendo alle prese con un altro terrificante capitolo di quell'interminabile vicenda? Cos'era quel senso di leggerezza, non riusciva a definirlo in altro modo, che l'aveva colto proprio nel corso della concione di Ballister? Lui non aveva davvero intenzione di fare quello che aveva accennato a Stark, vero? Lo aveva detto solo per reazione, in un momento di rabbia nel vedere quell'escremento di umanità imperversare una volta di troppo su di loro.

E invece, quando aveva sondato cautamente il proprio stato d'animo, sorprendentemente non vi aveva trovato rabbia, frustrazione, impotenza, o tutte quelle sensazioni in grado di scatenare uno scatto di collera violenta, ma momentanea e fine a se stessa, come quella di un bambino che scaglia contro il muro il suo giocattolo preferito perché non funziona più. Vi aveva trovato una singolare, quasi inquietante determinazione, immersa in un'atmosfera di calma e consapevolezza. D'un tratto si era reso conto che le catene che lo avevano tenuto prigioniero in tutti quei mesi parevano essersi sciolte come d'incanto. La tranquillità, la prossima pensione, la sicurezza del futuro, tutti quei pesi che gli avevano impedito di pensare lucidamente e riflettere sulla gravità di quello che era stato costretto a fare, in nome di un dovere che era solo un patetico pretesto per sopire la sua coscienza, non esistevano più. Era stata la loro subitanea sparizione a dargli quel senso di lievità che sentiva tutt'ora. Era come se avesse camminato tutto quel tempo con un enorme macigno sulla schiena, fingendo di non averlo, ma sentendolo ad ogni passo più pesante. E nel momento stesso, in cui ne aveva ammesso l'esistenza quel peso insopportabile si fosse dissolto tutto d'un colpo.

Adesso, nel silenzio del suo piccolo appartamento, il poliziotto si toglie il cappotto e si dirige verso un grande specchio che troneggia sulla parete dell'ingresso, osservando se stesso riflesso sulla superficie. Il volto, ancora privo di rughe importanti, ma già appesantito dall'età, la fronte spaziosa che la linea dell'attaccatura dei capelli, sempre più arretrata, era ormai impossibilitata a mascherare, la corporatura robusta, ma tutto sommato non troppo grassa e infiacchita per un ultracinquantenne. Carruthers si china in avanti fissando bene negli occhi la propria immagine .

"Sono stato uno stupido e un vigliacco," dice ad alta voce, "e per la mia stupidità e la mia vigliaccheria mi sono reso complice della morte di due persone."

Ecco fatto. Non c'era voluto poi molto ad ammetterlo, eh? Non lo faceva sentire ancora a posto, nè con sé, né con la sua coscienza, ma era un primo passo. Il prossimo non sarebbe stato altrettanto facile, e di sicuro avrebbe dovuto essere attentamente meditato. Ballister era molto ben ammanicato all'interno dei palazzi della politica e una sua denuncia per vie ufficiali rischiava di finire impantanata chissà dove. No, non avrebbe proceduto per vie ufficiali. Ma ci avrebbe pensato meglio all'indomani, dopo una notte di sonno, con la mente più libera dai mille pensieri di una giornata difficile.

Non aveva voglia di guardare la televisione, ma la mano corre ugualmente al telecomando, e il salotto si riempie delle immagini e dei suoni di quel pomeriggio, inframmezzate dai commenti esasperatamente concitati degli speakers, come la tv moderna comanda, che annunciavano la nuova impresa del mostro, rilanciando tra le famiglie che nelle loro case in quel momento si stavano disponendo a cenare, l'angoscia sulla sorte del piccolo scomparso. Carruthers guarda le inquadrature del servizio succedersi velocemente sullo schermo. Il luogo del delitto, il lenzuolo steso a coprire pietosamente il corpo della ragazza, gli agenti che si affannano ad allontanare giornalisti e curiosi, e due figure, apparse solo per una frazione di secondo sullo sfondo, ma più che sufficiente a lui per riconoscerle. Un uomo anziano ed alto, un po' curvo nell'andatura e una donna bruna, anch'essa alta, ma giovane e con lunghi capelli raccolti in una coda con indosso un vestitino poco adatto ad una circostanza simile.

Ecco un problema che non poteva essere risolto con la riflessione, per approfondita che fosse. Che cosa era accaduto a Jennifer? Perché si era comportata così? Lui non era uno psicologo, ma non credeva che quello potesse essere un effetto della crisi depressiva da cui stava uscendo. Niente può cambiare così radicalmente una persona. Non sembrava più neanche lei. Perfino lo sguardo...

No, che assurdità!

Ora era troppo stanco per affrontare anche questo. Con un gesto secco, Carruthers punta il telecomando e lo schermo del televisore si spegne rigettando la stanza nella penombra della sera, appena mitigata dalla luce proveniente dall'ingresso, e appoggia la testa contro lo schienale del divano, chiudendo gli occhi. Troppo stanco anche per alzarsi a preparare qualcosa da mangiare.

Rimarrò qui per cinque minuti a riposare, pensa, poi mi faro un bicchiere di latte con un toast e me ne andrò a dormire.

Ma la testa gli ciondola da una parte e il sonno repentino e traditore lo assale improvviso, e mentre sta scivolando nell'incoscienza due occhi familiari d'un tratto gli appaiono davanti. Due occhi familiari, ma con uno sguardo che non è il loro. Un'espressione diversa e tuttavia non del tutto sconosciuta, come un ricordo lontano ed inafferrabile.

Perfino lo sguardo non pare più il suo, conclude il concetto la sua mente, un attimo prima di chiudere ogni contatto con il mondo intorno e sprofondare in un sonno senza sogni.

(16 - continua)





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