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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo XVII)

Parte 1

Inside View

redazione locale 

E il suo meticoloso piano era andato a gambe all'aria.

Carruthers sapeva che tutta la sua risoluzione sul progetto su cui si era concentrato dipendeva dall'assoluta decisione nella sua esecuzione. Anche la minima esitazione, il più piccolo dubbio ne avrebbe potuto compromettere la fragile struttura. Lo aveva programmato come un'operazione militare (1. lettera di dimissioni - 2. ritiro prove e documenti dall'archivio - 3. denuncia alla stampa) proprio per non doverci tornare sopra, per non doverci riflettere ulteriormente. Una volta fatto, nessuno, neanche lui avrebbe potuto più tornare indietro. Ma a patto che non subisse variazioni, deviazioni o cambiamenti. Perché cambiare significava pensare. E pensare poteva significare la fine di ogni buon proposito.

E tuttavia, mentre riprendeva la strada, l'immagine della grande insegna a caratteri rossi in campo giallo, perfetta riproduzione del titolo così come appariva sulla rivista fin dalla sua creazione negli anni '50, continuava ad apparirgli alla mente. Con il sottofondo sonoro di una voce.

("Potrei scriverci una serie di articoli sopra, un giorno, o magari un libro. Sarebbe bello se potessi contare sulla sua collaborazione.")

Era un'idea assurda! Il View era il più infimo dei giornalacci. Al confronto le peggiori riviste di gossip di cui sua madre era un'appassionata lettrice e che ricordava buttate un po' dappertutto negli anni della sua infanzia e adolescenza, ci facevano la figura del National Geographic. Per quanto gli sembrava neanche sua madre lo aveva mai comprato. Il che era tutto dire. Eppure...

Quanti milioni di copie aveva sentito dire che vendeva solo nella loro città? Tre milioni? O quattro? E la rivista aveva mercato su tutto il territorio degli Stati Uniti e del Canada, e probabilmente anche oltre.

Già, ma non godeva di alcun credito negli ambienti della stampa e i suoi stessi lettori il giorno dopo la usavano per incartarci il pesce. Un articolo o un'intervista lì sopra avrebbero avuto la risonanza di una scoreggia in un bagno pubblico. Nessuno ci avrebbe fatto caso.

Ma loro erano stati gli unici a scrivere dell'Amazzone, no? Quella Cooper se ne era fregata degli eventuali ammonimenti della procura e, a dire il vero aveva riso in faccia anche a lui, riuscendo a mandarlo fuori dai gangheri come raramente ricordava. Cosa che certo non si poteva dire degli altri seri e rispettabili organi di stampa che se la facevano sotto alla prima chiamata di Ballister o del sindaco.

La memoria di Cheryl Cooper e del loro incontro proprio al View, gli era scorsa davanti agli occhi molto velocemente e Carruthers l'aveva subito rimossa. Era un'esperienza che non amava ricordare. Quella donna aveva avuto il potere di confonderlo.

Poi, affrontando una curva, aveva voltato la testa verso la sua sinistra, e proprio come era accaduto con l'insegna, senza una ragione al mondo, il suo sguardo era stato attratto dalla cabina telefonica.

Era una di quelle vecchio modello, chiuse con porte a soffietto e ormai uno spettacolo abbastanza inconsueto dopo l'espansione inarrestabile dei cellulari. Si trovava addossata al muro e qualcuno l'aveva dipinta di rosso, come quelle di  Londra. Carruthers, che faceva praticamente tutti i giorni quel tragitto per recarsi in ufficio, non ricordava di averla mai notata, e non trovava un solo buon motivo per cui avesse dovuto notarla proprio oggi, ma aveva frenato lentamente e accostata l'auto al marciapiede, ne era sceso.

La pittura era ancora fresca e brillante, forse per questo non l'aveva mai notata prima. Il poliziotto aveva lasciato scorrere un dito sulla superficie, soprappensiero. Chissà perché qualcuno aveva deciso di ridipingerla?

Quindi, aveva afferrato la maniglia e l'aveva spinta di lato e senza darsi il tempo di pensare aveva infilato la sua tutt'altro che esile corporatura nello stretto spazio interno. Non vi era traccia di elenchi telefonici, ma quello sarebbe stato chiedere probabilmente troppo. Si era frugato in tasca, finché non ne aveva estratto con una certa difficoltà una manciata di spiccioli e ne aveva subito inserito uno nell'apposita fessura in alto, sollevando la cornetta e formando un numero.   

"Informazioni?" aveva chiesto una voce femminile, fredda e professionale.

"Signorina, vorrei il numero della sede locale dell'Inside View." aveva subito risposto lui.

 

Brian Croft non era ancora arrivato quella mattina, gli aveva risposto la centralinista del giornale, con il tono di chi non si meraviglia affatto della cosa. Chi doveva dire che lo aveva cercato? Carruthers era rimasto un attimo indeciso, se lasciare il proprio nome. Poi aveva capito perché il destino gli avesse messo sulla strada un'anonima cabina telefonica.

"Non importa." aveva risposto. "Richiamerò io. Gli dica solo di attendere la mia chiamata. E' molto importante."

Aveva riattaccato e se ne era stato per qualche momento appoggiato alla parete metallica, fissando senza vederlo il grigio apparecchio appeso di fronte a lui. E adesso? Cosa doveva fare? Attenersi al piano originale e tornare in ufficio a preparare la sua lettera di dimissioni, o cosa?

D'improvviso l'idea delle dimissioni, il gesto clamoroso che credeva di aver attentamente meditato, non gli sembrava più tanto brillante. In realtà, gli appariva ora come una solenne ingiustizia. Certo, lui aveva le sue colpe, ma dopotutto era solo un dipendente. Aveva eseguito degli ordini, no? Era Ballister il bastardo schifoso che faceva carriera sulla pelle altrui. Lui, la sua se l'era sudata in tanti anni di onesto servizio, prima sulle strade e poi in ufficio. Perché avrebbe dovuto gettare nella spazzatura tutta la sua vita?

Maledizione! Lo sapevo che non dovevo fermarmi a pensare, si era detto. Poi, con una scrollata di spalle si era diretto verso un bar dall'altra parte della strada che stava riaprendo i battenti proprio in quel momento.

 

"Un'altro, per favore."

Carruthers aveva spinto per l'ennesima volta la propria tazza vuota verso il barista che si era affrettato verso di lui con il bricco del caffè.

"E' sicuro che non vuole mangiare niente, amico?" gli aveva chiesto l'uomo. "A quest'ora ci potrebbe navigare un bastimento nel suo stomaco, con tutto il caffè che ha bevuto."

La battuta condita da un sorriso divertito, aveva ottenuto solo uno sguardo fosco e corrucciato da parte del cliente, che aveva rispedito immediatamente l'incauto umorista ad occuparsi delle sue faccende.

Assorbito nuovamente nel contenuto della sua tazza, Carruthers aveva gettato una rapida occhiata al grande orologio appeso sul muro di fronte. Quasi le dieci. A quell'ora probabilmente, qualcuno al suo distretto stava cominciando a chiedersi dove fosse finito.

E allora? Non aveva forse deciso che quella sarebbe stata comunque la sua ultima giornata di servizio? Perché lo aveva deciso, vero? Già, come no? Certamente. Lui era l'uomo delle decisioni. Non aveva potuto fare a meno di ridacchiare dentro la tazza, sollevando l'attenzione perplessa del barista che aveva però subito distolto lo sguardo, quando i loro occhi si erano incontrati.

Da quanti anni non prendi più una decisione che sia proprio tua, eh? aveva pensato amaramente, osservando il proprio riflesso distorto nel liquido scuro, come aspettandosi che gli rispondesse. Da quanti anni lasci che sia la vita a condurre te, invece del contrario, accontentandoti della tranquillità e dello squallore di un'esistenza regolata da ordini superiori, in attesa della pensione?

Evidentemente troppi, per poter sperare che la risoluzione con cui si era alzato quella mattina potesse durare per lo spazio di più di qualche ora. Perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso? Alle soglie della vecchiaia aveva avuto un soprassalto d'orgoglio? O era il pensare di essersi innamorato di Jennifer ad averlo sconvolto a tal punto? Ad avergli fatto credere di essere in grado alla sua età di poter affrontare un sovvertimento tale della sua vita? C'è chi dice che l'amore sia una forma di follia temporanea. Lui avrebbe potuto essere la miglior prova di questa teoria. Che quello che aveva scoperto di provare per la psicologa fosse un sentimento reale o solo un momentaneo sconvolgimento dei sensi dovuto all'andropausa avanzante, non poteva permettergli di costringerlo a gettarsi a corpo morto in un'impresa donchisciottesca che poteva avere come epilogo la sua rovina. Perché l'eventuale tracollo di Ballister avrebbe finito per travolgere anche lui, in un modo o nell'altro, e lui non aveva le potenzialità economiche del procuratore.

No, era una pazzia. La cosa più saggia che avrebbe potuto fare, a questo punto, era uscire da quel bar e, come se niente fosse, recarsi in ufficio come tutte le mattine. Non aveva dato il suo nome alla telefonista del View, no? E quindi, tutte le sue elucubrazioni mentali erano rimaste confinate all'interno della sua testa. Nessuno ne avrebbe mai saputo niente.

E poi, che idea idiota, proprio il View, aveva pensato, alzandosi dallo sgabello e gettando qualche moneta sul banco, il giornale di quella strega ficcanaso. Ma come diavolo mi sarà venuto in mente?

E perché stava di nuovo pensando a lei? Era la seconda volta quella mattina, ed erano mesi che non ci pensava più. Quel giorno, nell'ufficio di quella giornalista, aveva subito uno dei momenti più umilianti della sua vita di ufficiale di polizia, che lo aveva costretto a battere in ritirata con la coda tra le gambe, sotto lo sguardo ironico e gelido al tempo stesso di quegli occhi azzurri dietro gli occhialini, ma ormai, dopo mesi, non ci pensava più, e la donna, pace all'anima sua, era morta e sepolta. Perchè gli era tornata in mente?

E visto che siamo in vena di domande, perché sto dirigendomi di nuovo verso quella dannata cabina?

Ma sembrava che i suoi piedi fossero dotati di una propria volontà, e Carruthers si era osservato avanzare verso la cabina telefonica rossa, entrarvi e afferrare il ricevitore, mentre la sua mente, quasi una semplice spettatrice, continuava a sfornare dati che non parevano avere nessuna relazione tra loro come un computer impazzito.

Lo sguardo di quella donna... quegli occhi... dove ho visto da poco uno sguardo così?

"Inside View. Sono Tess. Cosa posso fare per lei?"

"E' arrivato Brian Croft?"

No, è impossibile. Ma...

"Un momento, signore. Chi devo dire?"

"Sono lo stesso di prima. Mi metta in comunicazione, per favore."

"Un momento, prego."

E poi... No. No, questo è davvero impossibile. Io sto impazzendo.

"Pronto? Sono Brian Croft. Lei ha chiesto di parlare con me? Sono qua, mi dica."

Cheryl Cooper... l'Amazzone... Jennifer?!?

"Pronto? C'è nessuno lì?"

Con la mano tremante e il respiro affannoso di un uomo prossimo ad un infarto, aveva riagganciato la cornetta ed era uscito dalla cabina.

Non è possibile! Oddio, non è possibile!

"George Carruthers, sei proprio un idiota." aveva mormorato tra sé, con uno sguardo stranito, allontanandosi a testa china.

 

Con un ultimo sospiro, il poliziotto riapre gli occhi, spinge la maniglia interna ed apre lo sportello della macchina. Poi dopo un attimo di esitazione si decide e preso il coraggio a quattro mani scende dalla vettura.

 

 

 

 

 

(82) Xena/Jennifer e Sutherland

 

Entrando nel grande salotto, ancora in penombra, con la vestaglia allacciata alla meno peggio e gli occhi e la bocca impastati da una notte di sonno, incompleta ed insolitamente agitata, il professor Sutherland avanza quasi a tentoni nella stanza, dirigendo a memoria i suoi passi verso la porta che conduce al breve corridoio sul quale si affaccia la cucina. In quelle poche ore, la sua sciatica non gli aveva dato tregua continuando a tormentarlo con un dolore sordo e persistente, non forte, ma abbastanza fastidioso da non lasciarsi dimenticare. Il vecchio aveva cambiato non sapeva neanche lui quante volte posizione nel letto, senza mai trovare quella che lo soddisfacesse. Alla fine aveva dovuto accontentarsi di una particolarmente scomoda, in parte supino e in parte su di un fianco, che era sicuro il giorno dopo la sua schiena gli avrebbe fatto scontare amaramente, ma che al momento gli aveva permesso di ridurre al minimo il dolore alla gamba.

Nelle pause tra un cambio di posizione e l'altro, era riuscito a trovare un sonno leggero che però anziché riposarlo gli aveva provocato una sottile inquietudine che neanche ora, ormai sveglio e in piedi, riusciva ad eliminare.   

Il salotto pare deserto, e Sutherland si sta già chiedendo se Xena sia davvero andata a riposare in una delle camere per gli ospiti, o non sia piuttosto uscita di nuovo a scaricare la tensione di quell'attesa insopportabile, quando una sagoma seduta su una poltrona in ombra si muove, alzandosi in piedi.

Il movimento improvviso fa sussultare suo malgrado il professore, mandandogli una nuova scarica più dolorosa delle precedenti lungo i muscoli della gamba.

"Oh, sei qui." dice, cercando di dissimulare in un sorriso, la smorfia provocatagli dalla fitta. "Ti sei alzata presto."

La guerriera indossa solo l'abitino rosso, che appare più sgualcito, del giorno prima e ha sciolto i capelli che ora le ricadono liberi e scompigliati sulle spalle e lungo la schiena.

"Veramente non sono neanche andata a riposare." mormora, avvicinandosi alle pesanti tende chiuse, e tirandole vigorosamente fino a far penetrare i raggi di un sole già abbastanza alto nella stanza.

Socchiudendo le palpebre, Sutherland si fa schermo con una mano contro la luce che bruscamente ha fatto irruzione attraverso le ampie vetrate.

"Ma che ore sono?" chiede perplesso, cercando istintivamente nel taschino della vestaglia le lenti che automaticamente vi infila la notte prima di andare a dormire.

"Il sole è sorto da almeno due giri completi della lancetta lunga di quel coso." risponde Xena, accennando al grande pendolo che fa bella mostra di sé sulla parete opposta, mentre la sua mente rincorre una parola senza riuscire ad afferrarla, ma non con troppo impegno.

"Sono quasi le nove." esclama sorpreso il vecchio, inforcando gli occhiali. "Di solito non dormo tanto a lungo. Potevi svegliarmi. E quello è un orologio."

"Come ti pare." borbotta la donna, con un'alzata di spalle. "Non ci capisco molto in questo vostro conteggio delle... ore. E poi, qui il tempo sembra scorrere... non so... diversamente. Comunque, perché svegliarti? A che serve stare in due a fare niente, aspettando chissà cosa?"

"Beh, non avresti fatto un gran danno." ribatte Sutherland, riprendendo il suo tragitto verso la cucina. "Probabilmente mi avresti risparmiato un bel mal di schiena." Mettendo sul fuoco il bollitore, l'anziano ex-docente si gira verso la donna che l'ha seguito, e ora se ne sta appoggiata sulla soglia. "Tu perchè non sei andata a dormire? Ieri è stata una giornata dura anche per te."

Xena non può fare a meno di sorridere tristemente.

"Evidentemente non immagini nemmeno cosa sia una giornata dura per me." dice, andandosi a sedere al tavolo. "No, non sono stanca, anche se questo corpo non è certo resistente come il mio. E' questa attesa che mi sta logorando. Non sapere cosa stiamo aspettando, mentre un bambino potrebbe essere già stato ucciso. Non sapere se riuscirò a tornare, se riuscirò a rivedere Olimpia..."

Xena si china, nascondendo il viso tra le mani. Sutherland la fissa, senza sapere cosa dire. Poi, la guerriera si risolleva scostandosi i capelli dalla faccia.

"Prima dell'alba, sono uscita nuovamente a fare allenamento" prosegue "e ho continuato fino a che tutti i muscoli di questo corpo sono diventati praticamente insensibili dall'indolenzimento e dalla fatica. Ma neanche questo è riuscito a togliermi di dosso questo nervosismo. Sono tornata e mi sono buttata su quella poltrona per riposare almeno un po', ma non sono riuscita a chiudere occhio."

"Beh, è normale che tu ti senta confusa e... spaven..."

Occhiataccia di Xena.

" ...confusa." si affretta a rettificare il professore, tornando ad occuparsi del bollitore. "Voglio dire... capisco che questo non sia il modo in cui sei abituata a procedere nel tuo mondo. Se ho ben capito, laggiù" continua lanciandole uno sguardo sorridente "quando hai un problema, impugni la tua spada, e zac zac, i guai spariscono, eh? Qui, è molto più complicato e anche se girassi tutta la città strada per strada, ti ci vorrebbero anni, e non credo che quel povero bambino, ammesso che sia ancora vivo, abbia tutto quel tempo a disposizione. C'è un esercito di poliziotti a cercarlo, e se non lo trovano loro..."

Sutherland conclude il suo discorso scuotendo la testa.

"Non mi sono mai sentita tanto... inutile. Non riesco a capire perché stia succedendo tutto questo." dice Xena, alzandosi con lo sguardo perso nel vuoto, poi i suoi occhi si fissano in quelli del professore. "Ma c'è un'altra cosa che mi preoccupa."

"Cosa?"

"Sto dimenticando la mia vita." risponde la guerriera, e il professore sembra avvertire un leggero tremito nella sua voce.

"Cosa intendi, esattamente?" chiede Sutherland, interrompendo il suo lavoro, e guardandola.

"Stanotte, mentre me ne stavo là seduta a fissare il buio" spiega la donna distogliendo lo sguardo e camminando su e giù per la stanza "pensavo a Olimpia e ho cercato di ricostruire nella mia mente gli ultimi momenti che ho passato con lei, quando stavamo avvicinandoci alla tana di quel dèmone, e all'improvviso... ho scoperto di non ricordare più i dettagli."

Xena che è rivolta verso la parete opposta, appoggiata al lavandino, si gira di nuovo verso il vecchio e questa volta vi è un'inequivocabile espressione di paura nei suo occhi.

"Capisci? Ho provato, ma non riesco proprio a ricordare cosa abbiamo fatto o detto quando eravamo lì. Ricordo solo il suo viso e che mi stava parlando, ma non quello che diceva."

"Beh, ma è normale. Hai avuto un'esperienza traumatizzante..." prova a ribattere Sutherland, avvicinandosi.

"No!" grida quasi la guerriera scostandosi di colpo e allontanandosi di qualche passo.

Sutherland rimane immobile, interdetto, con la mano che aveva teso in un gesto di conforto, a mezz'aria.

"Ho visto persone perdere la memoria per una ferita alla testa, per un sortilegio od altro." prosegue Xena, con occhi che sembrano fissare un punto lontano ed invisibile. "E' capitato anche a me. All'inizio non si ricorda niente, poi le memorie ritornano, lentamente, a sprazzi. Ma qui sta succedendo esattamente il contrario. Ieri dovevo ricordare abbastanza bene, visto che te l'ho raccontato, no?"

Il professore si limita ad annuire.

"Invece ora, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare quello che è accaduto. Eravamo a pochi passi da quel posto... e poi?"

"Tu mi hai raccontato di aver impedito ad Olimpia di cadere nella trappola, facendole perdere i sensi, e dopo sei stata colpita alla testa." dice Sutherland.

Xena lo guarda.

"Io non lo ricordo. Non lo ricordo più."

"Ma..."

"E non basta." sbotta la donna, passandosi una mano tra i capelli con un gesto disperato, mentre l'angoscia comincia a trasparire evidente sul suo viso. "Ho provato a ricordare altri momenti della mia vita con Olimpia. Alcuni li rammento, ma altri stanno sbiadendo ed altri ancora potrei già averli dimenticati." Una lacrima comincia a scorrerle lungo una guancia. "E se restando in questo corpo, in questo mondo finissi per perdere ogni memoria di lei?"

"Via, sono sicuro che..."

"Non lo sopporterei. Questo no." La guerriera ha ripreso a camminare lungo il perimetro della stanza a passi veloci. "Non posso perdere il suo ricordo. Non posso dimenticare il suo viso, il suo nome. No, vi prego, no."

"Non devi fare così. Calmati."

"Non è accaduto nemmeno quando ero morta. E' stato il suo pensiero a sostenermi, sempre."

"Tu... eri... morta?" chiede Sutherland, col dubbio di non aver capito bene.

"Più di una volta, ma non ha importanza." risponde Xena, arrestandosi davanti a lui. "Perché non sono mai morta veramente, finché potevo ricordarla, pensare a lei. Ma adesso... Se lei cessasse di esistere per me, allora sì, sarei morta davvero."

Sutherland non poteva saperlo con certezza, ma avrebbe giurato di stare assistendo ad uno spettacolo che non molti potevano dire di aver visto in questo o in qualunque altro universo. La Principessa Guerriera stava piangendo. E non con lacrime silenziose, ma a singhiozzi strazianti, il volto nascosto nelle mani, le spalle scosse incontrollabilmente. E lui non sapeva cosa fare, cosa dire. Se ne stava immobile a guardarla, senza osare muovere un dito o aprire bocca.

E' il bollitore a rompere l'incantesimo. Il suo fischio acuto erompe improvviso nell'ambiente, richiamando istantaneamente l'attenzione dei due. Il professore guarda la guerriera, seppellendo l'imbarazzo di quel momento con il sorriso più caldo e rassicurante che riesca a mostrare.

"Un po' di tè, mia cara?" chiede.

 

Il professor Sutherland si sporge ancora una volta verso la tazza di Xena, con la teiera fumante in mano, ma la donna la sposta senza una parola, lo sguardo sempre perso nel vuoto, e il vecchio si ritira, tornando a posare il bricco sul tavolo con un sospiro.

Dopo essersi ripresa un po' dalla crisi che sembrava averla travolta così improvvisamente, la guerriera se ne era stata silenziosa e immusonita, a bere a brevi sorsi la bevanda calda che Sutherland continuava a versarle, senza mai però rivolgergli uno sguardo, totalmente immersa nei propri pensieri all'apparenza. Ma il professore sospettava che in realtà quella crisi di pianto avesse sorpreso anche lei, e che dietro quell'improvviso mutismo si nascondesse un tentativo di capire come affrontare la cosa, un nuovo aspetto di sé che evidentemente non aveva considerato. Tuttavia aveva deciso di non forzarla e si era disposto pazientemente ad aspettare che fosse la donna a parlarne. E poco dopo la sua pazienza viene giustamente premiata.

"Non mi è mai capitato niente del genere." mormora a voce così bassa Xena, che Sutherland deve rielaborare la frase nella sua testa per capire cosa abbia effettivamente detto.

"Sì, ti credo." dice, sorseggiando le ultime gocce di tè contenute nella sua tazza. "Per quel poco che ci conosciamo, non mi sembri il tipo. Penso che questa reazione sia più di Jennifer che tua."

Per la prima volta da quando si sono seduti a quel tavolo nella cucina bene illuminata della casa dell'anziano ex-docente, la donna si volta verso di lui e lo guarda.

"Che vuoi dire?" chiede.

"Quando il tuo spirito è entrato nel suo corpo" spiega Sutherland, tornando a sorriderle "probabilmente non hai solo preso le sue caratteristiche fisiche ma anche quelle emotive. Insomma hai assunto in parte la sua natura, la sua indole. I nervi della mia povera amica sono stati duramente provati in questi mesi, e la reazione che hai avuto alla tensione emotiva di poco fa, è stata quella che avrebbe avuto lei."

Gli occhi di Xena si spalancano gradualmente, mentre il significato delle parole del vecchio si fa strada nella sua mente.

"Stai cercando di dirmi che mi sto trasformando in lei? Voglio dire anche mentalmente?"

"Beh..."

"Perderò la mia identità? E' questo che vuoi dire? Parla, dannazione!"

Con lo sguardo in cui si dibattono furia selvaggia e paura incontrollabile, la guerriera balza in piedi, fissando Sutherland, e il professore quasi involontariamente arretra con la sedia, intimorito.

"Non... non dispongo dei dati per poter fare delle affermazioni simili." balbetta. "Dopo... dopotutto neanche a me è mai capitata una cosa del genere. Cerco di procedere solo con il ragionamento e la logica, per quanto sia possibile in questa situazione. Non so se tu possa veramente diventare lei, ma è possibile, e sottolineo possibile, che la tua permanenza nel suo corpo stia influendo sulla tua personalità, mescolandola, per così dire, alle caratteristiche caratteriali di Jennifer. Quelle caratteristiche che sono incise nel cervello di tutti e che ci fanno reagire istintivamente come le esperienze della nostra vita ci hanno insegnato. Tu, in questo momento, non sei più solo Xena, ma sei anche Jennifer e stai cominciando ad avere delle reazioni simili alle sue."

La guerriera perde come d'improvviso quell'esplosione di energia che l'aveva animata, e si lascia cadere sulla propria sedia sconfortata.

"E' per questo che sto smarrendo le mie memorie?" chiede con un filo di voce.

"Non lo so." ammette sinceramente Sutherland. "Può anche darsi che sia legato semplicemente al tempo trascorso in questo mondo che non è il tuo. E' un po' ciò che ti aveva detto quell'Alexi, a quel che mi hai raccontato. Il salto dimensionale, chiamiamolo così, comporterebbe la progressiva amnesia dell'universo da cui si proviene."

"Io... ti ho raccontato questo?" chiede Xena, guardandolo.

"Sì... Beh, più o meno." risponde il professore. "Non te lo ricordi?"

La donna scuote semplicemente la testa, senza dire una parola, ma l'ombra di terrore nei suoi occhi è più eloquente di qualunque discorso.

"Dobbiamo muoverci!" Xena balza in piedi, con sul volto una smorfia di ferrea determinazione. "Non posso starmene qui a guardare, mentre i ricordi di Olimpia e della mia vita svaniscono nel nulla. Se sono stata mandata qui per fermare quel mostro, è quello che farò e comincerò immediatamente, dovessi battere questa città casa per casa. Prima risolveremo questa faccenda e maggiori sono le possibilità che io possa tornare ad essere me stessa."

"Ma... ma come pensi di fare?" prova ad obiettare Sutherland.

"Non lo so, ma..." Ora lo sguardo della donna sembra bruciare di energia. "Quel tizio... quel... Carruthers ... è un pezzo grosso della legge, no? E Jennifer è sua amica, se non qualcosa di più. Andiamo da lui. Adesso. In qualche modo, riuscirò a convincerlo a darmi ascolto e..."

"Non puoi farlo senza rivelargli anche chi sei in realtà." la interrompe il professore, dimenticando ogni cautela e afferrandola per le braccia. "E nella migliore delle ipotesi, ti crederà impazzita, e allora non..."

Il suono squillante di una scampanellata echeggia nella casa, e i due si bloccano di colpo, guardandosi l'un l'altra. Poi, come rendendosi conto solo in quel momento che la sta tenendo con forza, il professore lascia la presa e facendole segno di non parlare, si dirige verso l'ingresso. Il vecchio apre di appena uno spiraglio una delle tende laterali e scruta fuori. Rimane immobile per un momento, quindi si tira indietro e fissa Xena che lo guarda interrogativamente.

"Bene." dice "Sembra che potrai mettere subito alla prova le tue capacità di convincimento."

 

 

(83) Croft

 

Le parole scorrono veloci sul computer mentre Brian Croft rilegge rapidamente l'articolo da inviare, ma i suoi occhi hanno continuato a scendere, quasi per un riflesso condizionato, almeno una volta ogni due minuti sul piccolo riquadro dell'orologio digitale nell'angolo basso dello schermo. Sono passati non più di quarantacinque minuti dalla telefonata del misterioso individuo che pareva avere tanta urgenza di parlare con lui, ma che poi aveva ancor più misteriosamente deciso di non parlargli più, ma a Brian il tempo trascorso è sembrato assai più lungo.

Soprattutto da quando ha pensato a chi potesse essere il suo interlocutore muto, e la sua scelta si è appuntata su una determinata persona, il suo pensiero non ha fatto altro che ruotare intorno all'ipotesi ed alle  prospettive che questa poteva aprirgli d'improvviso.

Se è lui, se è davvero lui che ti ha chiamato, questo potrebbe trasformarsi nel più incredibile colpo delle tua vita, aveva seguitato a suggerirgli la sua stessa voce nella testa, mentre il suo sguardo, come un pendolo oscillava continuamente tra l'articolo che stava componendo e le minuscole cifre dell'orologio che scattavano inarrestabilmente in avanti, di secondo in secondo, di minuto in minuto, impedendogli di concentrarsi sul lavoro.

Tanto che dopo aver riletto per l'ennesima volta il guazzabuglio senza capo né coda che era riuscito a produrre, ed averne concluso che neanche lui capiva quello che aveva scritto, con uno scatto di rabbia, Croft clicca sulla chiusura della pagina e quando gli appare il caratteristico riquadro che richiede il salvataggio o meno della medesima, pigia quasi con un senso di perversa soddisfazione sul no. Lo schermo torna automaticamente sulle immagini delle news, che aveva lasciato in attesa senza quasi ricordarsene, dove ora campeggia un carro armato impegnato in chissà quale crisi mediorientale. Il giornalista l'osserva distrattamente per qualche momento farsi strada tra le dune di un deserto non identificato, quindi gira la poltrona verso la grande finestra alle sue spalle, disinteressandosene totalmente.   

Il cielo che quella mattina era stato di un azzurro intenso e aveva lasciato sperare in un'altra bella giornata d'autunno stava invece adesso ingrigendosi e una specie di cappa uniforme senza sole né nuvole pareva essersi insediata sulla città.

Probabilmente se fosse estate, ci sarebbero almeno quaranta gradi, pensa Brian scrutando l'orizzonte visibile tra i grandi palazzi a perdita d'occhio. Poi ineluttabilmente, il suo pensiero torna alla telefonata, e lo sconforto s'impadronisce di lui.

Perché in realtà non c'era niente che indicasse che l'uomo che aveva chiamato fosse proprio il capitano Carruthers, tranne che il castello in aria che vi aveva costruito sopra lui. Quanti svitati pazzoidi telefonavano ai giornali (e specialmente ad uno come il View) ogni giorno? Migliaia, e lui stesso ne aveva una vasta esperienza. Cosa gli faceva credere, o sperare, che stavolta non fosse così? E poi perché proprio Carruthers? Per l'amor del cielo, non poteva certo bastare quell'espressione che aveva creduto di scorgere nei suoi occhi quel giorno.

E comunque, conclude gettando un'altra occhiata all'orologio sulla scrivania, chiunque fosse, ormai non chiamerà più.

Inspirando profondamante dal naso, Croft si solleva dallo schienale della sua poltrona, e tende il braccio verso l'apparecchio telefonico, pronto a spingere il pulsante corrispondente al centralino, ma la mano si arresta nell'azione. L'intera pulsantiera infatti è illuminata, ad indicare che al momento non ci sono linee disponibili. Perplesso, l'uomo avvicina la poltrona lasciandola scorrere sulle morbide sfere, attendendo vanamente che qualche pulsante si spenga, ma ogni volta che accade la luce si riaccende istantaneamente, non dandogli mai il tempo di poterlo premere.

Brian sta già per arrendersi ed alzarsi per andare a vedere di persona cosa sta succedendo, quando sente bussare.

"Avanti."

La porta si apre ed una snella figura s'introduce con un timido sorriso e in mano un pacco di lettere.

"Scusami, ma temevo che te ne dimenticassi e allora ho preferito portartela di persona." dice Tess.

La donna avanza velocemente fino alla sua scrivania e posa la posta sul ripiano.

"Ehi, piccola." la saluta Brian con un sorriso. "Non occorreva. Avrei mandato qualcuno io."

"Non è nulla." risponde la centralinista, aggiustandosi  una civettuola ciocca di capelli castani dietro l'orecchio. "Avevo bisogno di staccare un po'. Di sotto è un inferno."

"Che è successo?" chiede Brian, incuriosito, ma non potendo fare a meno di notare contemporaneamente la linea invidiabile della donna che a ormai trentotto anni suonati, mostrava ancora un fisico notevole.

"La città sembra impazzita." La donna è fin troppo chiaramente conscia delle occhiate valutative che le lancia Brian, forse anche più consapevole di quanto lo sia lui, e si appoggia con atteggiamento casuale alla scrivania, mettendo in evidenza la generosa scollatura da cui s'intravedono seni ancora giovanili e non sfiorati da bisturi, a malapena trattenuti in un push-up di seta nera. "Credo che abbiano preso d'assalto tutte le redazioni dei giornali del paese. Non c'è posto in cui quel povero bambino non sia stato visto."

"Non dovrebbero chiamare le stazioni di polizia, piuttosto?"

"Oh sono certa che l'hanno fatto, e continuano a farlo. Chi è tanto bravo da parlarci, cioè." Tess si spinge ancora più in avanti, rischiando seriamente di far fuoriuscire il contenuto del suo reggiseno. "Alcuni tuoi colleghi stanno provando a chiamare gli uffici dei vari distretti da stamattina presto e non sono ancora riusciti a parlare con nessuno."

"Ma che accidenti succede in questa città?" dice soprappensiero Brian, distogliendo a fatica lo sguardo e prendendo a caso alcune buste, più per fare qualcosa (qualunque cosa) che per una reale volontà.

La posta...

"Hai già pensato quando potremmo... fare quella cena?" chiede la donna, fingendo un improvviso interesse per il fermacarte piramidale sulla scrivania di Brian, che rigira tra le dita con fare distratto.

"Eh?"

"La cena." ripete Tess, guardandolo. "Quella che dovremmo fare tu ed io. Ricordi?"

Croft che stringe tra le mani il tagliacarte, che riproduce nelle dimensioni e nella forma un minaccioso kriss malese, s'arresta, mentre sta aprendo la lettera in cima al mucchio.

Non dimenticare la posta.

"Brian, che hai? Mi stai ascoltando?"

Tess. Era stata proprio lei a dire quella frase. Perché continuava a risuonargli nella testa?

Non dimenticare la posta. Non poteva dimenticarla, visto che adesso l'aveva lì davanti a lui.

"Brian?"

"Che c'è?" risponde lui, un po' infastidito.

"Sei sicuro di sentirti bene?" La centralinista lo sta scrutando con aria vagamente preoccupata. "Hai una faccia... strana."

"Strana, come?"

"Non lo so. Strana."

Brian fissa Tess, ma è come se il suo sguardo l'attraversasse, mentre la sua mente sta furiosamente cercando un filo conduttore in un ammasso di pensieri confusi che solo ora si rende conto di aver sentito rimbalzare nella sua testa per tutta la mattina.

"Sto benissimo. Soltanto..."

"Soltanto?" l'esorta a continuare la donna, dopo qualche secondo di silenzio.

Questo tizio ha alle calcagna tutti gli sbirri della città, perché dovrebbe preoccuparsi di una ex-psicologa della procura?

E questo che c'entrava adesso? Perché gli era venuta in mente l'osservazione che lui stesso aveva fatto la sera prima a casa di Sutherland?

"Brian?"

"Tess, tesoro. Credo di avere fatto colazione un po' troppo velocemente stamattina. Forse mi si è bloccata la digestione." inventa lì per lì, degluttendo rumorosamente, Croft. "Ti dispiacerebbe andare alla macchinetta del bar e portarmi qualcosa di caldo. Un tè o una camomilla, magari?"

La donna scatta come una molla verso la porta.

"Certo. Ho visto subito che non stavi bene. Con zucchero o senza?" Tess si ferma con la mano sulla maniglia voltandosi verso di lui ansiosamente.

"Non importa. Anzi, no." La donna che stava già uscendo di corsa si blocca di nuovo, sporgendo la testa all'interno. "Con zucchero. Molto zucchero. Doppia razione."

"Torno in un lampo." E sparisce, sbattendo la porta alle sue spalle.

Speriamo di no, pensa Brian riadagiandosi all'indietro sulla poltrona. La macchinetta era molto lenta, oltre che molto lontana. Per andare e tornare ci sarebbero voluti non meno di cinque minuti, senza contare il tempo che ci voleva a zuccherare le bevande. L'aveva sperimentato personalmente più di una volta, imprecando come uno scaricatore, mentre era costretto a restarsene impalato davanti a quell'infernale meccanismo che sembrava fatto apposta per far perdere la pazienza anche a un santo. Ma adesso, avrebbe benedetto quella diabolica distributrice di cappuccini e caffè e si augurava che ci mettesse tutto il tempo possibile ad espletare il suo compito.

Gli dispiaceva aver messo in agitazione la povera Tess, ma non era riuscito a pensare ad un altro sistema per sbarazzarsi di lei velocemente e senza discussioni, perché lui aveva bisogno di riflettere e doveva farlo in solitudine. Aveva bisogno di mettere ordine nella sua testa e capire cosa il suo istinto stesse cercando di dirgli.

 

"Ti ringrazio, Tess." dice Brian, sorseggiando cautamente una tazza di camomilla bollente e incredibilmente zuccherata, mascherando una smorfia di disgusto dietro un sorriso.

"Nulla." risponde la donna, sorridendogli di rimando. "Ci ho messo tre razioni di zucchero, per sicurezza. Va bene?"

"E' perfetta."

"Ti senti meglio?"

"Oh, sì, meglio. Molto meglio."

"Mia nonna diceva che non c'è rimedio migliore in questi casi."

"E aveva ragione."

"Beh, se non hai più bisogno di me..." dice la donna, dirigendosi lentamente verso la porta.

"No, no. Vai pure."

"Devo proprio tornare al mio posto, o mi daranno per dispersa." ride Tess, con un filo d'imbarazzo.

"Certo. Non preoccuparti."   

"Allora... per... quella cena... Ne riparliamo, eh?"

"Sicuramente."

La porta si richiude piano dietro di lei e dopo un momento, Brian posa la tazza ancora colma dell'imbevibile bevanda sulla scrivania, con uno sguardo da cui è scomparsa ogni traccia di sorriso. Sente i battiti del suo cuore rimbombargli nelle orecchie, mentre per l'ennesima volta ripercorre nella sua mente il percorso che l'ha portato faccia a faccia con un'ipotesi che sta contemplando da qualche minuto con incredulità. Un percorso decisamente accidentato, fatto di intuizioni più che di indizi, e di immaginazione più che di ragionamento. Ma sinceramente, chi poteva dire di avere di più in quel momento?

D'accordo, non ho lo straccio di una prova e se andassi alla polizia con questa storia, nel migliore dei casi, mi metterebbero in fila con tutte le altre centinaia di mitomani con la soluzione in tasca che stanno respingendo da ore. Quindi che posso fare?

Avrebbe potuto chiamare Carruthers e chiedere di parlare personalmente con lui, ma se non fosse riuscito a trovarlo, o se fosse stato davvero lui a telefonargli quella mattina, e avesse creduto di essere stato individuato? Avrebbe potuto farsi negare, e lui avrebbe perso tempo prezioso. D'altro canto, di andare da solo laggiù, non se ne parlava nemmeno. Lui era un giornalista d'assalto, forse, ma non un aspirante suicida.

Cercando freneticamente una soluzione, Brian lascia scorrere il suo sguardo lungo le pareti dell'ufficio, senza nemmeno vederle. Finchè i suoi occhi non si fissano su un volto sorridente, la cui immagine comincia lievemente a sbiadire nel tempo. Un volto che ne rimanda un altro, che ora gli appare stranamente, inquietantemente simile. E Brian Croft capisce di aver trovato una possibile risposta al suo dilemma.

(17 - continua)





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