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Vola al di là della neve

di Svetlana Yaroslavna  Puskovic

 

Carissime lettrici sono lieta di potervi presentare il mio romanzo Vola al di là della neve. Sappiamo tutte che di rado la narrativa italiana è propensa nell’investire in romanzi a tematica omosessuale,  per tale ragione, quando desideriamo deliziare i nostri occhi con una bella storia d’amore, siamo costrette a sorbirci narrazioni etero nelle quali, di certo, non ci riconosciamo fino in fondo. Sono persuasa che la mia storia saprà offrirvi ciò che cercate, le mie protagoniste si amano e, soprattutto, sono donne entrambe! Ho impiegato ben quattro anni prima di completare questa storia, forse perché non sempre l’ispirazione giungeva al mio spirito per suggerirmi le parole, ma io riuscivo sempre a richiamarla, mi occorreva solo pensare a voi… a tutte quelle donne che mi avrebbero letto. Per tale motivo, ora che il mio romanzo è ultimato, vi chiedo solo, se lo desiderate, di inviarmi i vostri commenti via mail. Potete scrivermi tutto ciò che desiderate, una parola oppure mille, giudizi, critiche, complimenti, consigli, pareri. Desidero soltanto udire la vostra voce e condividere finalmente con qualcuno il sogno che mi sono portata dietro così a lungo. Vi ringrazio anticipatamente di tutto, nel congedarmi vi invito anche al gruppo Vola al di là della neve su Facebook, dove troverete le foto che illustrano le location del romanzo, schede sui persoaggi, interviste e molto altro. Potete contattarmi lì oppure  alla mia mail p.antares@virgilio.it

Buona lettura, Svetlana.

Il presente romanzo è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi puramente casuale.

Dedica.
Ogni dolce sussurro che la mia storia susciterà è dedicato a te, incantevole Vàrvara. Continua a farmi sognare con le tue splendide melodie, e conducimi lontana, in mondi surreali che non ho mai visto prima.
Tua Svetlana.

Prologo
                                   
Mosca, Russia
Ancestrale e fulgida stella,
dal recondito cielo risplendi come un diamante.
Tu custodisci i misteri primordiali,
tu vegli materna sul fluire dell’universo.
Dolce astro sapiente,
so che puoi carpire la mia sofferenza.
In questa notte di luna nuova, affido al tuo splendore la mia afflizione.
Conducimi in lei!
E’ parte di me e regna nei sogni.
Siamo due ali di una sola farfalla,
due petali di un solo fiore,
due raggi di un unico sole.
Siamo il sentimento che si pronuncia “amore”
Come ogni sera affidai al diario i miei sentimenti. Seduta sul letto, estenuata da una giornata qualunque, ebbi cura di riporre il mio prezioso confidente all’interno di un portagioie, celandolo così a occhi  indiscreti. Con uno sguardo fugace all’orologio notai che la mezza notte era appena giunta, cosa mi avrebbe portato il giorno che stava nascendo? L’amore? La felicità? O la libertà?  Di certo, nulla di tutto ciò. “ La vita ti ha voltato le spalle. Sei sola al mondo, che tu viva o muoia non fa alcuna differenza; nessuno si accorge che esisti.” La mia anima è vessata dalla solitudine e a ogni giorno che trascorre reputo l’esistenza un inutile calvario dove recondite mete di felicità si prospettano all’orizzonte, ma nessuno mai potrà conquistarle. Sul mio ventre ho tatuato una farfalla ad ali spiegate, ho deciso d’imprimerla sulla pelle per non scordare che le ragazze come me hanno diritto a spiccare il volo senza vergogna. Odio vivere in questo collegio, ma mia zia ha deciso che debbo restarci. Suppongo che il termine “ Collegio” evochi alla mente uno spazio angusto e desolato, locato per lo più nel degrado di qualche periferia. Magari, qualcuno immagina che trascorro le mie giornate dietro i vetri d’un fatiscente istituto a osservare il mondo che sfugge. Se è questo ciò che pensate, beh, vi state sbagliando. Il Majakovskij è ben altro. E non mi stupisco  che tale nome suoni estraneo alle vostre orecchie; neanch’io conoscevo l’esclusiva scuola moscovita,  almeno fino a due anni fa, quando nella mia abitazione di Fifth Avenue, a New York, giunse quella lettera.  “ Congratulazioni, signorina Svetlana Yaroslavna  Puskovic! Siamo lieti di comunicarle che il suo test d’ingresso è stato superato con il massimo dei voti e, di conseguenza, la sua richiesta d’ammissione ai corsi è stata accettata.”  Attonita davanti alla cassetta delle lettere non credevo a ciò che avevo appreso. Le mie mani tremavano come foglie, mentre le lacrime scioglievano l’inchiostro impresso sulla carta. No, non era commozione la mia, semplicemente rabbia. In realtà, alle domande di quel test avevo dato soltanto risposte errate, dunque, la spiegazione logica non poteva che essere una: mia zia aveva fatto carte false pur di gettarmi fuori casa. E mi ritrovo qui, in gabbia, a implorare le stelle e a sognare l’amore. Una truce angoscia mi attanaglia l’anima e finirà presto per soffocare il mio spirito, a quel punto perderò me stessa. Comprendere ciò che provo è arduo. La verità, è che non so quanto valga la pena condurre una vita del genere. Ho soltanto sedici anni, ma la mia esistenza vuota e priva d’emozioni mi sta sfibrando l’anima. Orami è da tempo che ho questa consapevolezza di me. Non so se tale caratteristica sia inscritta nel mio patrimonio genetico oppure, sia un qualcosa di meramente acquisito. Certo è, che non posso parlarne con nessuno, o almeno non con la gente bigotta che mi circonda; credo che se lo sapessero mi rinchiuderebbero in una clinica psichiatrica. La tolleranza, credetemi, non è di questo mondo. Sì, la gente si sforza di accettare chi compie un percorso d’amore differente dal proprio, ma è intrinseco nella loro cultura aborrire ciò che etichettano con l’epiteto “ diverso”. E’ così difficile nascondermi! Sopratutto quando un ragazzo mi fa la corte; in quelle occasioni trovo tutti gli espedienti possibili affinché non trapeli nulla. Di solito giustifico il mio disinteresse nei loro riguardi con la classica frase “ non sei il mio tipo”, ma non sempre riesco ad affrancarmi così facilmente. Dalle ragazze invece sono invisa, certo non da tutte, ma è un cospicuo gruppo in questo collegio a non vedermi di buon occhio. Forse sono gelose dei voti eccellenti che conseguo, oppure dei miei occhi azzurri e dei lunghissimi capelli biondi; di certo, aborriscono la mia ostentata fermezza nel respingere ogni genere d’ avance che giunge dall’universo maschile.


1 Astrel
Londra, Inghilterra
I signori Lawless attendevano con ansia l’arrivo del rettore Stanley. La segretaria li aveva fatti accomodare nell’ufficio di presidenza invitandoli a prestare un po’ di pazienza. - Il rettore sarà qui a minuti. – li aveva assicurati, eppure quei minuti erano già diventati quaranta. I due coniugi sedevano sulle poltrone di fronte la scrivania, discutendo animatamente ma a bassa voce.
- Caro, non potremmo pensarci ancora un po’? Lasciarla qui, in questo collegio, io… -  Disse la donna con aria titubante, esternando le proprie perplessità.
- Non c’è nulla da pensare. Non la stiamo abbandonando in un orfanotrofio, questo è il migliore  collegio di Londra, non immagini neppure quanti figli di deputati hanno studiato qui. - Ribatté il marito con voce ferma e risoluta.
- Lo sarà pure ma, cosa m’invento con le amiche? Sono certa che domenica, in chiesa, mi domanderanno sue notizie, e io cosa pensi che debba rispondere in proposito? Nostra figlia si trova in collegio perché abbiamo scoperto che è una… Cristo Santo! Non voglio nemmeno pronunciarla quella parola. -
- Oh, Annette! Non farla tanto lunga. E’ soltanto una diciassettenne, queste crisi sono normali durante l’adolescenza. Probabilmente tra un paio d’anni le passerà e si troverà un ragazzo, magari anche ben piazzato. Quello che dobbiamo fare adesso, è allontanarla per un po’, in modo che nessuno sappia e che lei non si distrugga la reputazione. -
La figlia dei Lawless sedeva silenziosa alle spalle dei genitori, accomodata su un divano di pelle nera. Il suo sguardo afflitto e demotivato fissava un punto indefinito della parete, nel profondo dei suoi occhi cerulei mille sentimenti si offrivano a chi non era capace di coglierli. Tra le mani stringeva un talismano rosa, che  le era stato donato da una veggente in un paesino della Transilvania durante un viaggio studio.
La porta della presidenza si aprì, e il rettore Stanley entrò nel suo ufficio. - Signori buon giorno. Vogliate perdonarmi il ritardo. – L’uomo si accomodò dietro la scrivania, e dopo aver controllato il fax si rivolse alla coppia con tono formale e garbato. - La segretaria mi ha comunicato che era vostro desiderio parlarmi. – esordì l’integerrimo rettore poggiando gli avambracci sulla scrivania. Il signor Lawless annuì. - Bene, di cosa si tratta? –
- Ecco, io e mia moglie siamo molto impensieriti per la condotta di nostra figlia. Ultimamente si mostra scostante e trascorre tutto il giorno fuori di casa. Con un’azienda da condurre e gli affari da portare avanti, per noi è molto arduo occuparci della ragazza, ma non per questo lasceremo che la sua buon’educazione vada alla deriva. Un periodo in collegio sarebbe l’unica soluzione. – Si espresse l’uomo tutto di un fiato, convinto di aver esposto il problema in modo conciso e persuasivo al contempo.
- Mi ascolti, signor Lawless – parafrasò il rettore lievemente contrito nel volto – Il mio istituto ha un sistema didattico improntato sul rigore e i docenti esigono la massima diligenza da ogni allievo. Da quello che mi dice, deduco che è intenzionato a iscrivere la ragazza, e nell’immediato presente... ecco, ci sarebbero alcuni problemi di vario ordine –
- Qualsiasi intralcio lei possa riscontrare – lo interruppe il signor Lawless tassativo – spero non impedirà a mia figlia di frequentare quest’istituto. – Il rettore Stanley temporeggiò ancora, valutando la situazione, poi volse la sua attenzione alla giovane che in disparte sedeva sul divano.
- Come ti chiami? – le domandò con voce autoritaria. La ragazza lo studiò per qualche momento, incuriosita dalla fisionomia irregolare che caratterizzava quel volto indefettibile, poi tornò a fissare il suo talismano senza premurarsi di replicare alla domanda.
– Astrel! Cos’è, hai perso l’udito? Il rettore ti ha fatto una domanda ben precisa. –  intervenne  la signora Lawless, risentita dal silenzio della figlia.
- A cosa serve rispondere se ti sei già impicciata tu? D’altronde, invadere gli spazzi altrui è ciò che meglio ti riesce, mamma. –
- Chiudi quella bocca, per carità! Non ti consento di rivolgerti a tua madre in una simile maniera. – sbottò il signor Lawless, compiacendo il volto basito della moglie. Il rettore Stanley dissentiva perplesso.
- Domando scusa, signori. – disse, schiudendosi un varco in quella piccola rappresaglia familiare.-Ritengo opportuno che vostra figlia attenda fuori dal mio ufficio: la sua parlantina baldanzosa intralcia la civiltà di quest’incontro. - Sentenziò con alterigia pungente. Astrel scattò in piedi indignata, e incalzante raggiunse la porta d’uscita.
- Non occorre che me lo diciate voi, vado via da sola. Voi intanto, deliberate pure sulla mia vita. –Spedita scappò dal collegio, ed amareggiata s’incamminò tra le caotiche strade della City.  La sua collera la spinse a battere a lungo l’asfalto senza itinerario, mentre l’aria animava i suoi lunghi capelli nero corvino. Più volte si scrutò alle spalle, augurandosi che i suoi genitori non la raggiungessero in macchina e, per evitare che ciò accadesse, si rifugiò su una sponda del Tamigi. Il rumore travolgente dell’acqua l’aiutò a estraniarsi dal resto che la circondava. - Il fiume scorre impetuoso, quanto vorrei gettare in esso tutto il male che ho dentro. Se m’introspeziono vedo una vita vuota e piena di fallimenti. Ogni mattina mi sveglio prigioniera, intrappolata fra gli alti e bassi di un’adolescenza che si diverte a giocare con le mie emozioni. Non è facile esistere quando la tua mente è un caos ridondante di paura e speranza, desiderio e abbandono, follia e ragione. I miei genitori non mi comprendono, in realtà non si sono mai sforzati di farlo, eppure sono sempre lì, pronti a giudicare ogni alito d’aria che respiro. Non li sopporto più. Ormai conosco a memoria le loro prediche quotidiane: “ Sei una ribelle, un’anticonformista, nessuno si comporta come te, resterai sola tutta la vita se non ti adegui al mondo che ti circonda.” Gli altri mi credono una ragazza chiusa in se stessa che non sorride mai, e invece Dio solo sa quanto vorrei vivere le emozioni più belle che la natura ha creato! Ma chi può donarmi tutto ciò? E vado errando per la città come un’ombra vagante, nel tentativo disperato di placare il mio dolore, ricerco freneticamente la pace interiore, ma non so dove trovarla. Se solo potessi colmare il vuoto abissale che mi divora l’anima. –
Una donna Room s’aggirava lungo la riva del Tamigi. Procedeva scalza per non perdere il contatto con la madre terra, e indossava un’ampia gonna dalle tonalità floreali per giocare col vento. A tratti si fermava opponendo le mani all’aria, e chiudendo gli occhi intonava una malinconica melodia. I campanellini che pendevano dai suoi bracciali l’accompagnavano nel canto. Quando notò la presenza d’Astrel a pochi metri di distanza, la gitana tornò al silenzio. Di solito non rivolgeva la parola agli estranei, ma quella ragazza emanava un’energia particolare, quasi suadente. - La tua anima pena, lo percepisco. Perché non segui gli insegnamenti della luna? - Astrel si voltò verso la voce che aveva appena udito, subendo il fascino d’un volto misterioso.
- Chi sei? – le domandò, notando l’abbigliamento etnico della donna. La gitana si espresse con voce serafica.
- Il mio nome è Aradia, ma non importa ch’io sia. Quando diventerete un solo alito di vento, colmerai il tuo abisso. –
- Scusami, ma non riesco a comprendere le tue parole. -
- Non occorre che tu lo faccia. Devi agire come la luna, seguire il suo esempio. –
- Che vuol dire agire come la luna? –  Chiese Astrel sperando di ricevere un chiarimento. La donna sorrise affabilmente.
- Anche tu pensi che in origine la luna fosse così perfetta e tondeggiante come ci appare oggi? Beh, non mi stupisce. Questo è un errore che in fondo facciamo tutti. -
- Quale errore? –
- Quello di non comprendere i significati nascosti nella natura. Il mondo ci parla, fanciulla, e tu dovresti stare ad ascoltarlo se è la felicità ciò che desideri. - Astrel fu ammaliata da quelle parole, ma non riusciva, benché si sforzasse, a comprenderne il senso.
- Vedi, milioni d’anni or sono, la luna non era altro che una roccia a metà, una semplice pietra che un giorno trovò nella sua orbita un altro masso uguale a sé. Aveva le stesse dimensioni, analoghi crateri e il medesimo colore. E fu così che il nostro satellite divenne rotondo, bello e sfavillante come siamo abituati a conoscerlo. Tuttavia, alcuni giorni del mese la luna eclissa la sua preziosa metà, e se lo fa vi è una ragione precisa. - Astrel era sempre più conquistata, i movimenti mimici che la donna compiva in accompagnamento alla sua spiegazione l’avevano quasi indotta a prefigurarsi la scena in cui una luna separata a metà si congiungeva come d’incanto. Eppure, Astrel continuava a non comprendere.
- Quale ragione?  Perché la luna dovrebbe eclissare la sua meta? –
- Ma è ovvio, fanciulla!  Per indicarci il cammino della felicità. Dimmi una cosa, preferisci la luna quando è piena o quando è crescente? –
- Beh, quando è piena brilla di più. –
- Infatti! Tutti brilliamo di più se possediamo la metà che ci completa, non dobbiamo far altro che trovare una roccia uguale a noi: questo è il messaggio di cui è gravida la luna. - Astrel meditò qualche istante su ciò che la donna aveva appena affermato, poi obbiettò.
- A dire il vero, i libri di scuola dicono ben altro sulle fasi lunari. –
- Intendi le spiegazioni astronomiche? Sì, quelle vanno bene, ma solo per il mondo della ragione, nel mondo del cuore valgono altre regole. Non sottovalutare mai questa parte d’universo, bella fanciulla, leggi la natura senza l’ausilio della mera razionalità e vedrai… –
- Ci proverò – rispose Astrel un po’ scettica.
- L’universo è nato in pochissimi istanti, in altrettanto poco tempo la tua vita cambierà. Presto brillerai anche tu, ma le tenebre resteranno in agguato per separarti dalla tua essenza. Non permetterglielo, e sarà in eterno. – Sulla scia di queste enigmatiche parole che suonavano profetiche, la donna si congedò. Astrel tornò a guardare il fiume provando ora un lieve senso di benessere.


Mosca, Russia
La piscina del Majakovskij aveva chiuso da ben tre ore, il cartellino plastificato sulla vetrata d’ingresso lo indicava chiaramente. I fari sul tetto erano stati spenti, e le lampade led istallate sul fondo della vasca creavano un’atmosfera suggestiva. Non era la prima volta che violavo il regolamento per concedermi un tuffo proibito, ultimamente avveniva ogni sera. Resistere al richiamo melodioso dell’acqua mi era impossibile, ogni volta che immergevo il corpo nel liquido primordiale sentivo di esserne parte integrante, e sapere che l’acqua era l’unico luogo in cui la forza coercitiva della gravità non poteva impedirmi di volare mi consentiva di assaporare un alito di libertà. Ancora una volta mi tuffai in gran segreto in barba al cartellino sulla porta, certa che nulla avrebbe ostacolato le mie atletiche bracciate in stile libero, tranne il fischietto della professoressa Čechov, che in quel momento minacciava di spezzarmi i timpani. L’insegnante dai capelli biondo cenere e dalla fisicità corpulenta, mi osservava impettita dal bordo vasca. Dall’alto del suo cipiglio si muoveva avanti e indietro rasentando l’orlo della vasca, come un felino in agguato che si prepara a ghermire la sua preda. - Signorina Svetlana Yaroslavna! Sono stanca di rammentarle che la piscina non si può usare a quest’ora. - Odiavo il tono stizzito che adottava nel rivolgersi agli altri, ma non era nulla se paragonato al suo carattere facinoroso e irascibile. Contrariarla in qualcosa equivaleva a farle spaccare un vetro dalla rabbia, o qualsiasi oggetto che si trovasse nell’arco della sua portata. Avvicinandomi alla scaletta, saltai fuori dall’acqua. Sapevo che con quella donna discutere era superfluo e non ci provai neppure. Rassegnata, mi avvolsi nell’accappatoio e mi allontanai dalla piscina mentre lo sguardo torvo della Čechov continuava a puntarmi.
- Svetlana! Dove va? – Sbraitò a squarcia gola con le vene ingrossate che le pulsavano sulle tempie.
- In camera mia. – Risposi in modo irriverente e lapidario.
- Ne ho abbastanza della sua impertinenza! La piscina può essere usata soltanto negli orari d’apertura e questo vale per tutti, nessuno eccettuato. – M’ero ripromessa di non discutere con la Čechov, ma quel sussiego rivoltante nelle sue parole mi spinse a erigermi a paladina di me stessa.
- Questa mattina non ho saltato neppure una lezione – La informai ostentando fermezza – durante la pausa pranzo ho redatto il mio articolo per il giornale della scuola, e subito dopo sono corsa al laboratorio di chimica trascorrendovi ben due ore, al termine delle quali mi sono recata in camera mia per finire i compiti. Tutto questo è coinciso con “ gli orari d’apertura della piscina” e, mi creda, coincide ogni giorno. Dunque, mi domando se stia nel mio diritto concedermi almeno un’ora di relax alla sera. - D’un tratto gli occhi della donna si fecero biechi come due canne di pistola pronte ad aprire il fuoco.
- Nient’affatto. – Pronunciò con aria di sufficienza, quasi non meritassi la sua replica. – Le rammento tuttavia che questa è una scuola, non il Marriot Royal hotel. Le regole vigono per tutti, e come ho già detto nessuno è eccettuato dal rispettarle. -
- Già, soltanto voi insegnanti potete agire arbitrariamente, infischiandovi dei nostri diritti! – Polemizzai con biasimo. La Čechov ebbe uno scatto inconsulto e balzò in avanti, come se il pungiglione d’un ape si fosse d’improvviso conficcato nella sua pelle chiara.
- Non sono in grado di tollerare tutte queste lagne, non con il mal di testa che mi ritrovo. Fili subito in camera sua! E l’avverto, Svetlana, se una simile disobbedienza si ripeterà ancora, riferirò l’accaduto alla direttrice. - Convinta che quella bomba a orologeria stesse per esplodere, mi allontanai senza degnarla d’un saluto.  Ero abituata all’insensibilità che ostentavano gli insegnanti del Majakovskij, spesso la spacciavano per rigore, necessario, dicevano, affinché riceviate una formazione impeccabile. La verità è che amavano trincerare la totale indifferenza nei nostri confronti sotto la maschera di tutori autoritari ma corretti ed equi. Giunsi in camera mia bagnata e gocciolante, intirizzita tra la spugna dell’accappatoio. La mia compagna di stanza era alle prese con una montagna d’indumenti che si apprestava ad accalcare dentro una valigia. Quando s’accorse che il bagaglio era al limite della capienza, vi si poggiò sopra con entrambe le ginocchia e lo gravò di tutto il suo peso corporeo.
- Ciao Sveta. – Mi salutò con la voce strozzata dalla fatica, mentre tentava di chiudere la valigia.
- Julia, perché stai facendo le valigie? Torni dai tuoi? – Le domandai, osservando la sua lotta contro il bagaglio.
- No, cambio solo stanza. – Rispose col fiato alleggerito, dopo esser riuscita in quell’impresa.
- Qui con me non ti trovi più bene? - Julia sorrise intenerita.
- Niente affatto, Sveta. Domani arriverà una ragazza da Londra, e la direttrice ha stabilito che alloggerà qui, mentre io sarò trasferita in camera con Irina. –
- Una ragazza da Londra? -
- Già. Credo che la direttrice non sia molto lieta del suo arrivo, oggi era intrattabile. –
Tuffandomi sul letto mi concessi una breve risata, allentando la tensione per l’alterco di poco prima con l’insegnante di ginnastica. - Non mi pare una novità, intrattabile lo è sempre! -


Londra, Inghilterra.
Il Big Ben omaggiava solenne lo scorrere del tempo, svettando fastoso sui tetti della City. Un’imbarcazione turistica si preparava a salpare da un molo, agghindata a festa con vivaci bandierine e grosse lampade sospese su fili sottili. Le stelle adornavano di fascino il buio, incastonate come diamanti sul misterioso manto cosmico.
Astrel uscì da un fast food sorseggiando un milkshake con la cannuccia. Lo strombazzare delle auto si alternava al rumore più ovattato dei motori e a quello in lontananza di sirene e antifurti scattati per sbaglio. La giovane si riparò nell’androne del fast food, quasi lì i rumori non potessero raggiungerla. Le lancette fosforescenti del suo orologio le ricordarono che era giunto il momento di rincasare, ma al solo pensiero Astrel ebbe voglia di sparire, in un posto recondito e a chiunque inaccessibile. Sedendosi sulla panchina del bus stop, diede l’ultimo sorso alla bevanda, poi si fece pensierosa. Era certa che i suoi la stessero attendendo infuriati. Prima la scenata del pomeriggio, poi era sparita per delle ore. Indubbiamente le avevano serbato una punizione esemplare, ma la giovane preferì non dar peso a quell’eventualità. Alzandosi dalla panchina, scrutò in fondo alla corsia, speranzosa che il suo autobus giungesse presto. Lungo l’asfalto le auto sfrecciavano veloci come lucciole impazzite, sembrava che nulla potesse arrestare la loro folle corsa, tranne quella luce rossa che si accese dopo il giallo. Sulle strisce pedonali una donna attraversò la carreggiata tenendo per mano una bambina. Felice e spensierata, la piccola si divertiva a saltare da una zebratura bianca all’altra. Osservando quella scena dal ciglio del marciapiede, Astrel provò un pizzico di malinconia. Pochi anni addietro anche lei era una bambina gioiosa, una bambina che come tale, vedeva il mondo sotto ottiche differenti. Da piccoli non si è capaci di giudicare, perché non si possiede un’opinione, così, tutte le frottole che i grandi raccontano vengono prese per buone. Frottole, era ciò che la vita aveva raccontato ad Astrel riguardo ai suoi genitori. Per quanto tempo s’ era illusa che suo padre fosse un grand’ uomo?  “ Il papà più generoso del mondo” le rammentava appassionata la madre, quando per Natale lei scartava i regali; peccato, che quello stesso uomo fosse così avaro di sentimenti, e di questo la piccola Astrel ne aveva sempre penato. Due imprenditori quotati in borsa, una coppia stabile e regolare, che va a messa la domenica e torna a lavoro il lunedì. Gente dabbene. Una volta cresciuta, Astrel comprese che i suoi genitori non erano altro che questo: una facciata modellata secondo i canoni della società. Semplici attori che si calano nella parte per recitare la loro commedia borghese, fumo negli occhi, null’altro. Da quel mondo fatto di convenzioni e scandito da cliché, Astrel s’ era sempre sentita oppressa. Anima libera e sognatrice, non poteva accettare che la sua vita fosse ridotta ad una farsa da palco scenico. Lei aveva scelto d’essere non d’apparire, e questa, fu un’irriverenza che i suoi non le perdonarono più.

2 L’ultima volta
Il suo viso contro lo spigolo della parete, un dolore atroce, poi tutto buio. Lara si svegliò di scatto ritrovandosi per terra, sdraiata davanti all’ingresso di casa. La vista era annebbiata, la mente confusa. La ragazza riacquistò l’equilibrio con fatica, e barcollante s’incamminò lungo il corridoio. Fermandosi di fronte allo specchio osservò la sua immagine riflessa. I lunghi capelli rossi le cadevano scomposti giù per la schiena, i suoi brillanti occhi verdi, apparivano spenti e atterriti; e sulla guancia, l’ennesimo segno di violenza. La minigonna bianca che indossava l’aiutò a ricordare ciò ch’era accaduto, suo zio riteneva che fosse troppo corta e per tale ragione l’aveva picchiata. La ferita sullo zigomo le doleva parecchio, Lara corse in cucina a tamponarla con del ghiaccio. Sul tavolo trovò una bottiglia di Whisky scolata fino all’ultimo goccio e le chiavi dell’auto sparite dal proprio posto. – Quel pazzo sarà al volante sbronzo. Spero proprio che non torni. – Disse la giovane donna, lasciandosi cadere su una sedia.  Il ghiaccio cominciò a sortire i suoi effetti benefici, il dolore s’attenuava lentamente, ma l’umiliazione per l’ennesima vessazione subita pulsava forte dentro il suo cuore. - Questa è l’ultima volta che mio zio mi mette le mani addosso! – Proruppe ad alta voce, per imporlo a se stessa con maggiore patos. – Sparirò da questa casa, per sempre. -
Astrel oltrepassò il cancello della sua abitazione e percorse velocemente il giardino. Gli idranti automatici innaffiavano il prato, e nell’aria si levava l’inconfondibile odore di terra umida. Quella sera Astrel avrebbe preferito non rincasare, in modo da sfuggire a una struggente crisi isterica della madre e a una sfuriata del padre, tuttavia era conscia di non avere scelta. Giunta davanti l’uscio, la ragazza mandò giù lentamente una boccata d’aria, cercando di prepararsi psicologicamente a ciò che poteva attenderla. Ancor prima che inserisse la sua chiave nella serratura osservò la maniglia d’ottone ruotare su se stessa, Willard era corso ad aprirle battendola sul tempo.
- Buona sera, signorina. Ben tornata a casa. -
- Ciao, Willard. –
 “ Il peggior maggiordomo che potesse capitarci!” Protestava sovente il padre d’Astrel, quando Willard tardava nello svolgere una mansione domestica, ma la ragazza non condivideva questo punto di vista. D’altronde, Willard era l’unico in casa a rispettare la sua privacy e ad accoglierla sempre col sorriso fra le labbra. Insieme scambiarono due chiacchiere amichevoli, poi Willard si congedò tornando al suo da fare. Rimasta sola innanzi all’androne, Astrel si auspicò che i suoi genitori fossero già andati a dormire, e con passo furtivo s’incammino su per le scale in punta di piedi. Salire velocemente mantenendo quella postura non le fu semplice, ma il freddo corrimano l’agevolò nell’impresa, e quando era in procinto di balzare sull’ultimo gradino, la voce gracida di sua madre la fece sussultare. Astrel tornò a toccare il suolo con i talloni e voltandosi scrutò in fondo le scale.
- Astrel! Si può sapere dove accidenti ti sei cacciata per tutto il pomeriggio? - Astrel non desiderava dilungarsi in una discussione, e l’atteggiamento avverso della madre la dissuase maggiormente.
- In giro. – Replicò a monosillabi, ostentando indifferenza. La donna salì le scale divorando gli scalini, e una volta raggiunta la figlia, le puntò il dito contro il viso.
- In giro eh? Ci sono delle belle novità per te, signorina! Fila giù nell’ufficio di tuo padre, ha da dirti un paio di cosette. –  Sistemandosi la vestaglia da notte rosa confetto, la donna s’incamminò per il corridoio del primo piano diretta nella propria camera.


3 Una notizia inaspettata
Astrel irruppe nell’ufficio del padre senza preoccuparsi di bussare alla porta. L’ambiente era saturo di fumo,  tutto puzzava di sigaro, e in quel preciso istante, il facoltoso impresario ne stava premendo uno contro il portacenere. - La mamma mi ha detto che desideravi parlarmi. – Disse Astrel inghiottendo l’aria malsana. L’uomo distolse l’attenzione dalla miriade di fogli che tappezzavano la sua scrivania, e con sussiego osservò la figlia.
- E così, alla fine hai preferito rincasare. Il letto del motel era troppo scomodo? – La stuzzicò con una punta di sarcasmo. Astrel preferì non dar peso al cinismo del padre.
- Cos’è che hai da dirmi? – L’uomo estrasse un altro sigaro dalla custodia in pelle appartenuta al fratello defunto, e dopo averlo acceso ne godette la prima boccata socchiudendo lievemente gli occhi, poi restituì all’ambiente un fitto alone di fumo che migrò verso l’alto. Astrel detestava quel viziaccio del padre, il fumo le faceva bruciare la gola, e inoltre s’annidava insolente tra la sua chioma, annientando le fragranze dello shampoo ai fiori di ciliegio. Vedere il padre fumare era per lei presagio di sventura, e d’altronde, tutte le volte che l’era stata impartita una punizione esemplare c’era sempre un sigaro a rendere il contesto più gravoso di quanto non lo fosse già.
- Se oggi pomeriggio non te ne fossi andata come una screanzata, sapresti già cos’ ho da dirti. -
- Se oggi pomeriggio quel tronfio non m’ avesse cacciata, io sarei rimasta. –  L’uomo imprecò fra sé e strinse i denti, non gradiva quando gli altri lo eccepivano, ciò lo rendeva collerico e gli impediva di gustare l’aroma del suo Bolivar. Deciso a non sbottare, recuperò la ventiquattrore  dal pavimento e la poggiò sulla scrivania.  Aprendola si mise a rovistare fra i documenti in cerca di quel biglietto aereo acquistato poche ore prima, e una volta recuperato lo porse alla figlia. Astrel raccolse il biglietto fra le sue mani, notando ch’era decorato dal logo di una nota compagnia aerea britannica.
- Un volo per Mosca? - Chiese sbigottita. – Partirà domani da Heathrow? – Viste le circostanze, Astrel non poteva supporre che il padre le stesse regalando una vacanza. - Papà, cosa significa? Perché mi hai comprato un biglietto per la Russia? – Domandò, ansiosa di ricevere una risposta.
- Non ti piace Mosca? - La interrogò lui con sarcastico umorismo.
- Io non capisco. – L’uomo richiuse la ventiquattrore inserendo la combinazione, poi si rivolse alla figlia. - Oggi pomeriggio, io e tua madre abbiamo avuto una lunga discussione con il signor Stanley. Gli abbiamo chiesto se fosse disposto ad accettarti nella sua scuola, ma essendo i corsi già iniziati e avendo riscontrato problemi d’altro genere, per lui non è stato possibile farlo. – Astrel avrebbe voluto tirare un bel sospiro di sollievo, ma quel volo fissato per il giorno seguente gliel’impedì. - Per tuo raro privilegio, cara Astrel, il padre che ti ha generato non è un infingardo operaio, ma una personalità distinta e influente. - continuò lui accantonando la modestia. – Per tale ragione, il signor Stanley ci ha offerto la possibilità di farti studiare al Majakovskij –
- Dove? - chiese la ragazza del tutto spaesata.  L’uomo parve irritato per ciò che considerava una carenza culturale della figlia, e con baldanza le forni alcune spiegazioni.
- Il Majakovskij è il più famoso collegio moscovita. Chiunque vi abbia studiato ha praticamente  un pass d’accesso per l’università Lomonosov. Il signor Stanley è un benefattore del collegio, e grazie alla sua magnanimità, l’istituto vanta una serie di laboratori didattici, nonché una fornita biblioteca scolastica. - L’impresario si concesse una pausa di pochi secondi, per passare dall’altezzoso al compiaciuto, poi continuò. - Capirai bene, che il signor Stanley occupa una posizione d’influenza all’interno del Majakovskij, così, gli è bastata una semplice telefonata per farti ammettere subito e gratuitamente. Io e tua madre non dovremmo pagare neppure una retta! - concluse l’uomo col trasporto di un cantastorie che giunge al lieto fine della sua novella. Astrel rimase attonita, sconvolta da tanta freddezza. I suoi genitori avevano scelto per lei! Senza consultarla, senza aver pena di mandarla via in un paese straniero.
- Siete impazziti? – Urlò agitandosi – Come vi è potuta saltare in mente un’idea simile? Invece di parlarmene, siete corsi in agenzia ad acquistare il biglietto, e per giunta dovrei partire domani! – La ragazza provò a controllarsi, non voleva mostrare al padre quanto fosse ferita.  – Non posso crederci! Mi spedisci in Russia, da sola, in un collegio che qui non ha alcuna credenziale, e tutto per lasciare in tasca il portafogli. – L’uomo le riservò una smorfia astiosità che in genere teneva in serbo per umiliare i propri dipendenti quando tardavano al lavoro o mancavano in qualche commissione.
- Sei una povera ingrata, Astrel. Io e tua madre stiamo solo cercando di salvarti la faccia, di non rovinare il tuo debutto in società.-
- Di salvarmi da cosa, Papà?- Inveì Astrel con irruenza. - Dalle mie scelte sentimentali? Dalle mie idee? Da quello che sono? La verità è che a voi non è mai importato nulla di me! Sin da quando sono nata non avete fatto altro che progettarmi la vita. Che razza di messaggio ho ricevuto in questa famiglia? Quale realtà distorta mi avete messo di fronte? Per voi ciò che conta è  solo apparire conformi alla morale contorta di quei quattro bigotti che vi circondano, ma se pensi che sprecherò la mia esistenza andando dietro le apparenze ti sbagli, ho rispetto per me stessa papà, non cadrò mai così in basso. - Il ricco impresario lanciò una biro contro la parete, senza volerlo ruppe il vetro d’un quadro che andò subito in frantumi. A quell’uomo non importavano le recriminazioni della figlia, intrappolato com’era nel suo minuto universo, non riusciva a comprendere le sofferenze di una ragazza a cui viene preclusa la libertà d’ essere.
- Non voglio udire una sola sillaba in più, Astrel. Domani stesso partirai per la Russia, ci resterai non meno di un anno, e chiudiamo qui la discussione. – La giovane si sentì frastornata come se un colpo di mazza l’avesse raggiunta, quasi vacillò e a stento trattenne le lacrime, ma alcune sfuggirono al suo rigido controllo, Astrel le braccò con le dita chiedendosi se a sconvolgerla maggiormente fosse stata la notizia della sua imminente partenza, o l’ostentata insensibilità del padre. Singhiozzante si voltò e uscì dall’ufficio.


4 Dirsi addio?

Astrel tornò in camera sua con aria sconfitta. Entrando, incrociò uno sguardo familiare.
– Ciao Lara, non sapevo fossi venuta a trovarmi. – Lara sedeva sul dondolo accanto alla finestra, stringendo fra le braccia un soffice peluche che tempo addietro le era appartenuto. Un fermaglio elastico le raccoglieva i folti capelli rossi alla nuca, e sulla guancia, un tocco di cipria tentava invano di celare la ferita.
- Ciao Astrel, sono arrivata qualche minuto fa. Willard mi ha detto che stavi parlando con tuo padre e ho preferito aspettarti qui. -
- Hai fatto bene – Disse Astrel, impegnandosi per apparire serena, tuttavia, le due ragazze si conoscevano fin troppo per non accorgersi reciprocamente che qualcosa stava andando per il verso storto. Sin da piccole, quando un pomeriggio d’estate s’erano incontrate al parco, era nata in loro una solida amicizia fondata sulla stima reciproca. Per Astrel, Lara rappresentava quella sorella maggiore che non aveva mai avuto, l’unica persona capace di stringerle la mano quando il mondo minacciava di crollare giù. Entrambe sapevano di poter contare l’una sull’altra, nell’insidioso mare della vita, soltanto la loro amicizia rappresentava un’ancora sicura. Vedendo l’amica stretta al suo orsacchiotto, Astrel avvertì una fitta al petto: come dirle addio? Come pronunciare questa concisa parola carica di rammarico? Eppure doveva farlo, doveva riuscire a congedarsi dall’amica del cuore, realizzando al contempo, che nell’imminente e travagliato futuro, Lara non sarebbe stata al suo fianco. Prima d’informare l’amica di ciò che stava accadendo, Astrel le si avvicinò per attingere un blando conforto, fu allora che s’ accorse di quella brutta ferita che le sfregiava il volto. - Oh Lara, cos’hai fatto alla guancia? - Entrambe compresero quanto superflua fosse la domanda, Astrel sapeva bene chi aveva fatto del male all’amica, ma in cuor suo nutrì la speranza che si trattasse solo di un banale incidente domestico. Quando il viso di Lara si fece mesto e incupito, Astrel abbandonò i suoi crucci dimenticando la Russia. - Quel bastardo di tuo zio ti ha picchiato di nuovo, non è così? - Lara annuì con un cenno del capo. - Tesoro, mi dispiace, adesso avverto la polizia. - Astrel aveva già sollevato il ricevitore del telefono e si apprestava a comporre il numero.
- No! - Urlò Lara con tono appassionato. Astrel tentò di persuaderla.
– Ti prego, ascoltami. Lo capisci che questa storia non può più andar avanti? Se non è oggi, sarà domani, la prossima volta lui potrebbe…- Lara balzò in piedi lasciando dondolare a vuoto la sedia, e fra le sue mani accolse quelle dell’amica  fissandola  negli occhi con sguardo penetrante.
- Astrel, non ci sarà una prossima volta. Se sono venuta da te questa sera, l’ho fatto per una precisa ragione.
- E quale? - Lara fece piombare lo sguardo verso il pavimento e proferì con voce tremula.
- Non potevo andar via senza salutarti. –
- Andar via? Cioè, intendi scappare da casa? -
- Proprio così. Tra due ore partirò per Southampton e da lì verso gli U.S.A. Purtroppo, dovrò affrontare questo viaggio senza documenti e senza un penny per le mie esigenze, ma… saprò cavarmela lo stesso. –
- Cosa? – La interrogò Astrel sbalordita. - E perché mai non hai con te né documenti né denaro? –
- Pensi che mio zio sia uno stolto? Ha sempre sospettato che volessi fuggire, e per impedirmelo mi ha sequestrato il passaporto e vigila sul mio portafogli. E’ solo un povero illuso, lo fregherò comunque, …l’ho già fatto. – Astrel ebbe un lieve mancamento e avvertì il bisogno d’inspirare una boccata d’aria salubre, il fumo di prima non si decideva ad abbandonare le sue narici. Aprendo la finestra della propria camera si sedette sul davanzale e inspirò a fondo. I rumori cittadini si percepivano in lontananza condotti a tratti dal vento.
- Vuoi andare a vivere con tuo fratello a Seattle, non è vero? –  Lara raggiunse l’amica alla finestra guadagnandosi un angolino sul davanzale, e con gli occhi rifulgenti di speranza rispose.
- Sì. Adesso lui è ricco, ha la possibilità d’ospitarmi e offrirmi una vita migliore, così, finalmente potrò continuare i miei studi. – La voce di Lara viaggiava sul tono dell’entusiasmo, già si vedeva, inscritta al college con l’armadietto pieno di libri e una collezione d’ottimi voti. Astrel desiderava con tutta se stessa che i sogni dell’amica si trasformassero in realtà, avrebbe concesso anche l’anima per saperla felice, ma l’apprensione che in quel momento provava le impedì di gioire con lei.
- Come farai ad arrivare così lontano se ti mancano soldi e documenti? - Lara possedeva già una risposta a quella domanda, ma rintracciarla le era costato parecchio.
- Vedi Astrel, ho trascorso notti insonni per trovare una soluzione a questo dilemma, e ora che ne possiedo una, non intendo perdere la mia occasione. Quando arriverò a Southampton, m’imbarcherò su un transatlantico, è una nave da crociera che raggiungerà gli Stati uniti nel giro di una settimana. A bordo lavorerò in nero come inserviente, ma questa è soltanto una copertura. –
- Lavorerai in nero su una nave? – Ripeté Astrel sbalordita, col cuore palpitante. – Ma, Lara, sei sicura di volere… insomma, non mi sembra per nulla una buona idea. -
- E’ l’unico modo. – Ribadì lei con fare probante. - A mio zio non potrebbe saltare in mente di venirmi a cercare in mezzo all’oceano, e quando dalla rabbia inizierà a scaraventare sedie e oggetti per casa, io sarò già in America a condurre una nuova vita. – Astrel era sempre più agitata. Imbattersi da sola e da clandestina in una simile avventura non era certo un gioco per bambini.
- Facciamo un passo indietro, Lara. – Disse Astrel muovendo le mani, quasi volesse acciuffare i concetti che le sfuggivano per agganciarli in una catena logica.
- Cosa vuol dire che farai l’inserviente su una nave? E che intendi con “ copertura” ? - Lara posò la mano sulla spalla dell’amica carezzando la lana tiepida del suo golf.
- Bene, cominciamo dall’inizio. – Premise - Otto mesi addietro ho conosciuto la persona che faceva al caso mio: un membro dell’equipaggio, un uomo che lavora a bordo della Far Dream, la nave sulla quale viaggerò. Lui è disposto a fornirmi una copertura che mi permetterà di traversare l’oceano indisturbata. -
- E giunta a New York? Dovrai pur scendere dalla nave, come pensi di eludere i controlli doganali? –
- Mi ha garantito che scenderò dalla nave ancor prima che attracchi, e una volta a New York, mi indirizzerà presso un suo conoscente, il quale mi fornirà documenti falsi per muovermi facilmente fino a Seattle. – L’espressione d’Astrel era basita, a tratti dubitava che una simile storia potesse accadere nella realtà e alla gente comune, eppure, Lara non pareva in vena di scherzi.
- Che cosa chiede in cambio quest’uomo? –
- Soldi. – Ribatté Lara. - Una cifra insormontabile per le mie capacità, ma il conto corrente di mio zio aveva parecchie risorse prima che gliel’azzerassi. – Astrel ebbe l’accortezza di celare le perplessità che nutriva, non voleva gravare Lara del suo pessimismo.
– Tuo fratello sa già che lo raggiungerai? – Domandò la giovane scendendo dal davanzale e stirando energicamente le braccia verso l’alto, quasi ambisse a toccare il tetto.
- No, lo avvertirò soltanto se riuscirò a toccare il suolo americano. –
- Pensaci bene Lara, sei sicura di ciò che fai? –
- Andiamo, Astrel! Non devi angustiarti per me. – La esortò sprizzando ottimismo. – Sto per dare una svolta decisiva a questa misera esistenza. -
- Lo so, ma se ti accadesse qualcosa di brutto io… -
- Andrà tutto per il verso giusto, te lo garantisco, e ti prometto anche, che non appena arriverò a Seattle ti chiamerò ogni giorno. – Astrel dissentì col capo ed esplose in un pianto straziante.
- Mi dispiace tanto Lara, ma quando arriverai a Seattle io non sarò più qui. -
- Cosa? – Abbandonando ogni sforzo d’autocontrollo, Astrel lasciò che le lacrime venissero giù inondandole le guance. Lara cullò l’amica fra le sue braccia. Non capiva quale fosse la causa del suo tormento, ma non si sarebbe congedata da lei se prima non fosse riuscita almeno a rasserenarla.
- Perché stai piangendo? -
- Mio padre ha deciso di rovinarmi la vita. – Sibilò fra i singhiozzi inconsulti.
- In che senso? - Astrel respirò a fondo per sedare le lacrime, quello sfogo prepotente le donò un tenue sollievo. Adesso era in grado di raccontare all’amica ciò che era accaduto. Le parlò della freddezza che avevano avuto i suoi nel decidere di mandarla in collegio, dell’insolenza di quel rettore a cui s’erano rivolti, e afflitta, riferì anche del viaggio studio a Mosca. Lara ascoltò l’amica in silenzio, senza interromperla, esprimendo la sua incredulità soltanto con gli sguardi.
- Io non capisco. - Esordì ora – Decidono di farti studiare a Mosca, in questo cavolo di collegio, e non ti consentono neppure d’abituarti all’idea. Tutto ciò è ridicolo! –
Astrel annuì, stringendo fra le dita il suo inseparabile talismano rosa. Lara procedeva avanti e indietro per la camera, era irrequieta, come assalita da una raffica di dubbi, a modo suo cercava una soluzione per evitare che l’amica partisse. 
- Non potresti chiedere a tuo padre, magari, se lo convinci a rimandare la partenza di otto o nove giorni, avresti il tempo di trovare un collegio qui a Londra. - Astrel scosse il capo accompagnata dalla sua chioma bruna, e amaramente sorrise.
- Credi davvero che mio padre si lasci scappare una simile occasione? Farmi studiare gratis in una scuola esclusiva? No, non ci rinuncerà mai. - Lara comprese l’ineluttabilità della situazione e a quel punto arrestò il suo passeggio privo di meta intorno alla stanza, scegliendo di consolare l’amica più che fornirle consigli alternativi.
- Vieni qui, tesoro. – Le disse, protendendo le braccia verso lei. Astrel si lasciò confortare da un abbraccio protettivo.
- Non voglio andare a Mosca. Ho paura. – Bisbigliò Astrel, avvicinando la bocca all’orecchio dell’amica. Lara tentò ancora di rasserenarla.
- Comprendo la preoccupazione che ti angustia, ma io sono un’insanabile ottimista, e a differenza di te scorgo delle note positive in questa vicenda. - Astrel si allontanò appena dal corpo di Lara, in modo da poterla osservare in volto, e con un barlume di speranza le domando
- Quali sono gli aspetti positivi? -
- Davvero non riesci a vederli? Ma come? Non credi che trascorrere un po’ di tempo lontano dai tuoi ti possa giovare nel riconciliarti con te stessa? Niente più “ Astrel sei strana, Astrel vestiti come s’addice, Astrel dovresti frequentare solo i figli dei nostri amici”. - Le due ragazze risero di cuore approfittando di quell’effimera ilarità per scaricare la tensione.
- Sì, forse hai ragione, anche se avrei preferito andare alle Bahamas.-  L’orologio di Lara emise due bep. La ragazza si accorse dell’orario e disattivò la sveglia.
- Devo andare, tesoro, altrimenti rischio di perdere il mio treno per Southampton. - Astrel annuì rassegnata, soffocando dentro il petto quell’opprimente bisogno di piangere ancora; Lara andava incoraggiata con uno splendido sorriso.
Mosca, Russia.
La neve fioccava leggera cancellando ogni colore. L’immensa area della Piazza Rossa, le venti torri del Cremlino, i tetti delle abitazioni, e perfino le policrome cupole di S. Basilio, quella notte sfumarono nel gelido abbraccio dell’inverno. Un urlo acuto lacerò il silenzio della notte, tutti al Majakovskij ci svegliammo di soprassalto. Julia trabalzò dal letto con un fremito, e agitando la mano in direzione del comodino afferrò l’interruttore che pendeva dall’abatjour per accendere la lampada. Un bagliore abbacinante colpì i miei occhi causandomi una fitta acuta all’altezza della fronte, prontamente mi fiondai sotto le coperte, unico luogo ove  la luce non riusciva a raggiungermi.
- Hai sentito anche tu, Svetlana? – Domandò Julia. Lentamente sollevai la testa dal cuscino tornando allo scoperto, l’orologio sulla parete segnava le 4: 35, attraverso la condensa sulla finestra scorsi la neve cadere giù. Dal corridoio provenivano passi e voci confuse, per l’ennesima notte Irina era riuscita a sfumare il sonno di tutti, gettando l’istituto in un fragoroso subbuglio. Julia si alzò nervosamente dal letto infilandosi la vestaglia. - E’ incredibile! – Sbottò, sforzandosi di conferire veemenza alla sua voce assopita – Domani quella squilibrata sarà la mia nuova compagna di stanza. Fantastico! -
- Non preoccuparti Julia, Ira sta attraversando un periodo difficoltoso, ma le passerà, credo. – Replicai sbadigliando.
- Beh, la direttrice dovrebbe avvertire i suoi genitori se non vuole che qui diventiamo tutti matti. –
Al piano superiore, Irina si dimenava nel suo letto.
- Non posso, non posso farlo ancora. – Sillabava con la voce cadenzata dai singhiozzi, mentre le lacrime s’infittivano sul cuscino. – Non posso! – Strillò, abbandonando il tepore delle lenzuola per divorare la stanza con la foga dei suoi passi. In preda ad una crisi isterica si scaraventò contro una parete causandosi una contusione alla spalla, poi scivolò sul pavimento cominciando a dimenare braccia e gambe verso l’alto, quasi stesse officiando un rituale scaramantico. La giovane Irina era stremata; flagellata dagli spiacevoli episodi che puntuali si ripetevano quando la notte incombeva. Ogni notte nello stesso posto mefitico, ogni notte, alla mercé di chi gradiva intrattenersi con lei. Irina sapeva bene come affrancarsi da quella condizione di schiavitù, le sarebbe occorso esternare tutto ai genitori, raccontar loro di come Ivan, un compagno di classe, la costringesse a subire le angherie del cliente di turno. Quante volte era stata sul punto di alzare la cornetta per chiamare la polizia? Poi la paura s’insinuava in lei, le minacce di ritorsione le tornavano in mente turbandola, e tutto restava com’era. Infilandomi le pantofole, mi diressi fuori dalla mia camera.
- Dove vai? -  Mi chiese Julia sorseggiando un bicchiere d’acqua.
– A vedere come sta Irina. –  Replicai, socchiudendo la porta dopo essere uscita dalla stanza. La segretaria della direttrice Rosencrans percorreva goffamente il corridoio del secondo piano, calpestando un’interminabile guida dalle colorazioni purpuree. Bassa e mingherlina, dall’aria bisbetica e il vestiario trasandato, la donna rendeva il doppio degli anni registrati all’anagrafe. I  lamenti d’Irina le avevano spezzato il sonno nel cuore della notte, spingendola a saltar giù dal letto per dirigersi bellicosa in camera della giovane
- Irina Nikolaevna! – Strepitò appena giunta a destinazione.- E’ ora di piantarla con questi isterismi. – Rincarò furiosa, accendendo la luce nella camera. Irina mugugnava raggomitolata per terra, fra il letto e il comodino, e come in una monotona litania continuava a ripetere e ripetere la stessa frase.
– Non sono una prostituta! Io non sono una prostituta. No, non lo sono. - La segretaria della direttrice fu spiazzata da quell’atteggiamento, così come lo fui io quando giunsi in camera sua. Dove si era celata la ragazza che avevo conosciuto due anni fa? Quella che riempiva i libri e le pareti di cuoricini perché innamorata della vita? A vederla ora, pareva lo spettro di se stessa.  Desideravo aiutarla, rendermi utile in qualche maniera, ma il mio compito si faceva arduo di fronte al carattere introverso e poco loquace che ultimamente aveva assunto lei. La segretaria della direttrice stava lì, piantonata al centro della stanza con le braccia conserte, pronta a sbottare e a scagliare una raffica di sberle contro le guance emaciate della giovane. Io scelsi d’agire, e avvicinandomi alla ragazza tentai di rasserenarla.
- Ira, non fare così, cerca di calmarti, va tutto bene.-
- Non sono una prostituta! –  Continuava a sgolarsi lei con impeto smisurato.
- Certo, lo so, ma adesso basta piangere. -  Irina non diede adito ai miei consigli, e divagando lo sguardo si concentro sul bianco della parete. Fissò il muro per qualche istante, strabuzzando  gli occhi come se d’un tratto qualcosa avesse interessato la sua attenzione. Per un breve momento placò il pianto e sembrò riacquistare l’uso della razionalità, ma subito dopo, prese a respirare affannosamente e a pronunciare asserzioni dalla logica inafferrabile.
- Sveta, tu non immagini nemmeno ciò che mi accade ogni notte. - Era come se stesse delirando, e non capivo fino a che punto fosse consapevole di ciò che affermava, tuttavia, prestai ascolto alle sue parole.
- Cosa ti succede ogni notte, Ira? - La segretaria della direttrice non gradì la mia domanda, così come non gradiva la mia presenza in quella circostanza.
- Svetlana! Ritorni in camera sua, immediatamente! – M’intimò con tono minaccioso.
- Sto solo cercando d’ aiutare una ragazza che non si sente bene. –  Incalzai persuasa e lievemente animosa.
- E io sto solo cercando un pretesto per farti perdere il semestre. - Sapevo di trovarmi dalla parte della ragione, in fondo, non facevo nulla di scorretto prestando soccorso ad una compagna, eppure, la prima lezione che il Majakovskij m’aveva impartito era quella di non cercare mai riscatto contro l’ostilità dei sui educatori. Affranta m’incamminai verso l’uscita. - Irina sta solo delirando, Svetlana.- Arringò la donna quando le passai accanto. – Ciò che afferma è privo di riscontro, probabilmente ha avuto un incubo. – Aggiunse persuasiva, accompagnando le sue parole con una puntuale e quasi esasperante gesticolazione delle mani. Era come turbata, pareva temere che i discorsi deliranti d’Irina avessero acceso in me una qualche curiosità. Scelsi di non replicare, sconcertata da tanta vigliaccheria mi limitai a voltarle le spalle e andare.
Londra, Inghilterra.
Astrel si tuffò nel suo letto  a baldacchino allargando le braccia, il trambusto che aveva marcato nel segno la sua giornata pareva ora aver assunto un peso fisico gravandole il corpo come fosse un macigno. Pressata da quell’insolita fiacchezza, Astrel si assopì nel tepore della coperta in pile; era sul punto d’abbandonarsi a un sonno profondo quando qualcuno busso alla sua porta. Astrel sgranò gli occhi e si tirò su dal letto a mezzo busto.
- Non voglio essere importunata! – Gridò. La porta era già aperta, ma Willard si fermò con discrezione davanti all’uscio.
- Scusami tanto, Willard. – Replicò la giovane imbarazzata - Entra pure, io… credevo fosse mio padre. – Spiegò per sincerarsi che il maggiordomo non avesse equivocato.
- Nessuna scusa, signorina. – Willard entrò e si sedette sullo stesso dondolo che aveva ospitato Lara qualche minuto addietro. Con un gesto pratico strinse il papillon che portava al collo, poi scrutò Astrel leggermente prostrato. - Suo padre mi ha commissionato di prepararle le valigie inserendovi solo lo stretto necessario, ma a Mosca fa molto freddo di questi tempi, così mi sono permesso d’aggiungere qualche capo pesante in più. – Astrel sorrise in segno di gratitudine.
- E’ gentile da parte tua, come sempre ti premuri che io stia bene. –
Anche se Willard era soltanto il maggiordomo di casa, un dipendente al servizio del padre, per lei  rappresentava molto più. Da bambina lo credeva il suo angelo custode, un angelo che la sera non mancava di rimboccarle le coperte, e se Morfeo tardava la intratteneva narrandole una fiaba. Ed era sempre quell’angelo dalle mani bianche di velluto a sfilarle il termometro di bocca se la temperatura andava su, lui ad assistere alle recite natalizie e ai saggi di danza, sedendo insieme agli altri genitori. Astrel prese fra le mani un cuscino ricamato da payettes e con il dito cominciò a ripassare i disegni. La tribolazione fluttuava nel profondo dei suoi occhi azzurri, dopo essersi accomiatata da Lara, doveva reggere il peso di un altro addio.
- Sei mai stato a Mosca, Willard? – Gli domandò, staccando lo sguardo dai ricami del cuscino.
- Sì, molti anni fa. –
- Sul serio? E, com’è? – Il maggiordomo ci pensò su un momento.
- Ecco, ci sono bei monumenti, tantissima neve che ti raggela le ossa, ma soprattutto… in Russia vivono le ragazze più belle del mondo! -
- Davvero? –
- Ma certo! – Affermò Willard con quel tono di meraviglia che spesso impiegava quando le raccontava dei suoi viaggi in Zimbabwe.  Astrel inspirò e si fece cupa.
- Voglio che tu sappia una cosa, Willard. Io ho sempre apprezzato le tue premure e la munificenza nei nostri confronti. Detesto quando mio padre si rivolge a te in malo modo, con quel tono saccente. Lui non ha alcun diritto di rimbrottarti sempre e su tutto, tu sei l’unico che si è curato di me durante questi anni. – Il maggiordomo sorrise compiaciuto, deliziato da quel pensiero sincero.
- Oh, signorina Astrel, Il mio più grande privilegio è stato quello di vederla crescere e diventare una ragazza incantevole. –
- Un giorno avrò una casa tutta mia, e tu lavorerai per me, con i dovuti lauti e con tutto il rispetto che meriti. – Promise Astrel
- Ci posso contare? - Chiese Willard divertito, fingendosi lusingato.
– Assolutamente sì! – Ribadì Astrel seriamente persuasa.

5 Diretta altrove

Dall’aeroporto londinese di Heathrow decollo il volo BA0874 diretto a Mosca.
Mosca, Russia.
Libera dallo studio, scelsi di dedicare qualche ora del pomeriggio allo shopping. La Via Arbat era tra le mie destinazioni predilette; mescolarmi con l’andamento spensierato dei turisti occidentali mi rilassava più di un antistress, ma optai per i Grandi Magazzini Gum. Nella magnificenza del centro commerciale per antonomasia, ero solita spendere molto tempo oltre che rubli.  La mia innata esterofilia, erudita da corpose letture, mi conduceva a immergermi nel fascino dei bazar; quanti mondi convivevano tra le scansie di quei negozietti! A volte indossavo delle giacche in lana di lama provenienti dal Perù, e con le dita percorrevo i disegni geometrici che s’intrecciavano in allegre cromature. Non facevo parecchia fatica a immaginarmi in un remoto paese andino, dove le tessitrici filavano la lana con eccelsa maestranza. E che dire della musica occidentale suonata al flauto di Pan! Poi volgevo lo sguardo a oriente, e mi lasciavo sedurre dagli abiti eccentrici delle danzatrici egiziane, e se la commessa era distratta, mi dilettavo con i cimbali o battevo qualche colpo ritmato sulle darbuke in esposizione. Intenta a passeggiare in galleria, catturata dai colori e dalle esposizioni in vetrina, non mi accorsi che qualcuno mi stava tallonando già da un pezzo. Prima aveva mantenuto un andamento distaccato, poi, si era avvicinato pian piano fino a raggiungermi per braccarmi il passaggio. – Ira? Che cosa ci fai qui?- Le domandai, non appena la vidi materializzarsi di fronte ai miei occhi. Irina aveva il fiato corto e un inarrestabile tremulo alle ginocchia.  Indossava un cappellino viola dal quale sfuggivano due o tre ciocche castane. A tratti barcollava, e con i guanti rosa si sfregava le gote, quasi a voler cancellare dal volto il tormento che l’attanagliava, ma dal profondo dei suoi occhi verde acqua, traspariva la stanchezza per una notte trascorsa a delirale.
– Posso parlarti? – Mi chiese con affanno.
– Certo. - Replicai, esibendo volutamente la mia disponibilità, affinché lei non fosse reticente.
- Sveta, ti seguo da quando sei uscita dal Majakovskij, lungo la strada, sull’autobus, fino ad arrivare qui. Scusami, io non volevo violare la tua privacy, desideravo soltanto parlarti. -
- Va bene, ma potevi anche farlo prima che uscissi da scuola, in questo modo evitavi di fare un giro inutile.
- No! – Incalzò lei con un guizzo irrequieto. - No, al Majakovskij non potevo farlo, lui mi sorveglia sempre. - Guardai Irina con espressione interrogativa, ancora una volta le sue parole apparivano enigmatiche e incomprensibili.
- Chi ti sorveglia? Ira, io vorrei tanto aiutarti, ma se tu non mi lasci intendere qual è il problema non so cosa fare. –
- Pensi che io sia pazza, vero? - Mi chiese tra le lacrime. Il suo tono era affranto, per nulla provocatorio. – Non mi stupirebbe, tutti lo pensano di me. -
- Non io. - Ribattei decisa. La ragazza condusse nervosamente le mani ai capelli, trepidante si pentì di ciò che stava facendo.
- Cos’è che devi dirmi? Puoi fidarti di me, qualsiasi cosa sia, resterà comunque un segreto, te lo prometto. -
- Non posso dirtelo. Non posso dirlo a nessuno! Devo andare… - Lesta come una lepre, Irina si dileguò e sparì in mezzo alla folla.
– Irina! Aspetta un momento, dove vai? – Le gridai mentre la vedevo confondersi fra le persone. – Magari ti posso aiutare. - Tutto inutile, non riuscii a comprendere il turbamento che crucciava la mia compagna.
Il boeing 767 jet proveniente da Londra scendeva di quota lentamente preparandosi a toccare il suolo russo. La pista innevata dell’aeroporto Domodedovo si avvicinava sempre più. “ Finalmente sto per tornare sul pianeta terra!” Pensò Astrel in procinto di tirare un respiro liberatorio, ma attendendo l’effettivo atterraggio dell’aeroplano prima di allentare la tensione che da ore la divorava. La paura di volare era l’unica fobia che fin da bambina l’aveva accompagnata in tutti i suoi viaggi. Lei stessa non si spiegava a cosa fosse dovuto quell’irrazionale quanto incontrollabile terrore che le prendeva ad ogni decollo. Lei che non temeva neppure i ratti, né le lucertole o i serpenti, e che avrebbe condiviso volentieri un tragitto in treno in loro compagnia, piuttosto che abbandonare il suolo alla volta del vuoto, in balia dell’aria e delle sue capricciose fluttuazioni.
Finalmente le ruote dell’aeroplano incontrarono la pista dell’aeroporto, sfatando ogni congettura funesta che Astrel aveva rimuginato durante il viaggio. Quando il velivolo si arrestò completamente e i portelloni si aprirono, ella si stupì di come ciò fosse potuto accadere; davvero singolare che i motori non si fossero incendiati durante il viaggio, così come era alquanto strano che nessun passeggero avesse con sé una bomba ben celata dentro il bagaglio a mano. E che dire di tutte quelle spie rosse che mandano in delirio i piloti? Astrel si slacciò la cintura dalla vita con gran foga, certa che a breve un dirottatore squilibrato avrebbe irrotto in cabina di pilotaggio appropriandosi dei comandi e decollando per ch’issa quale destinazione; meglio affrettarsi a scendere prima che ciò accadesse sul serio. Ormai in aeroporto, la ragazza recuperò i bagagli dal nastro trasportatore e si diresse agli arrivi, percorrendo prima un lungo corridoio. L’enorme sala d’attesa che raggiunse infine, era affollata da una moltitudine di persone. Astrel soffermò la sua attenzione sull’abbigliamento invernale di quegli individui, la maggior parte di essi erano imbacuccati per bene, quasi i loro volti sparivano sotto la pelliccia del colbacco e la lana doppia della sciarpa. Un anziano signore, dalla chioma canuta, si barcamenava tra la folla di turisti inglesi e cittadini russi di ritorno in patria. Con entrambe le mani agitava un foglio di carta, e a dispetto della sua statura, non troppo elevata, riusciva a sollevare il foglio fin sopra i colbacchi della gente, affinché campeggiasse in bella vista. Istituto Majakovskij riportava a caratteri cirillici. Astrel ebbe qualche difficoltà nel decifrare quell’iscrizione, e prima di riuscirvi la sillabò mentalmente accompagnando l’operazione con un movimento muto delle labbra. Infine comprese che l’anziano signore stesse attendendo proprio lei, e gravata da una certa timidezza, lo raggiunse e si presento.
- Signorina Astrel Lawless! Ben arrivata a Mosca. Io mi chiamo Vyacheslav Lavrov, e lavoro per il Majakovskij come inserviente. Prego mi segua, fuori c’è un taxi che la sta aspettando. – Il vecchio inserviente, dalla corporatura esile e dai toni garbati, s’incamminò verso l’uscita dell’infrastruttura aiutando la nuova arrivata a trasportare le valigie. Astrel avrebbe gradito scambiare due chiacchiere con quel signore cortese, ma in mente non le giungeva alcuno spunto per avviare una conversazione. Fortunatamente a rompere il ghiaccio ci penso lui.
- Quello è il suo taxi. – Disse, appena fuori l’aeroporto. - salga pure, penso io a sistemare i bagagli sul retro. –
- Grazie. - Il signor Vyacheslav guardò l’orologio.
- Sono certo che la signorina Rosencrans la starà già aspettando. - Astrel salì sul taxi e poi chiese.
- Chi è la Rosencrans?-
L’anziano inserviente le chiuse la portiera salendo sul marciapiede, poi rispose.
- E’ la direttrice dell’istituto. –
- Ah, capisco. Posso farle una domanda? – L’uomo annuì abbozzando un sorriso cordiale.
- Che tipo è? E’ una persona severa? - Il signor Vyacheslav attese qualche secondo prima di soddisfare la curiosità della straniera.
- Ecco, signorina Astrel, era proprio necessario che lei venisse a studiare qui? Non poteva restare a Londra? Mi creda, sarebbe stato molto meglio se non fosse mai venuta.-  Con reticenza e titubanza, l’uomo aggiunse – In ogni caso, se avrà bisogno di qualcosa si rivolga pure a me, io non sono come lei, non voglio entrarci in quel genere di faccende.- Astrel fu molto turbata da quella risposta, ma non ebbe il tempo di muovere alcuna obiezione che il taxi partì allontanandola dal signor Vyacheslav, che fermo sul marciapiede le accennò un saluto.


6 Spiacevole accoglienza

Imperiosa davanti all’ingresso del Majakovskij, la direttrice Anne Rosencrans attendeva spazientita che la nuova arrivata scaricasse le valigie dal taxi. Non mosse un dito per aiutarla, neppure quando la vide salire gli scalini gravata dal peso dei bagagli.
- Signorina Lawless? – Astrel salì l’ultimo gradino trafelata, poggiò le valigie per terra, eb annuì alla donna.
- Bene, io sono la direttrice Rosencrans. - Si presentò con tono lapidario - Mi segua all’interno, per cortesia. - Aggiunse burberamente. Astrel si appropinquò alla donna e dopo cinque passi solcò l’ingresso di quella che per un lungo periodo sarebbe stata la sua nuova abitazione. I toni caldi dell’ambiente sembravano poter accogliere chiunque, ma la ragazza provò solo un angoscioso senso di vuoto. Di fronte a sé, si estendeva un enorme atrio ricoperto da una moquette bordeaux, e coronato dagli smerigli adamantini di quattro lampadari. Ai piani superiori dava l’accesso una scala con passamani laccati in oro e gradini rivestiti in marmo. Colonnine ornamentali poste ai lati dell’atrio, fungevano da piedistallo per alcune riproduzioni in miniatura di sculture famose.
- Da questa parte, signorina Lawless, desidero mostrarle il nostro istituto. –
- Potrei posare i miei bagagli prima? - La Rosencrans fu innervosita da quella richiesta, e non si fece scrupoli nel mostrare il suo disappunto.  Irritata, chiamò un inserviente commissionandogli di sistemare le valigie al piano superiore, poi si rivolse ad Astrel congelandola con lo sguardo.
- Ci sono altre richieste, signorina, o possiamo proseguire? -
- Io… no, nessuna richiesta. -Farfugliò la ragazza, spiazzata da un simile atteggiamento.
Con alcuni pacchetti in mano feci di corsa e tutta d’un fiato la scalinata del Majakovskij. Sapevo d’essere eccessivamente in ritardo, la direttrice mi aveva concesso soltanto due ore, ed io, beh, me n’ero presa quattro. Furtiva m’intrufolai all’interno della scuola, pregando affinché la Rosencrans non mi beccasse in flagrante, se solo si fosse accorta dell’orario, tutti i miei acquisti sarebbero finiti nella spazzatura.  Fortunatamente di lei non vi era traccia, ed io raggiunsi la mia stanza in tutta tranquillità. Aprendo la porta, mi accorsi che per terra giaceva un foglio di carta piegato più volte, sapevo già di cosa si trattava, anzi, di chi si trattava. Chinandomi lo recuperai dal pavimento e lessi con indifferenza il messaggio in esso contenuto.
                          
Ciao bambola,
che ne dici di divertirci insieme? Conosco un locale dove tutto è concesso… Ti prego non dirmi    di no. Lo sai che ti sogno ogni notte.
  Ivan.
Con i nervi a fior di pelle stracciai il biglietto in mille pezzettini e lo gettai nella spazzatura, non era il primo che ricevevo, ed ero certa che non sarebbe stato neppure l’ultimo. Un tocco alla porta fece rinsavire la mia attenzione, se solo si fosse trattato dell’autore del biglietto lo avrei preso a schiaffi. In realtà, dietro la porta a bussare, non c’era lui, ma uno dei tanti inservienti del Majakovskij. In mano teneva due valigie, e a giudicare dal suo fiatone dovevano essere molto pesanti.
- Devo sistemare questi bagagli all’interno. - M’informò continuando a respirare affannosamente.
- Ma, ah sì! Devono essere della ragazza nuova. Li posi pure su quel letto. -
Astrel percorreva un lungo corridoio dal pavimento granitico. Sulle alte mura rivestite con carta da parati, risuonava l’eco dei passi sgraziati che la direttrice compiva due metri avanti a lei. Prima di fare una visita guidata, Astrel avrebbe preferito raggiungere la sua stanza per concedersi una doccia rilassante, e magari riposare qualche ora, tuttavia, scelse di non contrariare quella biasimevole donna dagli atteggiamenti inospitali. Continuando a seguirla, Astrel udì delle voci squillanti provenire da un’aula alla sua sinistra, e quando vi passò rasente, scorse all’interno un gruppo di alunne che attardatesi in classe spettegolavano animosamente. Quando le giovani incrociarono lo sguardo frastornato di Astrel, interruppero le coinvolgenti ciance e la puntarono con ingiustificato astio. Astrel accelerò il passo per sfuggire a quegli sguardi inopportuni, d’un tratto l’ambiente che la circondava parve acquisire vita e fissarla in modo torvo, come fosse un corpo estraneo da annientare, perfino il ritratto dello zar Nikolaj II, appeso al muro, la puntò aggrottando i lineamenti del viso. Qualche altro passo rumoroso, e la Rosencrans sostò davanti a una mastodontica porta decorata da vetri colorati. A fatica la spinse ed entrò all’interno della biblioteca scolastica. Astrel seguì la donna in silenzio, mentre un’interminabile fila di scaffali, s’illuminava pian piano sotto la luce intermittente dei neon. Il lusso dominò la scena ancora una volta. La grande sala dal perimetro circolare era ornata da preziosi materiali: legno di palissandro per gli scaffali e i tavoli da lettura, cristalli per le vetrine che custodivano i vari trofei e onorificenze dell’istituto.
- Questa è la nostra biblioteca. - Esordì la direttrice, presentando lo spazio con un ampio movimento delle braccia, lì dentro la temperatura era decisamente più bassa. Astrel captò l’odore della carta miscelarsi a quello del legno e in mente le tornarono i pomeriggi trascorsi a leggere l’Utopia di Thomas More alla London Library. - Io stessa ne sono la curatrice, mi prodigo nel reperire e catalogare i testi. Qui conserviamo i migliori capolavori che hanno fregiato la letteratura russa: Puškin Aleksandr Sergeevič, Michail Vasil'evič Lomonosov, Tolsotj, e naturalmente molti altri, ma… sono convinta che lei non sappia neppure a cosa mi riferisco. - Il tono della Rosencrans tracimava sprezzo. Astrel ebbe qualche secondo d’esitazione, poi rispose.
- Beh, a dire il vero, io sono cresciuta in Inghilterra e ho seguito un altro genere di studi. –
- Ragion per cui, la conoscenza della letteratura russa è per lei di poco valore.-
 - No, io non intendevo dire questo. - Spiegò la ragazza – Ma qui è tutto diverso, mi occorrerà un po’ di tempo prima di familiarizzare con la vostra cultura. –
- Non importa. – Sentenziò la Rosencrans, troncando la discussione. – Il giro allo zoo è terminato, l’accompagno in camera sua. – Astrel si attardò un momento prima di uscire dalla biblioteca, chiedendosi cosa spingesse quella donna a mostrarsi irta e inospitale.


7 L’incontro

Recuperando i miei appunti dallo zaino, mi sedetti alla scrivania cominciando a ripassare per l’interrogazione del giorno successivo. Ebbi appena il tempo di aprire il quaderno che qualcuno entrò in camera mia interrompendomi. Feci roteare gli occhi al cielo quando m’accorsi che la Rosencrans aveva irrotto. La sua sagoma bassa e sproporzionata le conferiva un unicum sul genere umano, mi bastò fissarla alcuni secondi per giungere alla mia solita conclusione: la direttrice dell’istituto è davvero orrenda! Molti dei miei compagni, dopo aver visto Il Signore degli anelli, erano soliti paragonarla all’orripilante Gollum, notando come la celebre affermazione dell’hobbit “il mio tesoro” si addicesse al suo viscerale bisogno di accumulare denaro. Certa che la visita non fosse di cordialità, pensai che fosse giunta per redarguirmi, magari qualcuno le aveva spifferato del mio ritardo. Dietro di lei, una figura radiosa si materializzò inaspettatamente. Era una ragazza. Alta circa un metro e ottanta, snella e dalle forme sinuose, bella come una principessa delle fiabe! Lunghissimi capelli neri le cadevano morbidi sulle spalle, ma la cosa che mi colpì in particolar modo, furono i suoi occhi azzurri, sembravano due topazi incastonati. Non fu soltanto il colore di quegli occhi a catturarmi, ma il modo in cui essi mi fissarono. Inspiegabilmente i miei battiti aumentarono, provai una stretta allo stomaco e per alcuni secondi fui incapace di dire la qualsiasi. Non era la prima volta che mi capitava di vedere una bella ragazza, ma mai prima d’ora avevo provato delle sensazioni simili. In me sentivo germogliare un nuovo sentimento: era come se un legame arcaico e dimenticato mi unisse a lei. E’ difficile spiegare, ma quella visione incantevole risvegliò in me qualcosa che riposava da tempo, qualcosa, che non sapevo facesse parte di me.
- Signorina Puskovic, questa è la sua nuova compagna di stanza, d’ora in avanti dividerete gli spazi, e guai a voi se non sarete capaci d’accordarvi. – Io e la ragazza ci fissammo ancora, fra i nostri sguardi correva un flusso d’intesa. – Ah, dimenticavo! – Trasalì la Rosencrans, richiamando a sé l’attenzione della nuova studentessa. - Nel nostro istituto vigono regole ben severe, riguardo alle quali, la signorina Puskovic sarà ligia nel delucidarla. Badi bene, Astrel Lawless: io pretendo il più rigido ossequio, la minima inadempienza potrebbe costarle cara. - La ragazza annuì riverente. – Bene. Ritorno al mio da fare e spero che la sua presenza al Majakovskij non sia d’intralcio per nessuno. – La Rosencrans ritrasse la sua lingua da aspide zitella, e uscì dalla stanza circondata da una cupa bolla di negatività. La ragazza indugiò fissando il vuoto, frastornata come un uccellino cascato dal nido.
- Spero di non disturbarti.-  Fu la prima cosa che disse. La sua voce melodica mi sciolse come ghiaccio al sole.
- No, nessun disturbo, sono felice di condividere la mia stanza con te. Come ti chiami? –
- Mi chiamo Astrel, e tu? –
- Sono Svetlana, piacere. –
- Che bel nome che hai! Dalle mie parti non è molto comune. –
- Grazie. Vieni da Londra, giusto? –
- Sì. -
‑ Ok,  mettiti pure a tuo agio. Ieri sera ho fatto spazio in quell’armadio, così potrai sistemarci le tue cose. -
- Va bene. - Astrel iniziò ad aprire le valigie e a tirare fuori i vestiti, io mi sedetti sul mio letto a farle un po’ di compagnia.
- La nostra scuola deve essere molto famosa all’estero se hai deciso di venirci a studiare. -
- Famosa? –  Ripeté lei perplessa.
- Non lo so. A dire il vero, non ho scelto io di venire a Mosca. Sono stati i miei genitori a spedirmi qui.
- Contro la tua volontà?  -
- Dire che mi hanno buttato fuori di casa equivale a un eufemismo. - Percepivo afflizione tra le parole di quella ragazza; malgrado non la conoscessi ancora, i suoi stati d’animo si fondevano ai miei. - Quanta neve che c’è lì fuori! – Esclamò Astrel indicando la finestra – Non so perché, ma ho sempre immaginato Mosca come una città piena di neve. -
- Forse perché lo è veramente, o almeno per un lungo periodo dell’anno. – Le risposi. Astrel lasciò che quei batuffoli leggiadri la seducessero col loro candore.
- Per alcuni la neve è sinonimo di gelo e null’altro, io credo che sia una gomma in mano alla natura, capace di cancellare tutti quegli orrendi mostri di cemento, esaltando al contempo la bellezza dei monumenti e delle foreste. - Le sue parole suonarono poetiche alle mie orecchie, e la poesia è un dono inconsueto di questi tempi. In un’epoca come la nostra, dove la gente si appropinqua al gregge incurante della direzione, in un’epoca tale, è quasi d’obbligo tradire il proprio io in favore di un modello preconfezionato di vita. Sono i media a dirci chi siamo, loro stabiliscono cosa desideriamo e cosa invece non ci piace. A volte mi domando se la volontà esista veramente, se ciò che diciamo, lo affermiamo perché ne siamo persuasi, oppure perché stiamo eseguendo un comando involontario dettatoci dalla tv. E’ arduo svincolarsi dalla mediocrità di un mondo senza colori, dove ogni angolo dell’anima è dipinto di grigio, e dove la preoccupazione dei verdetti altrui prevarica sull’ostentazione del proprio credo. Sono poche le persone capaci di cogliere la sterilità del grigio, e ancora meno, quelle che possiedono la temerarietà di nuotare controcorrente deprecando le smaniose mode dei costumi. Il loro percorso è arduo e tutto in salita, e una volta raggiunta la cima, non c’è un premio ad attenderli, nessun’onorificenza che possa gratificarli, ma soltanto l’onere d’essere etichettati come “diversi” o “devianti”. Io sono una di loro. Sono una diversa che vive in mezzo alle circospezioni della gente, che ha scelto da sola il cammino da seguire, che non si è lasciata trascinare dalla massa informe di una società senza colori.
Astrel cominciò a esplorare la stanza con attenzione; trovarvi tutti quei comfort la sorprese. Il Majakovskij, poiché collegio privato, era dotato d’ogni tipo di comodità. Tutte le camere degli studenti erano fornite da connessioni internet a banda larga, Tv satellitare, vasca idromassaggio, e un efficiente impianto di climatizzazione.
- I tuoi genitori devono essere molto ricchi se ti fanno studiare qui.- Disse Astrel mentre tornava al suo da fare.
- I miei genitori? – Domandai, quasi incapace di trovare un riscontro affettivo a quella parola. Astrel parve contrita.
– Scusami, non volevo toccare un tasto dolente. -
- No, non preoccuparti. - Le risposi con un sorriso. - Ecco… la mia è una storia un po’ lunga. -  Spiegai con un certo imbarazzo.
- Non sei obbligata a parlarmene se non te la senti. -
- No, al contrario. Mi farebbe piacere. - Con una dolcezza da me inaspettata, la ragazza si avvicinò e con discrezione prese posto sul mio letto.
– Bene, allora ti ascolto. - Mi fece uno strano effetto sfogliare ancora il libro della vita. Non ricordavo neppure quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che ne avevo condiviso le pagine con qualcuno. In realtà, ciò non era mai accaduto. Introversa come sono, ho sempre celato la mia essenza tra i meandri della mente, ma a volte lo spazio scarseggia. Quando tutto si accalca in una bolgia confusa, l’unica soluzione è esternare il tutto, traducendo i pensieri in parole, i sogni in poesie, le angosce in lacrime. - Sei russa, vero? –  Mi chiese Astrel mentre si sedeva.
- Sì, Sono nata a Novosibirsk. - Le risposi, inebriata dal profumo delicato che la sua pelle emanava vicino a me. - Da una famiglia molto povera, che tentava di sopravvivere alle scelte errate di alcuni leader  politici. Ma, non era la povertà l’unico problema… -
- Cos’altro? – Domandò Astrel, per liberarmi dall’esitazione.
- Loro non si amavano più! I miei genitori, intendo. Forse a causa della gelosia cieca che mio padre nutriva nei confronti di mia madre, non saprei dire cosa minasse l’equilibrio della loro relazione, perché ero troppo piccola, e fra i miei ricordi annovero soltanto le urla di quotidiane e furibonde liti. Una fredda mattina di dicembre, quando avevo appena tre anni, mia madre si è svegliata prima del solito; In silenzio ha recuperato una vecchia valigia, l’ha riempita di viveri e di qualche indumento rappezzato, e poi, è sparita insieme al suo colbacco e all’unico paio di scarpe invernali. -
- E’ andata via di casa? –
- Già. Per i primi tempi mio padre non ha fatto altro che cercarla, si è recato perfino a Čeljabinsk, la città natale di mia madre, ma a nulla sono valse le sue ricerche. Ogni sforzo s’è rivelato vacuo. Fino a oggi di lei non si sa nulla. Feci una pausa, Astrel mi osservò comprensiva, immedesimata nel mio racconto, quasi ne condividesse il ricordo.
- Dunque, sei rimasta sola con tuo padre? –
- Non proprio. Mio padre da quel momento ha perso la testa. Ha iniziato a bere, a essere violento e aggressivo, fino a quando, un giorno, colto da un raptus ha ucciso un compagno di lavoro per futili motivi. - La mia voce si spezzò come un ramoscello, impedendomi di continuare.          
Narrare di quegli anni lontani era semplice, e lo feci con apatia e distacco, ma proseguire non fu altrettanto facile, ora il peso dei ricordi cominciava a incombere, e quelle vecchie ferite mai cicatrizzate dolevano inesorabili.
- E’ stato arrestato e gettato in prigione, ma la sua permanenza in cella è durata appena il tempo di ammutinarsi alle sbarre con un gesto estremo. –
 - Oh, lui si è… - Astrel aveva compreso perfettamente che fine atroce avesse spento mio padre, ma lasciò che fossi io a proseguire.
- Si è ucciso, proprio così. Penzolava col cappio al collo quando l’hanno rinvenuto. -
- Mi dispiace molto. – Disse la ragazza in tono sommesso.
- A me non è andata meglio. Ormai senza famiglia, solo l’orfanotrofio poteva attendermi, e fu il peggiore di Novosibirsk a inghiottirmi nella sua miseria. - Astrel parve frustrata, desiderava manifestare la solidarietà che nutriva nei miei riguardi, ma conoscendomi appena, le fu arduo articolare le parole. Forse, quella ragazza non sapeva di possedere un dono speciale; forse, nessuno le aveva mai fatto comprendere che i suoi occhi fulgidi riuscivano a essere eloquenti più di mille poemi.
- Dopo cos’è avvenuto? Intendo dire, come hai fatto ad arrivare fin qui? –
- Appena compiuti dieci anni, l’orfanotrofio che mi ospitava è riuscito a rintracciare una parente che non sapevo d’avere.
- Una parente? –
- La sorella maggiore di mia madre, residente negli U.S.A. E’ stata una grande sorpresa scoprire d’avere una zia. -
- Anche scoprire d’avere una nipote è qualcosa di sorprendente, lei come ha reagito? –
- Ha deciso d’adottarmi, e in breve mi sono trasferita a New York, nella sua residenza di Manhattan. - Hai vissuto a New York? - Domandò Astrel con enfasi. – E’ la mia città preferita! - Continuò.
- Sì, per cinque anni, ma li rammento con mestizia. Conducevo un tenore di vita molto elevato, diciamo che lo conduco tutt’ora. Al mio primo giorno nella Big Apple, mia zia mi portò a fare shopping. Insieme entrammo in un negozio, si chiamava J. Craw. Lì, mi regalò una carta di credito illimitata invitandomi ad acquistare tutto ciò che desideravo; ed io che non sapevo neppure a cosa servisse quel tesserino plastificato. –
- Beh, adesso lo sai. – Replicò Astrel sorridendo e indicando il mio I-pod ultimo modello sul comodino.
- Eppure – Continuai, chiudendo la parentesi economica – la sua magnanima generosità non era un’espressione d’affetto nei confronti di una ragazzina sfortunata, bensì un rimpiazzo materiale a un sentimento che non era capace di nutrire. Diceva di volermi molto bene, era brava con le parole, la sua retorica avrebbe persuaso anche il più ostinato degli scettici, ma con i gesti quotidiani, dai più banali a quelli importanti, si smentiva da sé. –
- Io non capisco. – Obiettò Astrel – Se ha deciso spontaneamente d’adottarti, per quale ragione non riusciva a essere amorevole? -
- Ecco, lei non poteva avere figli suoi, ciò la rendeva frustrata e spesso cadeva in depressione. Mi ha adottato per appagare la sua indole materna repressa, erroneamente ha rifuso in me ciò che si aspettava da un figlio naturale, ma io restavo comunque sua nipote, e questa clausola proprio non le riusciva d’accettarla. Credimi, è umiliante sentirsi il premio di consolazione, l’acquisto difettoso che vorresti riportare al negozio per barattarlo con uno migliore.-
- Ma tu non eri un giocattolo! – Precisò Astrel con ardore, quasi quella vicenda avesse toccato una parte di sé, delle sue esperienze pregresse.
- No, non ero un giocattolo, ma per mia zia raffiguravo ciò che la natura le aveva precluso. Così, una volta compiuti quindici anni, ha stabilito che dovevo tornare in Russia, perché erano molte le cose da imparare sulla mia terra. Diciamo pure: un brillante espediente per allontanarmi da casa. –
- Dunque, neppure tu hai scelto questa scuola di libera iniziativa? –
- Affatto. Odio il Majakovskij dal primo giorno che ci ho messo piede. –
- Il Majakovskij o la direttrice? – Mi domandò con l’intento di sdrammatizzare. Il suo sorriso sfavillante alleggerì la situazione, prosciugando in sé quel sottile velo di malinconia che appannava i nostri sguardi. - Se solo fossi stata al posto di tua zia – Esordì poi, argomentando con fare convinto – non ti avrei mai considerato un premio consolatorio, bensì un dono prezioso. - Le sue parole suonarono così calde alle mie orecchie, che credei il cuore mi si stesse infiammando.

 

 




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