Vola al di là della neve
      di Svetlana Yaroslavna  Puskovic
       
      8 Vita segreta al Majakovskij      
      Nella stanza la luce era spenta.  Con la complicità del buio i due partner si agitavano vogliosamente sfidando i  margini ridotti di un letto singolo. Liudmila era in preda agli ormoni, e  rapita dal fascino estatico del suo partner, si concedeva a esso ansimando di  piacere. Ancora una volta l’allieva del Majakovskij si strusciava la pelle con  i muscoli caldi e suadenti d’un perfetto sconosciuto, ma questa volta, ella ne  rammentava il nome e perfino il colore degli occhi. Liudmila pensò d’aver  incontrato l’amante perfetto, mai nessuno prima di lui l’aveva fatta godere  così a lungo e intensamente. Con ardore lo agguantò per le scapole e inarcò il  capo all’indietro, sperando che quel momento non avesse mai termine. D’un  tratto ai suoi ansimi di godimento si frapposero degli energici tocchi alla  porta che la interruppero sul punto migliore. Liudmila si destò tornando con il  capo in posizione corretta, con un balzo fu in piedi scaraventando il suo  partner per terra. 
        – Oh mio Dio! – Esclamò colta  dal terrore, incerta sul da farsi. Fulminea corse ad accendere la luce e nuda  prese a girare per la sua camera ammonticchiando fra le braccia tutti gli  indumenti maschili sparsi sul tappeto. I tocchi alla porta si fecero più  insistenti. – Sto arrivando! – gridò trafelata, ghermendo il suo stallone per  un braccio e spintonandolo fino al bagno. - Entra qui. – Gli intimò,  barricandolo all’interno della stanza da bagno insieme agli indumenti che aveva  appena raccolto.
        - Ehi, aspetta, ma che diavolo  fai? Aprimi! – Si ribellò lui, ormai imprigionato dalla ragazza che un momento  prima godeva avviluppata alla sua carne. 
        - Resta qui e sta zitto, se solo  mi scoprono con te sono nei guai! – Bisbigliò l’allieva con le labbra rasenti  all’uscio. All’ingresso qualcuno continuava a infuriare tocchi. Liudmila  afferrò frettolosa una tovaglia da bagno e la usò per coprirsi, poi si accertò  che in giro non vi fossero altri indumenti maschili e spedita corse ad aprire  la porta. La segretaria della direttrice Rosencrans apparve impettita innanzi  allo sguardo disorientato della giovane allieva. Una folta capigliatura  rossastra le troneggiava arruffata sul capo, il suo naso aguzzo puntellato da  efelidi si perdeva nei giganti fondi di bottiglia che era solita indossare  quando lavorava. Liudmila avvertì il carico dell’occhiata inquisitoria che la  donna le scagliò contro, e preoccupata che ella sospettasse qualcosa si  giustificò preventivamente.
        – Salve, mi scusi se non ho  aperto subito la porta, ma come può notare ero sotto la doccia. - Al fine di  rendere la farsa più credibile, Liudmila strinse a sé la tovaglia fingendo di  sentir freddo, quasi fosse bagnata. La segretaria non diede peso a quelle  parole, e col sussiego tipico del suo carattere si limitò a riferire ciò che  doveva.
        – La direttrice Rosencrans ha  chiesto di lei, si rechi in presidenza, subito. - Liudmila impallidì, le sue  labbra sottili presero a fremere ritmicamente “ Forse l’ha visto entrare”  suppose terrificata.
        – La direttrice vu, vuole  vedermi? E perché? –
        - Si rechi nell’ufficio della  Rosencrans invece di prolungarsi in stupidi quesiti! - Ribatté la donna  parecchio alterata. Liudmila si sforzò di essere cortese.
        - Sì, mi perdoni. Indosso  qualcosa e corro in presidenza. –
        - Si sbrighi. – Aggiunse la  segretaria mentre andava via borbottando fra sé parole incomprensibili.
        La studentessa richiuse la porta  alle sue spalle e incollerita prese a scalciare contro una parete.  - Odiosissima vecchia befana! Sei riuscita a  rovinarmi la serata. – Rintronò, sferrando calci con maggiore violenza.
        Sono sempre stata una ragazza  introversa e riservata. Non ero solita coinvolgere gli altri nella trama  burrascosa che caratterizza la mia vita. Accanto a me, tuttavia, posava un  angelo dalla tale dolcezza, che credevo quasi mi leggesse dentro. Non abbiamo  avvertito il bisogno di sciogliere il ghiaccio, tra noi, il feeling è stato  immediato. Potrebbe apparire inverosimile legare emotivamente con una persona  che, per quanto benevola sia, resta pur sempre un’estranea. A volte si parla di  colpi di fulmine, infatuazioni repentine capaci d’annientare tutte le norme  sociali che si frappongono alla libertà d’esperire un rapporto interpersonale  con la sola empatia. Adesso mi sentivo leggera come una libellula, finalmente  ero riuscita ad affrancarmi dalla zavorra, quel fardello oppressivo di ricordi  e paure che incalzava il mio spirito ovunque si recasse. Per tutto questo tempo  non avevo fatto altro che sgusciare via dai miei fantasmi, chiedendo asilo alle  fantasie riguardo al futuro e ai buoni propositi per affrontare il presente. Seduta  sul mio letto, osservavo Astrel organizzarsi in un nuovo spazio. Si muoveva in  modo aggraziato ed elegante, anche i gesti più banali, se compiuti da lei,  apparivano armonici come il volo delle farfalle. Quando si chinò per sollevare  una valigia, la mia attenzione cadde su un ciondolo rosa che indossava al  collo, assomigliava a un cristallo, e luccicava a ogni leggiadro movimento che  la proprietaria compiva. 
        - Com’è bello quel pendente! –  Commentai interessata. Astrel condusse una mano al collo bloccando il dondolio  del suo monile. 
        - Questo? - Chiese. - E’ un  talismano, uno di quelli che le veggenti usano per leggere il futuro o roba del  genere. Mi è stato donato da una donna Rom durante un soggiorno in Romania,  solo che io non credo in questo genere di cose. – 
        - A cosa non credi? - Domandai  incuriosita. 
        - Quando la veggente me lo diede  in dono, mi disse di non separarmene mai, perché il talismano mi avrebbe  protetto da ogni male. Allora avevo solo dieci anni, e ogni volta che mi  arrampicavo su un albero del mio giardino senza precipitare giù, credevo fosse  opera del talismano. –
        - Devo supporre che negli ultimi  tempi avrai cambiato opinione? –
        - Sì, naturalmente. – 
        - E, se pensi che il tuo  talismano non sia capace di proteggerti, come mai lo porti ancora al collo? – Domandai,  sperando che le mie parole non suonassero indiscrete. Astrel tentò di  spiegarmene il motivo, sembrava lieta di farlo, quasi attendesse da parecchio  che qualcuno la sollecitasse su quell’argomento.
        - Per me è una sorta di retaggio.  Se lo stringo fra le dita posso rivivere il capitolo chiuso della mia infanzia,  credere ancora nelle fiabe e riscoprire la magia che i miei disincantati occhi  ormai non vedono più. – 
        - Dunque - mi pronunciai ora con  l’intento di desumere la mia conclusione. – tu non credi che il mondo possa  tornare magico come allora? – Astrel scosse la testa silenziosa, nel suo  sguardo si rapprese un commisto di pessimismo e di vacua speranza.
        - Lo vorrei tanto, ma ho  imparato che la felicità non vive di vita propria, perciò, è futile ricercarla  con tanto ardore, dovremmo solo imparare a generarla. –
        - E come potremmo farlo? – Le  domandai, stregata da tale profondità, la saggezza che palesava non si accordava  alla sua giovane età.
        - Beh, funziona un po’ come il  calore, se vogliamo ottenerlo ci occorre una fonte d’energia, la mia felicità  si nutre solo d’amore e finché non ne troverò a sufficienza continuerò a  stringere questo talismano con amara malinconia. -
      9 Insidiosi stratagemmi
      Ogni sera, alle ventuno  scoccate, l’illuminazione interna della scuola si spegneva in automatico  cedendo il posto alle bluastre lampade notturne, istallate nei corridoi e  nell’atrio centrale del piano terra. Tutto imbruniva nella paziente attesa del  mattino. In fondo al corridoio est, dall’imponente ingresso della presidenza,  una luce fioca filtrava dal millimetrico interstizio fra la base della porta e  il pavimento. La Rosencrans s’intratteneva ancora nel suo ufficio, impelagata  nella burocrazia delle carte pareva aver scordato l’esistenza dell’orologio.  Con indosso un tallier blu notte dal taglio classico, l’anziana donna sedeva  laboriosa dietro la scrivania, sorseggiando un wisky invecchiato quindici anni  dal pregiato cristallo di un bicchiere. Il suo viso corrugato dal tempo e  incorniciato da una sfoltita chioma canuta raffigurava tutti gli anni decorsi  dal suo cinquantesimo compleanno. Liberandosi momentaneamente dagli occhiali da  presbite, l’attempata direttrice si sfregò le palpebre conducendo la nuca sullo  schienale della poltrona.  Il suo  sguardo vagante cadde su vecchie foto che arredavano la scrivania, e come sovente  avviene dinanzi al passato cartaceo, s’abbandonò con la mente in lacunosi  percorsi di reminescenze. Inglese dalla nascita, la direttrice Anne Rosencrans  era cresciuta a Londra tra le finezze di una vita agiata. Il padre, un abbiente  proprietario terriero amante delle scienze umanistiche, conduceva a Londra un  ragguardevole collegio privato, dove i figli dell’elite cittadina ricevevano  l’adeguata istruzione per debuttare in società. La madre, anche lei  dall’apollineo spirito filantropico, si dilettava con l’arpa e il violino,  insegnando musica nella scuola del marito. In quest’ambiente erudito e alto  borghese, l’allora giovane Anne vi era cresciuta, maturando presto la capacità  di declinare la sua persona con i diktat del perbenismo, dei buoni costumi, e  della totale ammissione dei cliché sociali. Con la morte d’entrambi i genitori,  tutti gli averi succedettero alla figlia, unica erede. Per ragioni del tutto  sconosciute, nel 1995 ella vendette la scuola del padre alla blasonata famiglia  Stanley, impiegando il ricavato nella fondazione di un nuovo collegio con sede  a Mosca. La donna diede all’istituto il nome di: Vladimir Vladimirovič  Majakovskij, per onorare la memoria del primo poeta russo di cui aveva letto le  opere, augurandosi che ciò fosse propiziatore di fausti. Fu così, che la  Rosencrans divenne la direttrice indiscussa del Majakovskij, e a decorare  d’autorevolezza la sua carriera, come i nastrini sulle divise militari, vi sono  ben dieci anni di conduzione scolastica. Rammento un periodo, circa un anno  addietro, in cui i fondi dell’istituto cominciarono a scarseggiare. Si  vociferava che il Majakovskij fosse sull’orlo del collasso, “ Impossibile”  smentiva perentoria la Rosencrans, se le chiedevano conferma a quella voce “ Le  classi tracimano d’allievi, e ogni anno tutti quei ricconi infatuati dal  capitalismo non fanno che inoltrare domande d’iscrizione per i loro figli.” Su  tali persuasive argomentazioni, la direttrice confutava tutti coloro che  sostenevano il contrario. Ciò nondimeno, la carenza di liquidità era palese in  quel periodo: dal cibo di seconda scelta, al taglio delle spese per lo sport e  i viaggi d’istruzione, fino al licenziamento ingiustificato di alcuni docenti.  Nessuno si spiegava a cosa fosse dovuto quel repentino buco di bilancio, e  scavare nelle insidie che insabbiavano la verità risultava ostico. Gli insegnanti  destituiti vociferavano che la Rosencrans si fosse data al gioco d’azzardo, e  in effetti, non di rado la si poteva incontrare in un casinò di Mosca a  intrattenere una partita di poker o semplicemente incantata dinanzi ai monitor  luminescenti delle slot-machine. Quale che sia la realtà, in meno di un anno la  situazione si ristabilì. Gli insegnanti furono riassunti, il cibo tornò a  essere quello di una volta, e tutti parvero dimenticare la misteriosa vicenda  senza porsi ulteriori domande. Intenta a digitare caratteri sulla tastiera, la  direttrice udì bussare alla porta.
        - Avanti - Disse, schiarendosi  la voce. Liudmila fece il suo ingresso in presidenza dominando la scena con  spettacolosi ancheggiamenti di bacino, come se stesse calcando una passerella  d’alta moda. Mantenendo l’andatura e la rotta, raggiunse la scrivania della  direttrice e si accomodò sul pouf verde muschio con rifiniture colore oro.  L’allieva ebbe attenzione di curare la postura ed elegantemente accavallò le  gambe poggiando entrambe mani sopra le ginocchia.  Liudmila adorava atteggiarsi come una donna di classe, incarnare  stereotipi confezionati dal senso comune le dava maggiore fiducia per  affrontare la gente. Spesso i suoi gesti artificiosi la rendevano oggetto di  ludibrio da parte degli altri allevi, ma questo era un fattore di poco conto,  per Liudmila contava soltanto una cosa nella vita: trovarsi sempre al centro  della scena. Bramava affinché gli altri la considerassero perfetta, lei  meritava d’esserlo! Nell’egocentrismo esasperato Liuda vi era affondata  trascinando giù i sentimenti, a galla persisteva soltanto il marcio. Alta  appena un metro e sessanta, dalle forme arrotondate e dai comuni occhi castani,  la giovane era in conflitto col suo aspetto e con la schiettezza di tutti gli specchi.  La vita era stata così crudele appioppandole quel corpo da anatroccolo che un  cigno come lei non meritava d’incarnare, e quanto odio fomentava dentro per  tale perfidia subita! Con fare cerimonioso, la ragazza lanciò alla preside uno  sguardo adulatorio sperando d’aggraziarsene i propositi.
        - Desiderava qualcosa da me,  signorina Rosencrans? - La direttrice sollevò il bicchiere di wisky poggiato  sulla scrivania, fece roteare per alcuni secondi i cubetti di ghiaccio quasi  sciolti, e poi mandò giù l’ultimo sorso d’alcool.
        - Avrei un favore da chiederle,  Liudmila Borisovna. Vorrei affidarle un compito abbastanza intrigante. -  Liudmila rizzò la schiena sul pouf, quasi volesse trovare una posizione consona  all’annuncio.
        - Dica pure, sono a sua totale  disposizione. – La direttrice diede un colpo di tosse parandosi la bocca, poi  si espresse.
        - Ho appena ricevuto una  telefonata da Londra. Il rettore Stanley era ansioso di esprimere la sua  gratitudine nei miei riguardi per l’aver accolto quella smorfiosetta che ci ha  spedito. – 
        - Si riferisce alla nuova  allieva? Quella che doveva arrivare dall’Inghilterra? – 
        - Sì, proprio lei. – La preside  si dilungò in una pausa vuota, implicitamente stava ammettendo di pensare a  come dire meglio, ma Liudmila non colse questo messaggio subliminale e fremette  sul silenzio della donna.
        - Insomma! – Incalzò,  protraendosi in avanti col busto. – Qual è il compito che intende assegnarmi,  signorina Rosencrans? – La donna non gradì l’impazienza della giovane, ma  temendo di vagare rinunciò a riprenderla per giungere al dunque. Con un gesto  pratico voltò lo schermo LCD del computer verso Liudmila, e dopo aver cliccato  su un file disse
   - Il mio problema, è che non possiamo permetterci di mantenere a  spese dell’istituto un’allieva che viene da fuori, non con i gravi in bilancio  che abbiamo registrato in quest’ultimo periodo. – La ragazza osservò il  monitor. Era pieno d’iscrizioni accuratamente posizionate su uno schema a due  colonne, le quali riportavano le voci di “dare” “avere”. Liudmila non si era  mai intesa di partite doppie e di calcoli matematici, ma pervenne ugualmente  alla conclusione a cui doveva arrivare: la situazione economica della scuola  era nuovamente in ribasso. 
        -Beh? – Si pronunciò Liudmila, come  a voler minimizzare - Mi pare che la soluzione sia semplice: la rispedisca a  Londra. - Concluse con aria risoluta, quasi avesse trovato la soluzione a un  problema di geometria. Dall’altro capo della scrivania la direttrice tuonò con  dissenso. 
        - Evidentemente, la parola  diplomazia per lei non ha alcun valore. Il signor Stanley è un nostro  benefattore, se rimandassi indietro quella smorfiosa, rischierei di perdere il  20% delle entrate. Cosa che non ci possiamo proprio permettere. Le farebbe  piacere terminare gli studi in un altro collegio diverso dal Majakovskij?  Magari in una misera scuola pubblica, perché è questo ciò che potrebbe  accaderti, a te e ai tuoi compagni, se il Majakovskij dovesse malauguratamente  chiudere. - Liudmila parve scandalizzata.
        - Certo che no!  Cosa propone di fare in merito? - La  Rosencrans inspirò profondamente, poi rispose. 
        - Di affidare nelle tue mani la  situazione. – 
        - Cosa? –
   - Non agitarti mia cara, l’incarico è più semplice di ciò che  credi. Devi semplicemente far in modo che la nuova arrivata ci saluti al più  presto. - Liudmila si abbandono a una risatina nevrotica.
  – E come potrei mai riuscirvi? - 
        - Non è a me che devi porre tale  quesito, ma al tuo ingegno. Io cerco soltanto un pretesto, una ragionevole  motivazione che mi consenta d’espellere quella ragazzetta dall’istituto senza  perdere il rispetto del rettore Stanley. Solo se la spingiamo a infrangere il  regolamento, possiamo liberarcene. - Liudmila obbiettò assalita dai dubbi 
        - Sì, ma se non infrangesse  alcuna regola? – 
        - Sta proprio in questo la tua  mansione, devi fare in modo che ciò avvenga. Usa la persuasione, avvaliti  dell’inganno, risparmia la deontologia e vienimi in soccorso! – La ragazza  annuì, inquietata e intrigata al contempo. - Reputo superfluo, Liudmila  Borisovna, rammentarle che la nostra conversazione in realtà non ha mai avuto  luogo, e che la discrezione e la riservatezza dei nostri accordi vada  considerata d’irrinunciabile priorità. -
        - Sì, certamente. – Assicurò la  ragazza - Non ne farò menzione con nessuno, ma in cambio io… - La direttrice  sbuffò rassegnata e prese a battere nervosamente le unghie sulla plastica del  tagliacarte, sapeva che per pagare il silenzio di Liudmila doveva cederle  qualcosa in cambio. 
        - Ricevere visite da individui  esterni al Majakovskij non le basta? – Liudmila arrossì imbarazzata, aveva  colto il senso di quelle parole. 
        - Io, io non ricevo visite da -  tentò di giustificarsi con voce strozzata.
        - Andiamo! Sa benissimo che  nulla può sfuggirmi. Sono a conoscenza delle visite in camera sua, alquanto  notturne per essere solo di cortesia. – 
        - Perché allora non mi ha  punito? Come fece quella volta con Julia, quando la scoprì a baciarsi con un  ragazzo. – Incalzò la giovane con un sottile tono di sfida. La Rosencrans  bloccò le unghie sul tagliacarte e lapidò la giovane con lo sguardo.
        - Mi auspico, Liudmila, che fra  noi s’instauri un rapporto di reciproca collaborazione. Io occorro dei suoi  servigi, ma sia chiaro a priori: non sono disposta a barattare più del  necessario. Posso chiudere un occhio sulle sue… chiamiamole pure “Scappatelle”,  in pratica l’ho faccio già da un pezzo, ma chiedere ulteriori privilegi,  significherebbe scherzare col fuoco, e il fuoco, a volte riscalda, altre  brucia. - L’antifona apparve chiara e precisa alle orecchie dell’ancora  imbarazzata studentessa.
      
        10 Verso la sua anima 
      Finalmente ero riuscita a  mettere a proprio agio la mia nuova compagna di camera. Non doveva esserle  semplice ambientarsi in un paese straniero, ma le difficoltà che si possono  riscontrare in quest’impresa sono esigue se paragonate agli ostacoli tortuosi  che il Majakovskij pone d’innanzi. Sapevo già in quali sgradevoli episodi stava  per imbattersi quella ragazza dagli occhi cerulei: canzonature perfide da parte  degli studenti, malanimo fra i volti degli insegnati, punizioni gratuite  elargite dalla Rosencrans. Quest’immane sfilza d’atteggiamenti poco amichevoli,  ruotavano intorno a un epicentro nominato “competizione”, che nei connotati  meno eufemistici suona come “sopraffazione”. Al Majakovskij le cose erano  sempre andate così. Tutti contro tutti   in un belligerante clima d’antagonismo.   Quali le ragioni? Uno dei motivi principali poteva ravvisarsi nel  trattamento ineguale che la Rosencrans adottava, lo stesso trattamento, che in  fondo, ci riservavano gli insegnati, usando due metri e due misure con ogni  studente. Quest’errata linea didattica, faceva sì che fra noi nascessero  rancori e invidie spesso difficili da redimere. Non erano solo questi i motivi  delle soventi inimicizie che ci si poteva creare al Majakovskij, in genere  occorreva conseguire un bel voto o vincere una gara sportiva per attirarsi  contro gelosie e cattiverie. La prepotenza usata per prevalere sugli altri,  l’indifferenza totale per i sentimenti altrui, le vendette sottili e invisibili  che tutti i giorni ti colpivano, caratterizzavano una realtà a cui  inevitabilmente Astrel sarebbe andata incontro. Sola e senza risorse, io non  potevo far nulla per evitarle quest’impatto crudo e scellerato, non potevo  sostenerla in nessun altro modo se non standole vicino. Probabilmente vi  domanderete il motivo di tanta preoccupazione per una ragazza a me sconosciuta,  e mi rincresce deludervi affermando che non possiedo alcuna risposta; non è  affare di chi viaggia sull’onda del cuore crucciarsi nell’incertezza dei  quesiti. Gli occhi d’Astrel volgevano languidi oltre i vetri della finestra.  Osservando quei fiocchi bianchi venire giù, la sua espressione divenne  serafica. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata fugace al cellulare, forse si  aspettava che i genitori la chiamassero, che qualcuno reclamasse sue notizie,  eppure niente, da quando era arrivata a Mosca, non un solo squillo aveva  contribuito a farla sentire meno sola. Magari un giro turistico della capitale  poteva giovarle. 
        - Eri mai stata a Mosca prima  d’ora? –  Le chiesi mentre aprivo  l’armadio per tirar fuori il cappotto. Astrel si voltò verso me, poi rispose.
        - L’anno scorso sono stata a San  Pietroburgo per un viaggio studio, ma a Mosca non ero mai venuta.- 
        - Ti piacerebbe visitarla? –  Astrel parve interessata
        -Sì, certamente. – Colta da un  entusiasmo che raramente provavo, mi diressi verso la porta carica d’energia.
        - Bene, allora andiamo. -  La mia compagna di camera mi fissò perplessa. 
        - Cosa? Intendi dire adesso? – 
        - Non ti va? – Domandai  comprensiva. 
  – Sì, ma non credo ci faranno  uscire, sono le nove passate. – Sorridendo maliziosamente replicai 
  – E chi ha parlato di chiedere  il permesso? – 
        - Ok, ho capito. Da dove si esce  qui senza correre il rischio d’essere beccati? -  Abbottonandomi il cappotto, risposi 
        - Non immagini neppure quanto  siano trafficate le scale d’emergenza a quest’ora. - Svignarmela di nascosto  era diventato un gioco fin troppo facile per me, e devo ammettere, anche un  pizzico intrigante. Non ero certo l’unica che violava il coprifuoco per godersi  un po’ di night life, e quella sera non sarei stata né la prima né l’ultima. L’unico  problema era costituito dal signor Vyacheslav Lavrov. All’operoso inserviente,  infatti, era stato disposto d’aggirarsi su e giù per la scuola fino a tarda  notte, in maniera da evitare fughe notturne e qualsiasi forma di disordine.  Eludere il suo occhio vigile era un’impresa da guinness, e non so a quale  ingegnoso escamotage ricorrevano gli altri per riuscirvi. Io, tuttavia, possedevo  una tecnica collaudata e infallibile. Mi bastava comporre il numero del  Majakovskij e far partire la chiamata dal mio cellulare, a quel punto il telefono  dell’istituto squillava… e il povero Vyacheslav si apprestava a rispondere con  un’efficienza impeccabile. Quando riagganciava pensando che si trattasse di uno  scherzo, io scendevo già le scale d’emergenza cantando vittoria.
        Liudmila rientrò in camera con  l’espressione assorta. Il letto era ancora in disordine, e la finestra che dava  sul giardino spalancata. Le tende svolazzavano in una danza scomposta. Liudmila  corse a richiudere l’imposta giostrandosi fra la stoffa del tendaggio. Che gran  comodità alloggiare al pianterreno!
        La neve aveva smesso di cadere,  ma quel silenzio surreale aleggiava ancora impalpabile. Le finestre delle  abitazioni erano offuscate dalla condensa, i lampioni accesi per le vie  deserte, illuminavano la calma piatta di una sera moscovita. In compagnia  d’Astrel percorrevo la piccola traversa che fiancheggiava la parte laterale del  Majakovskij, immettendoci ora nella strada principale, una folata d’aria fredda  ci colpì raggelandoci. Non poteva dirsi la sera adatta per passeggiare  romanticamente, ma entrambe nutrivamo il medesimo bisogno d’evasione.
   - Bene, Astrel, che meta preferisci? – Le domandai rivolgendomi a  lei con un sorriso. Astrel parve riflettere.
        - Beh, non saprei, la famosa  Piazza  Rossa è lontana da qui? –
        - Affatto, siamo a meno di un chilometro,  seguimi. - I nostri passi solcarono la neve tracciando un temporaneo  itinerario. Passeggiando tra i bagliori della sera, la sua mano strinse la mia.  Non mi aspettavo quel gesto, che allo stesso tempo percepivo così spontaneo.  Finalmente le dita iniziarono a scongelarsi, sotto la sua presa calda provai  sollievo. Quel semplice gesto, compiuto con naturalezza, contribuì ad aumentare  la nostra intesa. Mano nella mano giungemmo a destinazione e l’immensa area  della Piazza Rossa si manifestò ai nostri occhi. Lo spettacolo da cartolina cui  stavo assistendo mi era alquanto familiare, eppure, non smetteva mai di  stupirmi. Potrei sprecare mille parole nel vacuo tentativo di narrare la  bellezza di quei monumenti, nel descrivere come le tonalità calde e purpuree  contrastavano la temperatura invernale, ma credo sarebbe impresa vana. Nessuna  espressione letteraria o figura retorica che sia, potrà mai essere all’altezza  di ciò che stavo contemplando. L’enorme perimetro della piazza era sgombero da  turisti e passanti, le finestre del Grande Cremlino e dei magazzini Gum erano  illuminate a festa, mentre le magnifiche cupole di San Basilio si erigevano  fiere, irte nel cielo.
        - Wow! – Esclamò Astrel  meravigliata. – Quanti bei colori su quelle cupole, sembrano degli enormi  gelati. – Con sguardo vispo ammirava tutte le bellezze che il panorama le  offriva, le sue pupille sfrecciavano veloci da destra a sinistra, voraci, nel  tentativo di catturare anche i dettagli più minuti. Osservandola con incanto, mi  accorsi di quanto fosse bella. I lineamenti del suo volto ricordavano lo charme  misterioso delle principesse orientali, ma la sua carnagione era nivea come  quella di una valchiria. Quando il vento impazzava insolente, i suoi lunghi  capelli corvini ondeggiavano vivaci svelando la forma dell’aria e rilasciando  fragranze afrodisiache. Con la mano premeva la sciarpa al collo per evitare che  il freddo le penetrasse all’interno, e delicatamente socchiudeva gli occhi per  non farli lacrimare.
  – Che ne dici se ci sediamo un  po’? – Le proposi, scostando la neve da una panchina con il palmo della mano. 
        - Va bene. - Pochi minuti più  tardi, ci ritrovammo a ridere e scherzare come fanno le amiche di vecchia data.
        - Certo che la vita è davvero  strana! – Disse Astrel riflettendo ad alta voce. 
  – Cos’ha di strano la tua? – Astrel  si fece riflessiva e assorta replicò. 
  – Beh, di punto in bianco tuo  padre ti dice che devi partire per la Russia, e poche ore più tardi, ti ritrovi  qui, nella piazza più celebre di Mosca - Astrel ebbe un momento d’esitazione e  fugò lo sguardo altrove, quasi intimidita, poi, tornando a fissarmi, trovò  l’audacia per lanciarmi un’occhiata interessata - …Con te. - Non so spiegare  con esattezza ciò che provai in quel momento, ero così preda del suo  incantesimo, che tutto attorno a me si mutò in qualcosa d’irreale, come una  dimensione parallela in cui l’incalzare del tempo si smorza per cedere il posto  a una forma di presente che si dilunga all’infinito.
        - Hai ragione, la vita è  imprevedibile. Neanch’io avrei potuto immaginare d’incontrarti, ma sono felice  d’averti conosciuta. –  Le risposi con  un fil di voce. Lei continuava a fissarmi. In un'altra circostanza, timida per  come sono, avrei distolto lo sguardo imbarazzata, con lei tutto era diverso.  Non mi sentivo a disagio quando mi guardava, non provavo inibizione nello stare  seduta cosi vicino al suo volto. 
        - Sei bellissima. Willard  l’aveva detto che a Mosca ci sono le ragazze più belle del mondo. - Per un  attimo credei che si trattasse solo di un sogno, un magnifico sogno che stavo  vivendo a occhi aperti, eppure, ciò che avevo udito non poteva essere più  reale.
        - Anche tu sei molto bella, non  mi stancherei mai d’ammirarti. –  Astrel  infittì la sua mano tra i miei capelli biondi, carezzandoli come se stesse  apprezzando la morbidezza di un tessuto pregiato. Non potei che concedermi con  tutta me stessa a quel tocco fatato e socchiudendo gli occhi avvicinai le labbra  fino a condurle a un palmo dalle sue. Ora potevo sentire il suo respiro  sfiorarmi l’anima e il suo sapore attrarmi come un magnete. Un brivido  struggente mi percorse la schiena quando finalmente le nostre bocche  s’incontrarono. Inizialmente fu un tocco sottile, timido, delicato, poi assunse  nuove sembianze, e tra un batticuore e l’altro mi ritrovai coinvolta nel bacio  più intenso e romantico della mia vita. Oggettivamente stavo baciando con  ardore una ragazza che conoscevo da meno di tre ore, ma quella non era la prima  volta che i nostri destini s’incrociavano per fondersi l'un l'altro. In realtà  ciò avveniva da sempre e per sempre sarebbe stato così. Ogni essenza alimenta  il suo esistere per riconciliarsi alla metà perduta, e se le forze raziocinanti  aberrano tali impeti antesignani, sarà il cuore a far d’auriga, e il mio cuore  quella sera, mi condusse in lei.
        - Sai di buono. - le dissi,  riaprendo lentamente gli occhi.
        - Lucida labbra alle fragole. - 
        - Davvero squisito. – Astrel  fece scorrere la lingua fra le labbra.
        - Mi hai baciato per  assaporarlo? –
        - Mm, non solo per quello. - Tra  noi era scattata una scintilla, un trasporto folle e vibrante di passionalità. 
        - Non ho mai visto una ragazza  così bella. – Mi sussurrò, avvolgendomi tra le sue braccia con pura dolcezza.
        - Forse, perché in quest’istante  non puoi specchiarti da nessuna parte.-
        - Possiedi uno charme  particolare, Svetlana. Avrò visto tantissime ragazze dagli occhi cerulei, ma  soltanto i tuoi possiedono le cromature di un lago ghiacciato in uno sguardo  caldo come l’estate. - La sua poesia mi conquistò ancora. Dolce e autentica  come di rado la gente sa essere, quella ragazza mi donò nuove emozioni,  sentimenti intensi e vivi, che da sempre decoravano le pagine del mio diario  come utopiche fantasie, sogni ineffabili taciuti perfino al pensiero. Astrel si  alzò dalla panchina rabbrividita, manifestando il desiderio di far ritorno in  un luogo caldo.
  – Sbaglio, o la direttrice ha  detto che tu avresti dovuto insegnarmi “ le regole vigenti nel vostro istituto”  ? - Mettendomi in piedi anch’io, pronta a imboccare la strada del ritorno,  risposi. 
  – Beh, non c’è modo migliore  d’apprendere una regola se non infrangendola. -
        - Dunque, devo trarre che  baciare una ragazza sia vietato. -
        - Vietatissimo, ma non nutro  rimorsi per aver eccettuato la regola. -
      
        11 Il primo giorno al Majakovskij
      Mosca si svegliava nel candore  della neve mentre tiepidi raggi solari la baciavano di luce. Il Moscova fluiva  lungo il corso del suo letto, adorno di ghiaccio e di gelo. L’imminente arrivo  della stagione invernale si celebrava tra i fumi dei comignoli. Al pianoterra  del Majakovskij, allievi e docenti affollavano i corridoi con caotica frenesia,  pochi minuti ancora, e il suono della campanella avrebbe sancito l’inizio della  prima ora. Astrel si aggirava raminga barcamenandosi tra la folla. L’ansia da  primo giorno le divorava lo stomaco a morsi. L’aula di storia doveva trovarsi  oltre una di quelle porte sulla destra, che si susseguivano contraddistinte da  lettere. Astrel sapeva che la sua prima lezione si sarebbe svolta nell’aula con  la lettera G, ma la giovane non riusciva a ricordare la corrispondente  cirillica, e per ben tre volte entrò nelle classi sbagliate beccandosi le burle  di chi la considerava un’analfabeta. Esasperata gettò per terra lo zaino e si  arrestò in mezzo al corridoio, mentre la frenesia della mattina le correva  intorno indifferente. I suoi genitori non avevano ancora reclamato sue notizie,  soltanto Willard si era prodigato ad accertarsi che stesse bene, “sii temeraria  e ponderante” le aveva detto, com’era solito raccomandarle. Ciò che Astrel  desiderava davvero in quel preciso istante era esplodere in un fragoroso pianto  e poi correre a perdifiato fino a raggiungere le rive del suo Tamigi, ma  l’unico luogo in cui riuscì ad arrivare quella mattina, fu l’aula di cui era  alla ricerca. Astrel vi entrò solcando l’uscio con ambascia, come se stesse  oltrepassando la frontiera dello stato nemico. L’insegnante non era ancora  arrivata, ma gli studenti sedevano con ordine ai propri posti. Astrel indugiò  davanti all’ingresso, mille sguardi inopportuni le piombarono addosso  annichilendola. La sua presenza destò non poca perplessità. 
        - Ehm, buon giorno, è qui la  lezione di storia? - Chiese la ragazza, tentando di fendere un varco amichevole  nell’ostile silenzio che gli alunni opponevano.  Nessuno le diede risposta, neppure con un leggero cenno del capo. -  Cominciamo bene. – Farfugliò lei angustiata, sedendosi sull’unico banco libero.   Un brusio ovattato si levò da ogni direzione.  La ragazza cominciò a sfogliare un libro velocemente, sapeva d’essere lei  l’argomento che alimentava quel parlottare confuso. Liudmila entrò in classe  esibendosi in una starnazzante chiacchierata al cellulare.
        - E’ un fico da sballo! Entro  domani me lo faccio, giuro.  Ma come ti  salta in mente? Lui non ha occhi che per me. –  Pavoneggiandosi come una cheerleader, la studentessa desiderava  suscitare invidia agli occhi delle altre ragazze, tuttavia, la sua spavalda  eloquenza si spense in modo repentino quando s’accorse che il suo posto era già  occupato.
        - Tu chi diavolo saresti? –  Chiese Liudmila ponendosi di fronte all’intrusa. Astrel sussultò sbalordita.
        - Come? Dici a me? – Liudmila  sogghignò in segno di sprezzo.
        - Scusa, tesoro, ma le tue  chiappe non possono riposare sulla mia sedia. – Astrel fece una smorfia  sconcertata.
        - Non vedo la ragione per cui tu  debba essere così ispida e sarcastica nei miei riguardi. C’è posto per entrambe  in questo banco, dunque puoi sederti, o la mia presenza ti urta? – Liudmila  tentennò spiazzata, non era abituata a dibattere con persone sagaci. 
        - Alzati subito da lì,  sgualdrina! – Schiamazzò con irreprimibile ira.  
        - Liudmila Borisovna! E’ questo  il modo di fare? – Intervenne l’insegnante di storia, appena giunta in classe.  Nel vedere la donna accomodarsi dietro la cattedra, gli allievi si drizzarono  in piedi esibendo rispetto. - Sedetevi pure. – Le sedie scrosciarono in  contemporanea. - Dunque, Liuda, qual è il problema, cara? – Nella voce  dell’insegnate viaggiava un leggero tono di predilezione.
        - Questa cretina ha occupato il  mio posto. – Incalzò la studentessa inviperita. La professoressa osservò  l’ultima arrivata con aria di sufficienza.
        - Non mi sembra di conoscerla,  signorina. – Disse, continuando a ispezionarla.
        - Sono arrivata solo ieri. –
        - Ieri? E’ di Mosca o risiede  nell’Oblast? – 
        - No, vengo da lontano, sono  inglese. – 
        - Ah! La studentessa da Londra,  o meglio: la raccomandata del rettore Stanley. -  Commentò la professoressa, curando le cadenze del suo tono  mordace.
        - Di cosa sta parlando? Io non  sono una raccomandata! - Protestò Astrel con impeto.  L’insegnante finse di non sentire e aprendo il libro alla lezione  del giorno, continuò a denigrare la nuova arrivata con la classe.
        - Credo che oggi incentreremo la  nostra lezione su una semplice parola, la meritocrazia. D’altronde è un termine  che ricorre spesso nel nostro parlare, possiamo impiegarlo in riferimento alle  cariche istituzionali, ai direttori di un’azienda, e in questo specifico caso  agli studenti del Majakovskij. - Quel brusio fastidioso riprese a serpeggiare  fra i banchi – A voi è concesso di seguire le lezioni giornaliere, di  alloggiare in camere confortevoli, e di accedere agli spazi scolastici ed  extrascolastici che l’istituto dispone. Per diventare gli allievi del  Majakovskij, tutti voi avete investito energie e facoltà intellettive per  superare i trabocchetti di un complesso test d’ammissione, tutti, eccetto  quella ragazzina inglese, che con anglosassone freddezza si fa beffe dei vostri  sacrifici. - Una pioggia d’occhi torvi si rovesciò contro Astrel per la seconda  volta, ovunque si girasse, la ragazza scrutava soltanto visi arcigni. Il cuore  cominciò a batterle violentemente, sentimenti d’afflizione e collera  scalpitavano nella sua mente alternandosi in un caotico tumulto.
        - Se davvero vuole saperlo –  inveì provata – è stato mio padre a stipulare accordi con il rettore Stanley,  lui mi ha costretto, lui mi ha gettato in questa fossa di leoni! -
        - Che tu sia stata costretta o  meno, resti ugualmente una privilegiata. - Sentenziò una ragazza dai capelli  rossi, seduta in fondo all’aula.
        - Precisamente.- Approvò la  professoressa di storia – Non importa a nessuno come siano andate realmente le  cose, lei ha giocato sporco, signorina Astrel, e sono certa che da questo  momento il suo inserimento scolastico tracimerà d’ostacoli. - Astrel stava per  replicare, ma l’ansia provocatale dal vaticinio dell’insegnante frenò le sue  parole affogandole in un singhiozzo. Liudmila batté la mano sul banco  sollecitando ancora la sua attenzione. 
  – Allora, tesoro, ti alzi da  sola o devo prenderti di peso e poi sbatterti per terra come un sacco di  patate?– Il turpiloquio dell’allieva, se pur banale e provocante, sollevò una  palpitante risata che coinvolse quasi tutti i presenti. Astrel fulminò la sua  avversaria con lo sguardo, benché avesse un carattere mite e poco avvezzo  all’irascibilità, la situazione in cui si trovava cominciava a spazientirla. 
  – Io non mi muovo da qui. –  Affermò con voce inflessibile. Liudmila  ghignò arcuando le dita. Invasata dall’ira si scaraventò contro Astrel e le  afferrò i capelli per strattonarla via dal suo posto. – Lasciami andare, ho  detto lasciami! –  Gridava Astrel  lottando contro quella presa poderosa. Le manacce di Liudmila sembravano attaccate  alla sua testa con la colla. I ragazzi presenti parvero divertirsi nel vedere  due compagne fare a botte e fra urli incitanti e schiamazzi confusi,  circondarono le due combattenti per godersi meglio lo spettacolo. In classe si  stava svolgendo un vero e proprio match, e a decretare il gong ci pensò la  professoressa di storia. La donna afferrò Liudmila dal giro vita e a fatica la  trasse via dalla sua preda, anche Astrel fu allontanata dalla sfidante, ma  riuscì ugualmente a sferrarle un energico pugno che la colpì dritta a un  occhio. Le due avversarie furono rese inermi, e se da un lato Astrel si era  placata all’istante, dall’altro, Liudmila continuava a scalciare nel vuoto e a  urlare come un’indemoniata.
   – Brutta stronza! Te la farò pagare! Te la farò pagare! –
      12 La cena del mercoledì
      Il titanico orologio della  biblioteca segnava le 19: 30. Nell’ampia sala, a parte me e le interminabili  file di libri, non vi era nessuno.  La  batteria al litio del mio I-pod si era appena prosciugata, impedendo alla soave  voce di Varvara d’allietarmi ancora. Senza la mia cantante favorita, affrontare  la pedanteria delle pagine su cui mi stavo documentando risultava più arduo,  eppure mi adoperai con zelo per completare la ricerca sugli Inuit. Abbandonando  il resto in sottofondo, non mi accorsi che Ivan, un mio compagno di classe, era  appena entrato in biblioteca e si dirigeva spavaldo verso il tavolo in cui  sedevo. I suoi passi pesanti spezzarono la mia concentrazione, mentre lui si  sedeva accavallando le gambe, io richiudevo i libri infastidita  dall’interruzione. 
        - Ciao bambola, stai bene? – 
        Nell’udire quella voce mi venne  il voltastomaco. Ripensai al contenuto del bigliettino sotto la mia porta, il  “galante”mittente si trovava proprio accanto a me. Ahimè, sono già due anni che  Ivan mi sbava dietro. Due anni segnati da continue proposte, inviti hot, e  apprezzamenti scurrili, che di certo non gradivo. Qualsiasi altra ragazza, al  mio posto, sarebbe presto ceduta al quel fascino latino, sciogliendosi sotto lo  sguardo penetrante dei suoi occhi neri, e vibrando nell’incandescenza dei suoi  scultorei addominali. L’avvenenza del giovane studente non passava certo  inosservata, ma non era soltanto quella ad ammaliare le donne. Ivan rapiva con  gli sguardi, seduceva con i gesti, s’insinuava fra i pensieri femminili e si  trasformava nel sogno erotico più proibito, più segreto. Per me le cose  andavano in un'altra maniera. Forse ero l’unica ragazza a non svenire quando  Ivan mi rivolgeva la parola, l’unica che non gli fissa il fondoschiena incantando  lo sguardo come si fa con i ciondoli ipnotici, ma di certo, non ero la sola ad  aver compreso che l’aitante adone era anche uno spregevole maschilista. Per  Ivan le donne erano un po’ come le sigarette, da fumare prima assaporandone il  gusto e da gettare poi, spegnendole con la punta della scarpa.
        - Spiacente, Vanja, ma come vedi  sono impegnata in faccende più importanti. – Lo informai, riaprendo i libri e  inarcando la schiena verso il tavolo.
        - Posso aiutarti io a completare  la tua ricerca, così ti resterà del tempo da concedere al tuo fedele  spasimante. –
        - Piantala, o ti lancio un libro  contro! – Ivan non si scompose è intrigato replicò col sorriso marpione.
        - Beh, non ho un cattivo  rapporto col dolore. – 
        - Che lingua devo usare per  farmi comprendere da te? Vattene e lasciami in pace, è così difficile da  capire? – Sbottai ancora, vistosamente irritata dal suo fare irrispettoso e  triviale.
        - Ok, non agitarti bambola,  altrimenti mi ecciti di più. Ti accontento, vado via, ma stasera, nel caso tu  voglia ripensarci, mi trovi in camera mia tutto nudo, ehm, volevo dire solo. –
        - Va al diavolo! – Gli gridai  esasperata, mentre lui si allontanava lanciandomi un voluttuoso bacio. Pochi  minuti più tardi, la porta della biblioteca si aprì nuovamente. Sta volta mi  ero proprio stufata di quell’idiota! Rivolgendo lo sguardo in fondo alla sala,  m’accorsi che non si trattava d’Ivan, ma di una splendida ragazza giunta da  Londra appena una sera fa. Alla sua vista il mio cuore sobbalzo rinvigorendomi,  più lei si avvicinava, più la tempesta impazzava dentro me. 
  – Posso farti compagnia? –  Disse, quasi timorosa che le rispondessi di no. 
  – Certo che puoi – Il suo volto  fu addolcito da un lieve sorriso, e lieta si sedette, proprio dove Ivan aveva  posato le sue disgustose natiche. Astrel indico i libri che avevo innanzi – Se  stai studiando, non vorrei disturbarti. – 
        - Nessun problema- La  tranquillizzai - ho appena finito. –  Alzandomi  dalla sedia riportai i libri al proprio posto. Astrel si strinse nel suo  maglione bianco e mi osservò salire la scaletta di legno per raggiungere il  quinto scaffale. 
  – Oggi è stata una giornataccia.  – considerò mestamente.
  – Non è andato bene il tuo primo  giorno di scuola? – M’informai con voce faticata, mentre dall’ultimo gradino  della scaletta mi tiravo sulle punte per combattere il tipico effetto domino  dei libri suggli scaffali.
        - Beh, a parte l’esser stata  presentata ai miei compagni come una raccomandata scansafatiche, e tralasciando  anche che ho fatto a botte con una certa Liudmila, direi pure: un inizio  encomiabile! –
        - Hai fatto a botte con  Liudmila? – Le domandai con enfasi in parte nascosta. – Oh, ti prego, dimmi che  l’hai mandata in ospedale! – Dissi, scendendo con attenzione dalla scaletta,  affinché la iettatura che avevo pronunciato non si ritorcesse contro di me. Astrel  sorrise.
   - Mi spiace doverti deludere, Svetlana, ma questa è la prima volta  che giungo alle mani, e anche se apparirà retorico a dirsi, ha cominciato lei.  -
        - Non è affatto retorico se  stiamo parlando di Liudmila. Non sai quante me ne ha combinate. Ti consiglio di  starle lontana, è una carognetta prepotente. - Astrel annuì, mentre i suoi  aggraziati lineamenti si tingevano di mestizia.
        - Sai una cosa? – Disse, con  l’intento di confidarmi i suoi pensieri. – Ho una gran nostalgia di casa. Mi  manca Londra, e la mia amica Lara, e naturalmente Willard, che a quest’ora  starà preparando il tè. 
        - Non riesci proprio ad  ambientarti qui? -
        - No. E’ tutto così inospitale,  così algido. - Le sue parole nostalgiche riuscirono a penetrarmi in fondo, mi  coinvolsero a tal punto, che provai l’irrefrenabile bisogno di stringerla a me  e rincuorarla. Percepivo quanto Astrel desiderasse ricevere calore umano, era  come se in quel momento la sua anima mi stesse parlando “abbracciami” mi diceva  “ stringimi forte e non lasciarmi mai più, finalmente ti ho ritrovato dolce  metà.”Guidata solo dal sentimento, l’avvolsi con le braccia e chiusi gli occhi.  Com’era piacevole averla vicina, percepire il profumo frizzante dei suoi  capelli, fondersi con la fragranza leggera della cipria al talco. Avvinghiate  in quell’abbraccio, il mondo sembrò sfumarci intorno, le nostre labbra si  toccarono ancora, e tutto riprese ad esser magico esattamente come la sera  precedente. Quanto avrei voluto fermare il tempo, imprigionarlo di nascosto in  uno scrigno segreto, e vedere poi tutti i pendoli bloccarsi a mezz’aria. Il  suono della campana scolastica infranse le mie aspettative, più trillava  echeggiando per la biblioteca, più comprendevo che nulla era in grado  d’arrestare il divenire del tempo, infatti, quel gigante orologio segnava ora  le otto in punto.
   - Cavolo, la cena del mercoledì! – Strepitai ad alta voce.
        - Cos’è la cena del mercoledì? –  Chiese Astrel incuriosita.
        - Una fra le tante ridicole  trovate che la Rosencrans farebbe meglio a risparmiarsi. –
        - Ovvero? –
        - Ovvero, ogni mercoledì sera  pretende che alcuni di noi cenino insieme a lei nel salone principale anziché  in mensa. –
        - A quale scopo? –
        - Prendiamo posto in un tavolo  unico, la preside indice un argomento da dibattere, e gli altri devono  argomentarlo esponendo le proprie opinioni al riguardo. E’ una sorta di  simposio. –
        - Un simposio? Che spasso! Non  che abbia qualcosa contro le serate culturali, anzi. – Precisò Astrel. - ma  credo d’averne abbastanza per oggi. –
        - Sta tranquilla, di rado la  preside ci tedia per più di un’ora, e poi, la tua assenza alla cena  significherebbe un tacito assenso a dissociarti dalla vita scolastica.-
        - Mentre la mia presenza sarà  interpretata come un atto di sfrontatezza, giacché ho la fama d’infingarda  privilegiata. -
        - Vedo che inizi a conoscere la  dialettica di questo collegio. –
        - Già. – Si espresse con sguardo  leggermente assorto. – Però, ciò che davvero mi piacerebbe conoscere sei tu. –
        - Io? – Domandai, visibilmente  lusingata 
        - Beh, dopo quello che è  accaduto ieri sera, io vorrei tanto… - Astrel si mordeva le labbra e  freneticamente agitava le mani, era come incapace di comunicare con me, frenata  da una sorta di pudore che le avvoltolava i fili del ragionamento.  Ruppi il suo imbarazzo con un semplice  sguardo, nell’universo degli occhi niente era impossibile da esprimere.
        - Anche a me piacerebbe  conoscerti meglio, e sono pronta a seguire qualsiasi sviluppo maturerà la  nostra nuova amicizia. –
        Il salone principale del  Majakovskij rappresenta l’angolo pregiato dell’istituto. La Rosencrans l’aveva  ammobiliato seguendo il gusto dello stile vittoriano, curandone i dettagli più  minuti. Al centro della sala, sopra un tappeto intrecciato a mano proveniente  da Marrakech, dominava l’arredamento un massiccio tavolo di forma ovoidale in  legno d’acero. Nella parte ovest della sala, un salottino in velluto rosso  cocciniglia circondava il grande caminetto di travertino. A rendere l’ambiente  intimo e raccolto, contribuivano le sfumature giallo ocra sulla carta da  parati, finemente abbinate al bordeaux del tendaggio. L’anziana direttrice  amava l’eleganza classicheggiante di quel luogo, per tale ragione ne preservava  la compattezza limitandone l’accesso. Nell’arco settimanale che precedeva il  mercoledì, il salone restava un luogo solitario e immerso nel silenzio. Solo  alla polvere che si depositava sui cimeli era consentito l’accesso. Il  mercoledì sera lo scenario si rivoluzionava. Le voci dei ragazzi, il via vai  dei camerieri che facevano scrosciare le stoviglie sui carrelli portavivande,  lo scoppiettio dei ciocchi dentro il camino e il profumo delle pietanze che  imprimevano le stoffe dei tendaggi, tutto brulicava di vita. Liudmila sedeva  composta al tavolo, stando ben attenta che i suoi gomiti non si poggiassero per  sbaglio sulla tovaglia di fiandra. Paziente attendeva che il resto dei  commensali prendessero posto. Alla cena del mercoledì lei giungeva sempre con  mezz’ora d’anticipo rispetto all’orario previsto, in modo da esternare alla  direttrice il suo spiccato interesse per l’appuntamento settimanale. In realtà  la studentessa odiava dover consumare una cena in compagnia della Rosencrans,  stava male alla sola idea di vederla masticare a bocca aperta con la protesi  dentaria che di tanto in tanto veniva giù. Malgrado l’abominevole spettacolo  cui sapeva andare incontro, Liudmila sedeva sempre accanto all’anziana donna,  approfittando del fatto che nessuno volesse farlo. Per ingannare l’attesa, la  giovane estrasse il cellulare dalla tasca e cominciò a messaggiare con un  ragazzo da poco conosciuto.
  - ci vediamo in camera mia alle  22: 00, entra dalla finestra, è aperta. - 
        Era questo ciò che aveva scritto  nel suo sms. La campana della scuola emise un altro trillo, stava a indicare  che i “prescelti” per la cena dovevano affrettarsi a raggiungere il salone  principale, prender posto e dare una lettura veloce ai  depliant che esponevano il tema della  serata. Liudmila distese accuratamente il tovagliolo sulle gambe, e  avvicinandosi con la sedia al tavolo si mise alla ricerca di una vittima,  qualcuno da irridere per semplice diletto. Di solito puntava il mirino contro  le ragazze del primo anno, in particolare quelle timide e diligenti, loro non  erano capaci di risponderle per le rime, e ciò le facilitava il gioco. Liudmila  adorava farsi beffe delle altre persone, prenderle in giro e ridere di loro.  Era una pulsione che doveva soddisfare a tutti costi, una sorta di droga senza  la quale andava in astinenza. Solo enfatizzando i difetti altrui, lei riusciva  a placare quell’insanabile complesso d’inferiorità che tanto la tormentava. Quando  mi vide attraversare il salone insieme ad Astrel, sobbalzò sulla sedia  facendosi infima, la sua preda ideale era appena giunta, e di certo la  litigiosa studentessa non l’avrebbe lasciata scappare, non dopo ciò che era  accaduto durante l’ora di storia. Nel momento in cui le passammo vicino, notai  il suo occhio tumefatto. Liudmila tentava di occultarlo dipanando alcuni ciuffi  sulla fronte, ma bastava un movimento del capo affinché le tornasse in risalto.  “ Quel cerchio violaceo dovrebbe servirle da lezione.” Pensai.
        - Eccola arrivata, la nostra  cara compagna inglese. – Esordì Liudmila magnetizzando l’attenzione dei  presenti. Astrel non replicò e indifferente si sedette al mio fianco. - Che c’è,  hai paura di prender posto vicino a me?- Continuò lei, divampando rivalsa -  Temi che ti possa tornare il colpo che m’ hai inflitto all’occhio? – Astrel la  snobbò ancora, disattendendo le sue puerili istigazioni. - Tanto meglio.  Detesto mischiarmi con le puttanelle anglosassoni. – Gli occhi dei presenti  gravarono sbigottiti su Liudmila, ma la studentessa non provò la benché minima  soggezione. Un quartetto di ragazze, che ciarlava fittamente innanzi al camino,  esplose in un fragoroso sghignazzo. Una fiamma impetuosa si accese in me  cominciando a scorrermi nelle vene, raramente quella sciocca riusciva a farmi  perdere la calma, ma questa volta era diverso. Non potevo lasciare che la mia  amica venisse umiliata in quel modo, non sopportavo l’idea di vederla soffrire  per degli improperi così pesanti ma allo stesso tempo così infondati. Sentendo  il furore aumentarmi dentro, diedi a quella vipera la risposta che si meritava.
        - Stasera a chi tocca, Liuda?  Chi oltrepasserà il davanzale della tua finestra? Bada bene al tuo privato  prima d’apostrofare gli altri. - Una risata palpitante, come quelle che fanno  da sottofondo ai film comici, si levò fra i ragazzi mettendo Liudmila in serio  disagio. Al Majakovskij la privacy non era di casa, persino i soffitti avevano  orecchie e bocca.
        - Questa me la paghi Svetlana!  Hai capito? – Infuriò lei agitando una forchetta tra le mani. La situazione  sarebbe degenerata ulteriormente, se la direttrice non fosse giunta a  ristabilire l’ordine con un semplice, ma terrifico, schiarimento della voce. Da  tempo avevo imparato a tutelarmi dalle scabrezze del mondo e dalla  spregiudicata malevolenza di persone come Liudmila. Mi ero già trovata in  situazioni analoghe a quella, e con magistrale indifferenza fingevo che nulla  mi potesse scalfire. Agli altri ostentavo un’armatura corazzata capace di  resistere a qualunque attacco, in realtà vivevo ogni singola cattiveria come il  colpo letale di un dardo avvelenato. Ricordo ancora il mio primo giorno al  Majakovskij. Era un martedì di settembre, quando insieme a due ragazzi, facevo  il mio ingresso nella famigerata scuola. Nessuno di noi ricevette una calorosa  accoglienza da parte della Rosencrans, ma io fui l’unica che per sei lunghi  mesi alloggiò in una scomoda stanza di servizio, con l’acqua calda a giorni  alterni, e scarna di qualsiasi altro comfort. Quali le ragioni di un’ ammenda  così severa? Mia zia aveva pagato con ritardo la prima mensilità. Un ritardo  irrisorio, appena due giorni, eppure, alla direttrice parve un pretesto  sufficiente per impartirmi una lezione esemplare. Una volta la settimana  ricevevo una telefonata da New York. M’infastidiva alzare il ricevitore e udire  la voce fredda e meccanica di mia zia, perfino i risponditori automatici dei  gestori telefonici riuscivano a simulare un tono di cortesia più coinvolgente  del suo.
   – Fammi tornare a New York! Ti prego, zia, non mi trovo bene qui,  quella donna mi odia e io non so cosa fare. - Mille volte avevo pronunciato  queste parole fra le lacrime, ma dall’altro capo udivo soltanto la linea cadere  improvvisamente. Passavo intere notti a riempire il diario di quesiti: perché  la gente che mi sta intorno calpesta i miei sentimenti come fossero erbacce  secche? Perché gli altri possono decidere della mia vita e gestirla a loro  piacimento? Se la libertà esiste, se non è soltanto un’utopia che alimenta  ideali, allora perché a me non è concesso di possederne almeno una parte? Non  sono ancora riuscita a risolvere i miei quesiti, la logica contorta della vita  non è facile da comprendere, eppure, io una cosa l’avevo capita: mi trovavo in  gabbia. Una gabbia lussuosa dalle barre dorate, ma pur sempre barre, sarei mai  riuscita a trovare le chiavi e valicare il confine della mia prigionia? Trascorsa  un’interminabile e pedante ora, la direttrice decretò la fine del dibattito, la  cena del mercoledì era ufficialmente conclusa. Solitamente, la Rosencrans  sfoderava argomenti d’attualità come temi della serata, e spesso ci  interrogavamo sui trend di sviluppo del nostro paese, o sui pericoli insiti  nell’immissione di gas serra nell’aria. Dibattiti d’alto interesse sociale,  questo era indubbio, e probabilmente, ognuno di noi avrebbe avuto maggiore  propensione nell’argomentarli, se la regola imprescindibile non fosse stata:  esprimi il tuo parere soltanto se è conforme a quello della Rosencrans. Come di  consueto, la direttrice non si sarebbe accomiatata da tavola se prima non  avesse espresso il suo malcontento alla cuoca, tacciandola d’aver aggiunto  troppo sale alla stessa pietanza che il mercoledì precedente lamentava esser scipita.
        Celata fra i muri della sua  camera, Liudmila indossava la nuova lingeria di seta. In precario equilibrio su  un tacco vertiginoso, la studentessa si atteggiava in pose sexy e provocanti  davanti allo specchio. - Tu sei una donna fatale, nessuno può resisterti. -  diceva sensualmente a quel riflesso seminudo e un po’ tondeggiante. L’orologio  indicava le nove e quaranta, a breve il suo voglioso partner avrebbe scavalcato  la finestra per strusciarsi nel letto assieme a lei, e al solo pensiero Liuda  avvertiva dei piacevoli fremiti scuoterle l’intimo. Ma quella che si apprestava  a divenire una serata rovente e goduriosa, si trasformò presto in uno smacco.  Proprio come avvenuto la sera precedente, degli insistenti tocchi alla porta  interruppero Liudmila quando era molto, molto impegnata a intrattenere il suo  ospite.
        Le nostre mani si cercarono  vicendevolmente, insieme si legarono in un delicato contatto, lasciando fluire  il carico emozionale che vibrava come uno spirito danzante. I miei passi e i  suoi battevano il pavimento all’unisono, mentre spedite attraversavamo il  corridoio per tornare in camera. La porta dell’aula di scienze era aperta, e  nel momento in cui Astrel ed io vi passammo rasenti, lei si fermò di colpo  perché conquistata da una mappa stellare appesa al muro. Svelta entrò in aula  invitandomi a seguirla. In classe non c’era nessuno, dato l’ orario, e ogni  nostro spostamento produceva un tenue riverbero che riecheggiava fra i muri. La  luce bianca dei lampioni sul cortile s’infiltrava attraverso le finestre. -  Scommetto che v’insegnano a distillare la vodka. – Scherzò Astrel, indicando un  alambicco.  - Quante cose interessanti  qui dentro! -Disse, mentre gli oggetti presenti facevano a gara per stimolare  la sua attenzione. Osservò distrattamente la tavola periodica di Mendeleev  raffigurata col gesso sulla lavagna d’ardesia. Poi s’intrattenne d’innanzi una  teca che preservava riproduzioni d’antichi strumenti. Con entrambe le mani  lambì il cristallo della vetrina e con il volto si avvicinò tanto da lasciarvi  l’alone. Era come se desiderasse trapassare il vetro e ghermire quel vecchio  astrolabio per macchinarlo con giocoso spirito, forse si sarebbe accontentata  della piccola meridiana o del termometro galileiano, pur di manovrarne uno. Infine,  puntò gli occhi su ciò che dall’inizio l’aveva conquistata più del resto, una  gigantografia delle ottantotto costellazioni ufficiali.
        - Wow! – Esclamò - Guarda com’è  bella la Corona boreale! E che mi dici di Pegaso, o della Chioma di Berenice?  Con l’aiuto di una fervida fantasia, i popoli della terra sono riusciti a  disegnare sul firmamento. Dall’emisfero boreale a quello australe, si sono  sbizzarriti nell’unire puntini luccicanti dando vita alle figure più inedite.  Sono in pochi a conoscere la costellazione dell’Orologio o della Macchina  pneumatica. –
        - A cos’è dovuta questa passione  per gli astri? – Le domandai, curiosa di saperne al riguardo.  Astrel mi osservò sorridendo, aveva l’espressione  classica di chi sogna a occhi aperti.
        - Hai mai provato a sdraiarti su  un prato verde in una notte d’estate? -
        - Sì, mi è capitato. – Le  risposi, immaginando il profumo di rugiada e le carezze dei fili d’erba sulle  braccia.
        - Allora puoi comprendermi. Ti  sarai interrogata anche tu sui misteri imperscrutabili del cosmo. C’ è un solo  universo? Se sì, all’interno di cosa si estende? Ma, soprattutto: noi siamo gli  unici ad abitarlo? –
        - Oh, quanto vorrei poterti  rispondere! Forse è inutile porsi delle domande così inarrivabili, sarebbe  saggio rinunciare e ammettere i propri limiti ma, credo che un uomo smetterebbe  d’ essere tale se lo facesse. - Astrel annuì, poggiando una mano sulla cartina.  - E’ piacevole discutere con te. – Commentò, mostrando apprezzamento nei miei  riguardi. – Se anche gli altri adolescenti usassero la tua dialettica forse,  avrei più amici. – Il suo commento mi stupì piacevolmente, di rado la gente  sapeva apprezzare le mie riflessioni e coglierne lo spunto per disquisire con  sagacia, il più delle volte si meravigliavano che persino una ragazza bionda  con le gambe in mostra disponesse di un organo celebrale. 
        - Io cerco soltanto d’ esprimere  i miei pensieri, tento di ricavare un significato a ciò che risulta d’arduo  discernimento. - Replicai con modestia.
        - Capisco. – 
        - Se può interessarti -  Continuai, attratta dall’idea che mi balenava in mente. – All’ultimo piano  dell’istituto c’è un piccolo osservatorio astronomico. Non aspettarti la  stazione di Mauna Kea, però, ci sono due telescopi che arrivano ben oltre i  nostri nudi occhi. –
        - Fantastico! Andiamo a spiare i  pianeti. – Accettò lei, entusiasmata dalla mia proposta.
        L’ufficio della Rosencrans  giaceva al buio. Il ticchettio ritmico dell’orologio a pendolo intervallava il  silenzio dando voce ai secondi con cadenze regolari. Dalla finestra filtrava  una debole luce che illuminava parzialmente la poltrona su cui la preside  tentava di riposare. Un inedito bisogno di raccoglimento l’aveva spinta a celarsi  fra le mura del suo ufficio, ma il tentativo d’isolarsi dal resto veniva  puntualmente invalidato da qualsiasi brusio o scroscio proveniente dall’esterno.  La donna sedeva con lo sguardo perso al vuoto e l’espressione abulica, quasi in  trance. Nella sua mente rimuginava la solita ossessione. Quel vizio insanabile  che voracemente si nutriva del suo patrimonio prosciugandone ogni riserva. La  donna si massaggiò il collo attraverso un movimento breve e rapido della mano,  gravando la pelle vizza della nuca di tutta la sua ansietà. Poi condusse  entrambe le mani alle tempie e socchiudendo gli occhi massaggiò anche quelle. “  Devo porre fine a tutto ciò. Io devo riuscirci. Da domani, non un solo rublo  finirà perduto al gioco.” Quante volte se l’era ripromesso? Ma i suoi nobili  propositi si frammentavano come cristalli innanzi a una partita di black-jack o  a un’invitante roulette. Tentando di scacciare i tormenti, la preside decise di  trascorrere qualche ora al PC per completare un po’ di lavoro arretrato. Dal  corridoio provenivano passi incalzanti che si udivano sempre più acuti, fino a  quando, la direttrice non vide la porta del suo ufficio spalancarsi e Liudmila  entrare con gran foga. La giovane allieva s’accorse che La luce era spenta, in  mezzo al buio intravide la faccia rugosa della Rosencrans, che illuminata dal  monitor, appariva biancastra come quella di uno spettro. La voglia d’insultare quella  vecchia zitella ribolliva in lei come la lava di un vulcano. Ancora una volta  la preside era riuscita a rovinarle la festa sul più bello, ma adesso la  studentessa si trovava al suo cospetto, e se pur con l’espressione imbronciata  e i vestiti stropicciati, doveva fingersi cortese e riverente. La donna accese  la luce ed esaminò l’allieva con espressione coriacea.
  – Ho interrotto qualcosa,  Liudmila Borisovna? So che non è buona norma assentarsi quando qualcuno ci  viene a trovare, tuttavia, mi urge conferire con lei; temo dunque che il suo  ospite dovrà pazientare.- Liudmila strinse i pugni con veemenza, dalla rabbia  stava quasi per conficcarsi le unghie dentro la carne. 
        - Non c’è problema signorina  Rosencrans, io sono sempre a sua completa disposizione. – Rispose, tradendo la  sua affermazione con una smorfia adirata e risentita.
        - Mi compiaccio. – Affermò la  donna, modellando un sorriso ipocrita. - Desidero sapere se sta svolgendo quel  piccolo favore che le ho commissionato. - Liudmila trasalì in preda al panico.  Spiazzata, realizzò di non possedere un piano preciso e ben delineato da  esporre, così assunse un atteggiamento difensivo.
        - Ecco, come posso spiegare? Per  questo genere di cose occorre del tempo, ed è passato appena un giorno, di  conseguenza io… - Quando la direttrice udì pronunciare la parola “tempo”, balzò  in piedi battendo energicamente la mano sulla scrivania.
   - Santo cielo, Liudmila! - Proruppe alzando il tono della voce. -  Se c’è una cosa di cui non disponiamo, quella è il tempo. - 
        - Lo so, lo so. Comprendo  perfettamente la delicatezza della situazione ma, quella ragazza è qui d’appena  un giorno. Con tutto il dovuto rispetto, signorina Rosencrans, io non sono  capace di operare miracoli. – Liudmila espirò ritrattando la sua posizione. – Ad  ogni modo, se mi concede soltanto una settimana, potrei riuscire a… -
        - Non se ne parla proprio – Troncò  la preside perentoria. – Domani stesso farai in modo che l’intera scuola la  creda una ladra, a te la strategia. -
        - Una ladra! – Esclamò Liudmila  perplessa. – Come posso? – La Rosencrans tornò al suo da fare fingendo che  Liudmila fosse già andata via, e taciturna cominciò a sfogliare alcuni  documenti contenuti in una cartellina.
        - Va bene, ci proverò. – Decretò  la studentessa dopo aver riflettuto in silenzio. – Ehm, se dovessi fallire? –  aggiunse impensierita. La direttrice continuava a lavorare assorta, l’eloquenza  del suo silenzio non poteva travisarsi. Liudmila smise d’intrattenersi e si  diresse verso l’uscita, solo allora la direttrice alzò lo sguardo e concluse  dicendo
   – Sarebbe davvero un peccato istallare delle grate su tutte le  finestre del piano terra, non trova anche lei? -
      13 Due corpi un’essenza
      La luna nuova svelava le stelle  agli spettatori terrestri, anche le più timide scintillavano attraverso milioni  d’anni luce. Insieme ad Astrel salivo la scala che mi avrebbe condotta  all’ultimo piano del Majakovskij, dove grazie ai proventi del signor Stanley,  la Rosencrans aveva allestito un piccolo osservatorio per le lezioni d’  astronomia. Giunte sull’attico ci intrufolammo guardinghe all’interno  dell’osservatorio, non era concesso recarvisi senza un insegnante al seguito,  ma il signor Vyacheslav soffriva spesso di sbadataggine e scordava di serrare  l’ingresso. Una cupola con struttura a spicchi, in lamiera zincata. sovrastava  il basamento circolare della stanza, e grazie al portellone mobile, da me  appena aperto, era possibile scrutare una parte di cielo. Astrel mosse qualche  passo curioso calpestando il pavimento circolare, rivestito da un materiale  ignifugo di colore bianco. Al centro della stanza, un telescopio con montatura  altazimutale non poté che lasciarsi ammirare dagli occhi sedotti della mia  amica, ma quando ella si mosse per raggiungerlo fui costretta a bloccarla.
        - Aspetta, Astrel! – Astrel si  arrestò al mio comando – Guarda lì. – Le dissi, indicandole con la punta del  dito una piccola spia rossa che lampeggiava sulla scrivania, all’interno di un  dispositivo posto tra il PC e un oculare ortoscopico a sei lenti. - L’allarme è  attivo. –
        - Accidenti! – Esclamò lei  delusa, ma non troppo. 
        - Oh Astrel, sono desolata!  L’allarme si può disattivare solo dalla presidenza, e quella strega sarà lì  adesso. Lei sorrise puntando gli occhi al tetto.
   - L’idea di spiare il cielo alla scoperta dei suoi misteri arcaici  mi allettava parecchio, ma questa sera le stelle si vedono benissimo anche ad  occhio nudo. -
        - Sì, ma non è la stessa cosa. –  Replicai sconfitta. Astrel si avvicinò a me e con un gesto delicato mi cinse la  vita.
        - Io credo sia molto romantico  stare qui, non trovi anche tu? -  Sole  in quel luogo buio, al riparo da sguardi indiscreti e intransigenti, la  situazione non poteva che evolversi in un solo modo. Entrambe desideravamo la  stessa cosa, lo volevamo intensamente.   Mi colpì molto la naturalezza e la spontaneità con cui avvenne il tutto.  Non ci fu alcuna esitazione nei nostri gesti, nessuna vergogna né senso del  pudore, solo la complicità di due persone fatalmente attratte. Stringendoci,  cominciammo a sfiorarci in zone proibite. Lentamente prima, con discrezione e  delicatezza, poi con maggiore passionalità.  Le sue mani tiepide viaggiavano pioniere sul mio ventre. Sapevo  dov’erano dirette, sapevo quando si sarebbero fermate, e desideravo soltanto  che giungessero a destinazione. Erano sensazioni così nuove per me, così  insolite. Trasportata com’ero in un'altra dimensione, nella mia mente non c’era  spazio che per quel momento, il nostro momento. I vestiti sparirono presto  dalla scena, cedendo il posto a un contatto intenso. Mi persi in lei così come  fa la falena quando vede la luce, ci gira intorno e poi… si fonde nel suo  bagliore. Sdraiate ora sul pavimento gelido, sentivo il suo cuore battere  forte, la sua pelle soffice strofinarsi con la mia, e finalmente, lei in me nel  profondo. Per un interminabile istante provammo un’estasi divina. Adesso la  passione aveva ceduto il posto alla tenerezza, la sensualità alla dolcezza, i  sospiri intensi a quelli lievi e sussurrati. I nostri corpi nudi, che  abbracciati si regalavano carezze sottili e nascoste, di certo apparirebbero  uno spettacolo triviale e sgradito ai benpensanti del borgo. Perversione, è la  prima parola che userebbero nel descriverci, degrado e devianza sociale,  direbbero anche. A volte mi chiedo perché, perché proprio l’uomo, unico essere del  regno animale dotato di razionalità, finisca sempre per comportarsi come il più  stolto! D’altronde, chi non reputa l’amore un sentimento libero e privo di  confini? Ciò significa che esso va vissuto in totale trasporto e naturalezza,  altrimenti, si rischierebbe di perderne lo spirito magico che lo caratterizza. Eppure,  a dispetto di questo lampante assioma e della sua incontrovertibilità, in ogni  cultura è già stabilito a priori come l’amore debba svolgersi. Si può stare  insieme solo se eterosessuali, molto meglio da sposati, all’interno del  matrimonio si sa, quella scurrilità che si pronuncia “sesso” trova una  collocazione funzionale. Non si può amare una persona che abbia il colore della  pelle diverso dal proprio, e nemmeno chi crede in un altro Dio, è vietato pure  amarsi, se vi è differenza d’età o di ceto sociale. Ci sono modi “giusti”  d’amare, modi “permessi”, modi “normali”. Siete davvero convinti di tutto ciò?  Pensate che il terreno ideale per coltivare l’amore sia una società bigotta e  intollerante? Quella stessa società che chiude occhi e cuore di fronte a guerre  e sofferenze, e si lascia invece scandalizzare da due uomini che vanno in giro  mano nella mano? Io ho scelto un luogo differente per allevare il mio  sentimento, una terra vergine e prospera che porta il nome di libertà. E non  importa se il dazio da pagare è l’intolleranza della gente, i loro giudizi  razziali, e la discriminazione. Nel mio cuore pulsa comunque la gioia,  alimentata dalla tenacia che mi ha spinto a travalicare il confine.
   Il pavimento freddo cominciò a sortire i suoi effetti, forse era  giunto il momento di alzarci e recuperare i vestiti sparsi qua e la intorno a  noi. A volte la sera, prima d’addormentarmi, socchiudevo gli occhi per  fantasticare sulla mia prima volta. L’immaginazione riusciva a condurmi in ogni  luogo: letti soffici, vasche idromassaggio, spiagge esotiche o romantici  chalet. Devo ammettere che un osservatorio astronomico ha un po’ deluso le mie  aspettative, ma in cambio ho avuto lei.
        - Da oggi il mondo è più bello.  – Le dissi, mentre la guardavo rivestirsi.   Gli occhi d’Astrel sbucarono dal pull-over che stava indossando,  vogliosi di ritrovare i miei.
        - Anche per me. – Rispose verace.  Mettendomi in piedi le porsi una mano per alzarsi. 
        - Ti conosco da poco tempo, Astrel,  ma ti reputo una ragazza speciale. -
        - Speciale? – Ripetè lusingata.
        - Proprio così. Sei dolce,  affabile, aperta, e poi, nessuno più di te riesce a comprendermi con uno  sguardo. – Lei annuì serafica, arrossendo appena. - Correggimi se mi sbaglio. –  Continuai, stringendo la sua mano tra le mie - Ma penso ci sia qualcosa in te,  qualcosa che non ti consenta di viver serena come un adolescente dovrebbe. -
        - Esatto. E’ proprio così. – Si  meravigliò lei, quasi convinta che possedessi un’arte divinatoria, e per un  momento mi fece sentire un’indovina al cospetto della sua palla di vetro. - Ora  sei stata tu a capirmi con uno sguardo, mi hai letto l’anima. E pensare che  quello stupido freudiano del mio analista non c’era mai riuscito! -
        - Per certe cose non occorre la  psicanalisi. Cos’è che non va? - Astrel chiuse gli occhi per un momento, una  lacrima calda e veloce le rigò il volto.
   - Sono tante le cose che non vanno, Svetlana, ma… il problema  maggiore è costituito dai miei genitori. Loro non vogliono accettarmi per  quella che sono. -
        - Ti riferisci al fatto - Astrel  annuì ancor prima che formulassi la mia domanda. 
  – Sì, esatto. Credo ti sarai  accorta che i ragazzi non m’interessano più di tanto. – Con un sorriso le  carezzai il viso prosciugandole il segno umido della lacrima. 
  – E allora? Pensi che questo  legittimi i tuoi a rovinarti la vita? A emarginarti o farti sentire  inferiore?  Sai qual è l’unica  differenza tra le persone come noi e gli altri? – Astrel lasciò rispondere me.  – Che noi siamo una minoranza, un universo inesplorato, e la gente ha sempre  temuto ciò che non conosce. –
        - Convengo col tuo pensiero,  Svetlana, ma ciò non li autorizza a fomentare disprezzo nei nostri riguardi.  Nessuno ha il diritto di annoverarci tra i rifiuti della società. Eppure il  mondo ci riserva lo stesso livore che spetterebbe a un delinquente, per non  citare l’opprimente senso di colpa che in base al parere di certi religiosi  dovremmo provare.
        - Senso di colpa! - Replicai  sbottando – Così dovremmo essere noi a martoriarci per colpe inesistenti? E  certi capi di stato? Uomini panciuti dall’aria malandrina, che allegramente  discutono sotto cappelle dorate e si beffano delle conseguenze che le loro  scelte comportano. - Entrambe sospirammo in segno d’impotenza, due ragazze che  nutrivano il medesimo dispregio per le brutture del mondo, non costituivano certo  la condizione necessaria per sovvertirne i connotati.
      
        14 Ladra
      Mille schizzi zampillavano dalla  piscina bagnando il pavimento circostante e rendendolo lucido. Il sole filtrava  dalle ampie vetrate che sovrastavano la piscina e colpendo l’acqua rifrangeva  dinamici riflessi sul tetto di legno. Nella parte bassa della piscina, Astrel  eseguiva gli esercizi d’acquagym insieme ai suoi compagni di classe. L’aria  riscaldata sapeva di cloro e Astrel sentiva già gli occhi bruciare intorno alla  cornea. Dal bordo vasca, la Čechov coordinava i movimenti a suono di  fischietto, sollecitando gli allievi a prestare maggiore impegno.
        - Voglio vedere quelle ginocchia  schizzare fuori, coraggio! – Ripeteva, alternando gli schiocchi delle dita al  fischietto. - Siete lenti! Lenti ragazzini, flosci come cefalopodi. – Nascosto  dietro un’apparente partecipazione, lo sguardo d’Astrel era assente,  completamente altrove. Il suo risveglio quel giorno era stato un po’  turbolento. Aveva aperto gli occhi di botto, disturbata dal suono della sveglia  che non smetteva di trillare, e si era tirata su dal letto credendo per un  momento di trovarsi a Londra. Quando comprese d’essere ancora li, a tre fusi  orari da casa, tornò a sdraiarsi affondando la guancia sul cuscino. – Che ci  faccio qui? – Bisbigliò mentre si raggomitolava fra le lenzuola. – Voglio  andarmene via. – Il suo cuore sobbalzò improvvisamente, quasi le stesse  parlando, quasi volesse ricordarle che andare via adesso, avrebbe comportato la  perdita di qualcosa, o meglio, di qualcuno. 
        Intrufolandosi furtiva nello  spogliatoio femminile, Liudmila si accertò d’essere completamente sola. Fece un  giro veloce delle docce, le tendine erano aperte e dentro non c’era nessuno,  anche i bagni erano liberi. Da lontano provenivano i fischi della Čhecov e il  rumore classico di una massa d’acqua in movimento. La giovane studentessa  comprese di poter agire liberamente, ma doveva fare in fretta. Di fronte a lei,  una panchina colorata era colma di zaini e borsoni, insieme a felpe e scarpe da  ginnastica gettate a casaccio sul pavimento con i lacci che serpeggiavano  ovunque. Liudmila indugiò qualche istante, poi si decise. Con una mossa felina  si avvicinò alla panchina, sollevò uno zaino, e solo dopo aver letto il nome  del proprietario riportato sulla targhetta, v’introdusse quell’oggetto di  sparute dimensioni che stringeva in mano già da un pezzo. Accertandosi d’averlo  nascosto per bene dentro una tasca interna, ripose lo zaino al proprio posto. –  Missione compiuta! – Esclamò a bassa voce. – Non vedo l’ora di mettere in atto  il piano B. – A quel punto, tornò in classe a seguire la lezione e a fingere  che nulla fosse.
  Io e te. 
  Soltanto noi negli abissi segreti  dell’amore.
  Un sentimento ci unisce 
  e la nostra pelle si sfiora.
  Il tuo cuore danza con il mio
  e le nostre anime si fondono.
  Ora posso sentirti in me e averti.
  Finalmente siamo essenza.
        - Forse dovrei cambiare il  finale o aggiungere delle rime. No. Devo riscriverla daccapo. - Sola con il mio  diario, sedevo in un tavolo della mensa scolastica. Il vociare gavazzano degli  altri studenti, tipico dell’ora di pranzo, non riusciva a farmi concentrare.  Magari con l’arrivo della sera, tranquilla nella mia stanza ad ammirare lei che  dorme, sarei riuscita a scrivere con maggiore ispirazione. Il cibo nel vassoio  stava quasi per freddarsi, ma preferivo aspettare Astrel prima d’iniziare a  mangiare. Richiusi il diario accarezzandone la copertina, era rivestita da  soffice ciniglia rosa. Sul frontespizio campeggiava una targhetta di cartone  robusto, appositamente incollata per indicare il nome del proprietario, ma io  scelsi di trascrivervi una frase: vola al di là della neve, tutto ciò  che sarebbe occorso affinché il mondo potesse accettarmi. All’ingresso della  mensa, Liudmila prendeva a strattoni il distributore di bevande, ancora una  volta le aveva fregato i soldi. Con la mano premeva sul vetro speranzosa che la  sua lattina uscisse, ma nulla da fare, quella macchina non voleva saperne. –  Dannazione! – Imprecò inviperita, come sempre bastava un non nulla a farle  perdere le staffe. Inserendo un'altra moneta, Liudmila s’accorse che Astrel era  appena entrata in mensa portando il proprio zaino con sé. Dimenticando  all’istante il suo piccolo inconveniente col distributore, Liuda la seguì con  la coda dell’occhio fino a quando non la vide raggiungere il tavolo in cui  sedevo, e posarvi sopra lo zaino. – Oh, eccoti qui. Adesso capirai cosa  comporta mettersi contro di me. – Liudmila realizzò di star parlando ad alta  voce, e d’istinto si portò una mano alla bocca opponendovi pressione, quasi a  volerla rimbrottare per tanta arbitrarietà. Nessuno aveva udito le sue parole,  ma la studentessa s’imbarazzò ugualmente divenendo paonazza. Incedendo con  andatura raffinata, Astrel imprigionò i miei sensi ammaliandomi col suo fascino  etereo. I suoi occhi cerulei quel giorno possedevano un inedito fulgore, pareva  quasi che tutti i colori dell’oceano si fossero uniti in un soffio di cielo per  renderle omaggio. Il mio umore non poté che migliorare, le pedanti lezioni  mattutine m’avevano reso  neghittosa e  insonnolita, ma ora la mia ambita era di nuovo accanto a me. Quando i nostri  sguardi s’incrociarono, insieme tornammo alla sera precedente. Anche lei stava  rivivendo quel momento, ne ero certa, lo compresi dal gesto d’intesa che mi lanciò,  più eloquente di mille parole.
        - Ciao. – Mi salutò
        - Ciao, Astrel. –
        - Che cosa stavi facendo  d’interessante? – Domandò, riferendosi al diario che avevo appena messo via.
        - Beh, io scrivo i miei  pensieri, traduco in lettere emozioni e sentimenti, mi aiuta ad esprimere ciò  che provo. - Astrel sorrise affascinata e sedendosi di fronte a me rubò una  foglia di lattuga dal mio vassoio.
        - Capisco. Anche a me piacerebbe  farlo, qualche volta ho tentato, ma, difficilmente scelgo la scrittura come  canale comunicativo, io non sono brava con le parole. –
        - Forse non lo sei quando le  stendi sulla carta, ma se le trasformi in voce riproduci il canto delle sirene.  – Astrel apprezzò il complimento e le sue gotte si accesero come rubini. - Sono  convinta che entrambe sentiamo il mondo nella stessa maniera – Aggiunsi.
        - Sì, lo penso anch’io, e se  quel diario è l’emblema del tuo universo, il portale dal quale vi si accede,  non desidero altro che ricevere un invito per poterlo visitare. – La sua  proposta mi provocò una piacevole stretta allo stomaco, condividere con lei la  mia vera essenza, impressa in quel diario, era ciò che più desideravo.
  – Non vedo l’ora di leggerti le  mie poesie!  – Fu la mia risposta seria  e sincera.
        Liudmila si trovava ancora lì,  impassibile innanzi al distributore di bevande, come se gli occhi di Medusa  l’avessero pietrificata. Scrutandosi intorno, notò che la mensa era più  affollata del consueto, non un solo tavolo libero. Tornando a puntare Astrel,  la sua espressione si fece infima. – Oggi è il tuo giorno sfortunato,  carognetta, ti farò passare per una misera ladra. – Ancora una volta il  Super-io di Liudmila non aveva compiuto adeguatamente il proprio lavoro,  permettendo che i pensieri della giovane si palesassero a voce alta. Liudmila  quasi non s’accorse di averlo fatto, in quel momento era assorbita dalla smania  di rivalsa. Eccitazione e preoccupazione altercavano nella sua mente, non  poteva permettersi di sbagliare, altrimenti, la Rosencrans le avrebbe reso la  vita impossibile; la nuova arrivata doveva abbandonare la scuola al più presto,  e questo furto ne sarebbe stato il pretesto.  Al tavolo dei docenti la Čhecov trangugiava una bistecca ai ferri.  Incurante del galateo, mandava giù un boccone dopo l’altro rumoreggiando come  una belva feroce. Liudmila le si avvicinò intenta a  scambiare due parole, ma l’insegnante era troppo occupata a  ingozzarsi per prestarle ascolto. La studentessa la osservava basita, schifata  da tanta ingordigia. Non occorreva una fantasia fulgida per immaginare la  Čhecov nella penombra di una caverna preistorica alle prese con la clava. – Mi  scusi professoressa, se ha cinque minuti…. – Liuda cercava di conquistare  l’attenzione dell’insegnante badando che il suo tono fosse quanto più garbato  possibile, quella donna le occorreva per il suo piano, e l’ultima cosa che  desiderava era mettersela contro facendola spazientire. 
  – Ha qualche problema, Liudmila  Borisovna? La lezione d’aerobica è spostata per le due. – Sbottò la donna,  rabboccandosi il bicchiere di Vodka.  
  – Veramente, non sono qui per la  lezione d’aerobica. – Precisò con un sorriso espansivo. La Čhecov prese a  picchierellare la forchetta sul piatto con ritmo irregolare. 
        - Allora qual è la ragione che  l’ha spinta a importunarmi? – Domandò con lo sguardo magnetizzato dai rimbalzi  bislacchi della forchetta sul piatto di plastica. Liudmila si chinò col capo  verso l’insegnante e intrattenne con ella una breve conversazione, scrutando al  contempo gli altri docenti per sincerarsi che nessuno udisse le sue parole  bisbigliate.
        - Ma come ti balena in mente?  Tutto ciò ha del paradosso! – Liudmila fissò la professoressa di ginnastica con  fare supplichevole, pareva lì lì per genuflettersi e implorare la donna  d’assecondarla. La Čhecov  Storse le  labbra e fece roteare gli occhi, poi si alzò da tavola contrariata,  abbandonando gli ultimi bocconi della sua deliziosa bistecca. Un senso di  pesantezza addominale l’accompagnò fino al centro della mensa, insieme alla  risoluta Liudmila, che l’appressava briosa come un cagnolino scodinzolante.  L’insegnante ghermì con le dita il fischietto che portava al collo e lo  spolverò dagli spilucchi di lana rilasciati dal maglione, poi lo strinse  nell’unto delle sue labbra che sapevano ancora di vodka e aglio. Emise due  fischi acuti consumando tutto il fiato che aveva in gola, decisa a placare il  vociare festaiolo dei presenti, affinché la loro attenzione s’incanalasse sulla  fremente Liudmila. Quando la studentessa s’accertò d’avere tutti gli occhi puntati  su di sé, e pregando affinché quell’istante di notorietà non avesse fine,  esordì mettendo in mostra le sue spiccate doti da commediante. L’espressione  tragica che aveva assunto si accostava bene al tono piangente della sua voce.  - Sta notte mi è accaduta una cosa terribile!  – Esordì, creando un velo di suspense - Mentre stavo dormendo, qualcuno è  entrato in camera mia e ha cominciato a rovistare ovunque. - Liudmila fece una  pausa, sforzandosi di far scendere le lacrime dagli occhi, poi continuò la sua  appassionata recita. - Quando mi sono svegliata, ho trovato a soqquadro ogni  angolo della stanza. Fortunatamente non mancava nulla, tranne un oggetto per me  d’inestimabile valore. – La ragazza si portò una mano al petto per conferire  maggiore patos a ciò che diceva. - Si tratta di un anello; un anello  appartenuto alla mia povera nonna defunta, a cui io ero molto legata. Sono  vivamente dispiaciuta per ciò che intendo chiedervi, ma ho bisogno della vostra  collaborazione se desidero riappropriarmi del mio prezioso ricordo. Dovrete  soltanto aprire gli zaini e mostrarne il contenuto alla professoressa Čhecov,  non che stia accusando qualcuno in particolare, ma sono convinta che il  colpevole sia qui fra noi. –  Liudmila  fu letteralmente attorniata dalle sue compagne, la storia della nonna defunta  le aveva conquistate tutte. A nessuna di quelle ragazze passò per la mente che  la loro beniamina stesse mentendo, e con verace partecipazione tentavano di  consolarla con svenevoli moine.  La  Čhecov rifletteva a braccia conserte. “ Come le può saltare in mente che  l’anello sia in qualche zaino?  Con  tutti i posti che ci sono per nasconderlo? Che razza d’idea è mai questa? ”  Nonostante la professoressa di ginnastica avesse un carattere sospettoso e poco  avvezzo nel rifondere fiducia in soggetti differenti da se stessa, quella volta  non aveva capito di trovarsi coinvolta in un raggiro. Lasciando da parte le sue  considerazioni, l’insegnante decise di assecondare Liudmila, non voleva  incorrere in possibili problemi con la Rosencrans, perché era questo ciò che  sarebbe accaduto se solo avesse contrariato i capricci prepotenti della sua  allieva prediletta. Liudmila fissava tutti noi con sguardo compunto, credo di  non averla mai vista così provata. Ammetto che in un primo momento la sua  arringa mi persuase, aveva mescolato toni misurati e persuasivi, tanto da  stentare a cedere che fosse lei a parlare. Riflettendo, però, qualche dubbio mi  era sorto. Non capivo la sua ostinazione nel voler perlustrare gli zaini di  tutti gli alunni presenti in mensa, se solo quella storia fosse stata vera, lei  stessa avrebbe capovolto l’intero Majakovskij per riappropriarsi della  refurtiva.
        - Secondo me, ha inventato ogni  cosa. Quella lì cerca sempre un pretesto per attirare l’attenzione e creare  scompiglio. – Commentò Astrel, lasciando trasparire quanto di personale vi  fosse in ciò che affermava.
        - Hai ragione, Liudmila adora  stare al centro della scena, più che smania di protagonismo, il suo è un  narcisismo sfrenato. – Le risposi. Dopo un lungo giro d’indagini, la Čhecov  giunse al tavolo in cui sedevamo io e Astrel. Con lo sguardo c’intimo di  prestarle attenzione, e con voce stizzita si rivolse a entrambe. 
  – Aprite le borse voi due, devo  controllare. – Liudmila si sforzava di tenere i nervi saldi, le sue amiche  continuavano ad assillarla con domande petulanti.
        - Sei sicura che non manchi  altro? -
        - Come hai fatto a non  accorgerti che c’era qualcuno in camera? –
        - Al posto tuo, io sarei morta  di paura! – La derubata stava per soffocare, non riusciva a scrollarsele di  dosso. Evadendo con lo sguardo, s’accorse che la Čhecov stazionava al nostro  tavolo e cacciava l’occhio dentro lo zaino d’Astrel.
        - Oh mio Dio! – Esclamò a voce  alta. – Ragazze scusatemi, ma devo proprio andare. – Una volta liquidate le sue  compagne, Liudmila corse ad affiancare la corpulenta insegnate di ginnastica.
        - Non è nemmeno qui. – Concluse  la Čhecov, ormai estenuata di cercare a vuoto. Nel sentire pronunciare tali  parole, Liudmila ebbe un tuffo al cuore, la professoressa non s’era accorta di  quella piccola tasca interna in cui si trovava l’anello. Vedendo il suo  mefistofelico piano sgretolarsi come un castello di sabbia, la studentessa  decise d’intervenire. Con un gesto selvaggio sottrasse lo zaino ad Astrel,  recuperò l’anello da quella tasca, e infine, lo tirò fuori con un sospiro  teatrale. - Eccolo! Il mio anello, sì, è proprio il mio anello! - Quasi tutti  raggiunsero il nostro tavolo, facendo a spintoni per conquistare il posto in  prima fila. La Čhecov era senza parole, letteralmente basita. Di fronte  all’evidenza dovette ricredersi, Liudmila aveva ragione. Un furto rappresentava  un episodio inedito per il Majakovskij, un gesto che non si credeva possibile,  neppure ad opera dei più scalmanati. “ Questa londinese ci sta dando filo da  torcere.” Pensò l’insegnante corrucciandosi in viso. E’ superfluo sottolineare,  che da un insegnante come la Čhecov ci aspettavamo tutti una reazione brutale  ed eccessiva, uno di quegli sfoghi isterici a cui spesso assistevamo, per  intenderci.
        - La professoressa ti farà nera!  – Disse una voce in mezzo alla folla. – Non vorrei essere al tuo posto, Astrel.  – Canzonò un’altra, suscitando qualche risatina.  Purtroppo, nessuno di noi si sbagliò in merito, e di lì a poco, l’insegnante  d’educazione fisica scagliò la sua ira selvaggia contro la povera Astrel. Con  l’ausilio delle sue manacce pesanti, ghermì la ragazza per un braccio  cominciando a strattonarla.
        - Ladra! Non ti vergogni? Sei  qui da due giorni, e già ti metti a rubare. - Più la Čhecov s’infervorava, più  la stretta sul braccio d’Astrel aumentava a dismisura. Il dolore divenne  insopportabile.
        - Mi lasci stare, mi fa male! - La  situazione voltò a favore di Liudmila e la studentessa colse l’attimo provando  a rincarare la dose. 
        - Ora ricordo! - esordì con  atteggiamento battagliero – Questa notte ti ho visto uscire dalla mia stanza.  Hai rubato tu il mio anello, maledetta ladra! - L’evidenza parlava a sfavore di  Astrel, e in una simile circostanza, credere alle fandonie di Liudmila sembrava  l’unica ragionevole possibilità. Io non lo feci. Neppure per un istante dubitai  riguardo all’innocenza della mia amica.
        - Ora basta, Liudmila! Stai  dicendo delle assurdità, Astrel non può aver rubato il tuo stupido anello. –  Strillai incollerita.  Lei replicò  litigiosa.
  – Ah, no? Allora perché si  trovava nel suo zaino? –
        - Sei stata tu a infilarglielo,  è ovvio. – 
        - Il braccio! – Astrel  continuava a gridare di dolore, quella donna era talmente coriacea che avrebbe  potuto piegare il ferro. 
  – Non vede che le fa male? – La  Čhecov non mi prestò attenzione, era furibonda come un rottweiler aizzato alla  lotta.
   – Ci provi gusto a rubare? Sei una cleptomane per caso? - 
        - Non ho rubato nulla. –
        - Smettila di dire sciocchezze,  impudente ladruncola! Come puoi denegare innanzi all’evidenza? -Astrel era  confusa, disorientata, come riuscire a dimostrare la sua innocenza? Ormai si  trovava nella ragnatela che Liudmila aveva tessuto per lei, e uscirne non  sarebbe stato facile.
        - Professoressa, rischia di  spezzarle l’osso! – Schiamazzò un ragazzo tra la folla. L’insegnante di  ginnastica si persuase, e finalmente ritrasse la sua mano grassa e callosa dal  braccio d’Astrel.
        - Ci penserà la Rosencrans a  darti una bella lezioncina. – Disse la Čhecov, articolando le dita della mano. 
        - Questo non mi sembra corretto!  – Protestai istintivamente, poi mi rivolsi a Liudmila – Perché non dici la  verità? Coraggio, ammettilo che è tutta una messinscena.  – 
        - Ma quale verità? Quale  messinscena? – Replicò lei con voce innocente.  
        - Sei una povera vigliacca, solo  un’ignobile come te poteva arrivare a tanto. – Tuonò Astrel con disprezzo. 
        - Ne ho abbastanza di voi tre,  signorine. - Sbraitò la Čhecov esasperata – Recatevi in presidenza, subito! Nel  caso non lo rammentaste, siamo al Majakovskij, non nel postribolo di un  sobborgo. – Liudmila prese a singhiozzare spasmodicamente.
  – Dice sul serio? Intende  mandare in presidenza anche me? Ma io non ho fatto nulla. – Si oppose  frignando.
 
- Credo proprio che mi farò  radiare dall’insegnamento se odo un’altra parola, Liudmila. Adesso filate tutte  e tre. -
15 Incubi senza fuga.
Il vento sferzava le rive del  Moscova increspando l’acqua e trascinando nella sua direzione le sottili lastre  di ghiaccio che galleggiavano sul fiume. Il sole appariva e spariva dal cielo,  portando con sé le ombre degli alberi e degli edifici. Su una sponda del fiume,  Irina camminava da sola calpestando alcune foglie secche. Procedendo spedita  verso la stazione della metro, la ragazza dall’animo struggente sapeva di dover  tornare lì, in quel vecchio magazzino in disuso, adibito da Ivan a luogo dei  piaceri. – Io sono una persona libera, nessuno può costringermi a fare ciò che  non desidero – Ripeteva a se stessa nel vacuo intento di auto persuadersi. –  Andrò da lui e porrò fine a questa storia. – Prima di svoltare per raggiungere  la stazione Paveletskaya, Irina si fermò un istante a osservare il mondo che le  correva intorno. Com’era bella la sua città quando il soffice mantello bianco  l’avvolgeva, e le sfumature rosate del cielo facevan rifulgere il fiume come un  incommensurabile nastro di seta. Quanto avrebbe voluto deliziare di quel  panorama. Concedersi al vento e ai profumi autunnali, udire l’idilliaca melodia  del divenire attraverso i fruscii sussurrati delle frasche. Ormai era  impossibile. Nulla poteva donarle pace. Nella sua mente, soltanto lo spazio per  le ossessioni e i ricordi raccapriccianti. Con aria mesta, la ragazza riprese a  camminare. Adesso guardava al suo passato con malinconia, proprio a quel  passato dal quale era fuggita perché non le piaceva. – La vita di campagna non  fa per me, in mezzo alla steppa c’è troppo silenzio. Ho deciso di partire,  voglio andare a Mosca a studiare. –  Con  queste lapidarie parole, cominciava la lettera che Irina aveva lasciato ai suoi  genitori sul tavolo della cucina, poi era uscita di casa nel cuore della notte,  ed era saltata sulla transiberiana per raggiungere Mosca. – C’è una scuola molto  importante qui, si chiama Majakovskij. Mi hanno ammesso circa un mese fa, voi  non dovrete preoccuparvi di nulla, ho i miei risparmi, e userò quelli per  pagare la retta. – Questo lo aveva scritto nelle corrispondenze successive,  quando Irina era ancora felice: felice per aver realizzato un sogno, felice di  aver conosciuto un ragazzo di nome Ivan. - Lui è molto gentile con me, mi  riempie d’attenzioni e non mi lascia un momento, credo d’essermi innamorata. –  Si concludeva così l’ultima missiva inviata ai suoi genitori, ciò che era  accaduto in seguito, Irina lo aveva tenuto in serbo. Nessuno sapeva di quel  magazzino oscuro, dei materassi vecchi che puzzavano d’umido, gettati per terra  in mezzo agli scaffali. Come spiegare ciò che si prova a sdraiarvisi controvoglia?  A essere il giocattolo di chi ha pagato per averti? A volte ragazzi, amici  d’Ivan pronti a sborsare rubli per divertirsi, altre, sessantenni morbosi con  l’alito pesante e la pelle untuosa.
  La Čhecov ci accompagnò in  presidenza imponendoci di restarvi fino a che la Rosencrans non fosse tornata  dalla pausa pranzo. – Oggi la preside è di pessimo umore, ed io non vorrei mai  essere al vostro posto. – ci informò l’insegnante con un certo sarcasmo che  pareva divertirla, poi uscì dall’ufficio battendo la porta con violenza, per  alcuni secondi i cristalli delle finestre tremarono. 
  – Dannazione a lei! – Imprecò  Liudmila contro la porta che si era appena chiusa. – E’ tutta colpa vostra!  Sono stata derubata e per giunta punita, questo è assurdo, assurdo! – Astrel  inspirò lentamente sforzandosi di non reagire, e come se volesse evadere da  quella circostanza, s’incamminò verso la finestra. Il suo sguardo fugace  cominciò a viaggiare oltre i confini che la vista le imponeva, lì dove  l’immaginazione supplisce a ciò che gli occhi non vedono, le orecchie non  sentono e le mani non toccano, in quel luogo avulso chiamato fantasia, in cui  la gente trova ricovero quando la vita recalcitra e smania come un’animale imbizzarrito.  Il prolungato silenzio di Astrel smorzò in qualche modo i toni pesanti della  situazione, Liudmila continuava a puntarla accigliata, bramosa di attaccare  briga un’altra volta, ma Astrel non smise di ostentare il suo distacco.  Esacerbata, Liudimila si ritirò in un angolo della presidenza, giungendo le  braccia e sbuffando come una bambina capricciosa a cui i genitori non hanno  comprato il gelato. 
  – Brava, fingi pure di non  sentirmi, nemmeno ti conosco e già ti odio.   –
  La voglia di staffilarle una serie  di schiaffi mi struggeva dentro, avrei voluto picchiarla e riempirla d’insulti  fino a farla sparire dalla vergogna, tuttavia, non vi riuscii, forse fu la mia  indole inoffensiva a impedirmelo. Ciò che realmente avevo a cuore in quel  momento, era rasserenare Astrel. Con passo felpato la raggiunsi e accostandomi  al suo fianco scrutai oltre la finestra in sua compagnia, quasi vi fosse un  panorama invisibile che soltanto noi due potevamo ammirare.
  – Ehi, tutto bene? – Le  domandai, preoccupata dall’esagitazione che palesava. Astrel trasalì,  interrompendo il filo dei suoi pensieri. 
   – Tu mi credi, vero? – Mi chiese angustiata e  a voce bassa, poggiandomi entrambe le mani sulle spalle. – Non sono stata io.  Te lo giuro Svetlana. Tu devi credermi, fidati di me! – 
  - Sss - La interruppi,  sfiorando con le dita le sue labbra soffici – Lo so, lo so, anche volendo non  avresti potuto, sbaglio, o abbiamo trascorso l’intera notte insieme? – Astrel  mi regalò un sorriso dolcissimo, ed io lo regalai a lei con la stessa intensità  d’emozioni. – Ho il sonno leggero, Astrel, non v’è battito d’ali che mi sfugga,  figuriamoci se non mi fossi accorta che la mia compagna di stanza si dileguava  con un passamontagna al volto e una torcia in mano! –  Ironizzai, nel tentativo di smorzare la  gravità della situazione. Lei sorrise ancora, e nel suo volto rifulse una nuova  luce, una luce che attraversando il ceruleo dei suoi occhi si fece  incommensurabile, una luce, che mi pervase fin nell’abisso dello spirito.  Sapevo che quello era il momento in cui insieme l’avremmo pronunciato, e le sue  labbra che abbozzavano parole frammentarie mi diedero conferma di ciò.
  - Svetlana io… Sì  ecco, io credo d’essermi-
  La Rosencrans  apparve in presidenza cogliendoci di sorpresa, ad annunciarla neppure il calpestio  dei suoi bassi mocassini sul corridoio. Liudmila sussultò dall’angolo in cui si  era ritirata e smarrita accennò un saluto alla donna, ma in replica non  ricevette nulla. La preside si sedette alla scrivania con aria flemmatica, e  giungendo le mani rese tangibile la superiorità burocratica che la separava da  noi. La magia che aleggiava fra me e Astrel sfumò repentinamente, come una  nuvola di vapore, al suo posto incombette la cruda realtà. - Avvicinatevi al  mio tavolo. – Esordi la donna, mantenendo fisso lo sguardo sui pollici che  roteavano l’uno intorno all’altro. In assoluto silenzio, avanzammo verso quella  scrivania. La direttrice sollevò lo sguardo e ci fisso a lungo con aria  imperturbabile, infine si schiarì la voce e cominciò a parlare.– Qualcuna di voi  avrebbe l’accortezza di spiegarmi che caspita è accaduto in mensa? – Come un  cane che voracemente abbranca il suo osso per non lasciarselo sottrarre,  Liudmila prese la parola al volo. 
  – Signorina  Rosencrans, mi rincresce aver creato il caos, ma la “new entry” della scuola mi  ha rubato un anello questa notte. La direttrice si voltò verso Astrel ed enfatizzò un’espressione di  agghiacciante sbalordimento. Sgomenta da quanta sfacciataggine e sangue freddo  potesse avere Liudmila, intervenni nella discussione con impulsività. 
  – Non è affatto  vero! Liudmila ha inventato ogni cosa. Mi  creda, è la verità. – La direttrice non diede peso alle mie parole, e  rimarcando quell’aria apatica non si scompose di una virgola. 
  - Signorina Astrel,  ha mai sentito pronunciare la parola “reato”? Lo sa che i peggiori delinquenti  cominciano sempre cosi? Prima qualche caramella al negozio d’alimentari, poi  uno o due scippi per strada, e in men che non si dica si ritrovano dietro le  sbarre costretti a restarvi per molto, molto tempo. – Astrel si concesse una  risata nervosa, chiedendosi fino a che punto quella donna credesse a ciò che  affermava.
  – Probabilmente  non ci siamo intesi. – M’intromisi ancora, monopolizzando l’attenzione sul mio  cipiglio. – Astrel non è una ladra. – La Rosencrans sbottò brutalmente. 
  – Adesso basta,  Svetlana Yaroslavna! Ne ho abbastanza del suo atteggiamento da paladina. Non  voglio più vederla impicciarsi in questioni che non la  riguardano, e se la scopro a spendere una sola parola in sostegno di quella squilibrata  d’Irina, le faccio passare i guai! – Liudmila rise beffardamente 
  – Irina! Lo sanno  tutti che è pazza. - Forse era il caso di non replicare alle impudenze della  Rosencrans, ma sapevo che di lì a poco Astrel sarebbe stata punita, decisi  dunque, di perseverare con caparbietà.
  - Perché finge di  non intendere ciò che dico? Andiamo, è illogico che un ladro s’intrufoli in una  stanza con l’intenzione di rubare, ma non porta via né soldi né oggetti di  valore, limitandosi a sottrarre uno stupido anello che fra l’altro non è  nemmeno d’oro. - La Rosencrans corrugò la fronte, il mio discorso filava così  corretto che avrebbe voluto darmi ragione, ma non lo fece naturalmente. La  situazione le stava sfuggendo di mano. Aveva chiesto lei a Liudmila  d’architettare quella messinscena, ma si aspettava che l’alunna benamata avesse  maggiore sagacia nel rendere il tutto verosimile.  Senza saperlo, avevo posto la direttrice in serio imbarazzo, e  ora, la donna meditava a mani giunte sul da farsi. Il suo volto inespressivo non  permetteva alla preoccupazione d’intravedersi, e il suo silenzio prolungato non  lasciava spazio ai buoni pronostici.
  - Quando lei si  rivolge a me, Svetlana Yaroslavna, tiene a mente il concetto di gerarchia? Solo  un folle s’arrogherebbe la superbia di ammendare la direttrice della scuola. -  Ormai mi ero cacciata in un bel guaio, e qualsiasi cosa avessi aggiunto, non  sarebbe servita a mitigare la mia posizione. Ripiombando nel silenzio, la donna  si alzò dalla scrivania e si diresse verso il carrello porta vivande. Dalla sua  collezione di liquori scelse un whisky e ne versò una piccola quantità in un  bicchiere di cristallo. Dopo averne sorseggiato una goccia tornò alla sua  scrivania, e abbandonò il bicchiere accanto al fermacarte. – Ieri mattina ho  contattato un imbianchino, il muro di cinta del cortile ha l’intonaco che viene  giù a pezzi. – Disse, tornando col bicchiere fra le mani. – Considerate le  circostanze, credo sarà divertente per lei trascorrere un bel pomeriggio  all’agghiaccio in compagnia di un pennello. – Un  sorriso sornione modellò le sottili labbra di Liudmila “ Se ha punito Svetlana  così, Astrel è praticamente espulsa dalla scuola. Oh, sono geniale, il mio  piano ha funzionato alla perfezione! ” Pensò, reprimendo a fatica l’entusiasmo.  – Si rivolga al signor Vyacheslav Lavrov, lui le fornirà il materiale  occorrente per tinteggiare il muro, e ora, uscite dal  mio ufficio e lasciatemi lavorare. – Astrel era incredula, letteralmente  sdegnata da tanta cattiveria. 
  – Quello che sta  facendo è vergognoso! – Sbottò, penetrando la Rosencrans negli occhi con una  sfacciataggine estranea al suo carattere. – Sono io la ladra, giusto? Allora  punisca me. – La direttrice rispose dal dispotismo della sua poltrona,  adottando un tono talmente freddo da apparire non umano. 
  – Pare che la  ragazzina londinese accusi difficoltà nel recepire concetti elementari: prendo  io le decisioni all’interno di queste mura, la mia parola è irrefutabile. E  adesso andate fuori dalle scatole! Vi concedo tre secondi per sparire o  incapperete in ben altri guai. – Amareggiata dalla perfidia che incarnava  quella donna, presi Astrel per mano e la condussi verso la porta.
  - Lascia stare, è  solo una vecchia arpia malefica. – Le bisbigliai mentre andavamo via. Prima di  congedarsi, Liudmila si attardò qualche momento fissando la Rosencrans a bocca  aperta. “ Io non capisco. ” Pensò aggrottando le sopracciglia “ La direttrice  cercava un pretesto per espellere Astrel, e ora che ne possiede uno fra le  mani, non ne approfitta ma punisce solo Svetlana. Che diamine passa per la  testa di quella donna? ” Liudmila  stava quasi per muovere la sua obbiezione, era sul punto di sbottare  pretendendo delle spiegazioni che giustificassero quel comportamento illogico,  ma la direttrice le intimò nuovamente d’uscire con un semplice, ma  efficacissimo gesto della mano. 
  Un lungo e fatiscente corridoio  buio, una luce abbagliante in fondo a esso. Sulle pareti riecheggiava l’eco dei  suoi passi incalzanti, mentre il soffio del suo respiro si faceva trafelato.  Col cuore in gola e a gran velocità, Irina saettava verso l’uscita. Voltandosi  con un guizzo della testa, scorse Ivan correrle dietro come un toro inferocito,  era troppo veloce, di lì a poco l’avrebbe raggiunta. 
  – Fermati bastarda! Dannazione  Ira, non fare la stronza, fermati ho detto! - Atterrita, la ragazza cercò  d’accelerare ulteriormente il passo sentendo le forze venirle meno. Tutto  inutile, le possenti braccia d’Ivan l’agguantarono come arpioni, impedendole di  proseguire la sua corsa. Sfiatata, Irina si dimenò e provò a colpirlo, voleva  sferrargli un pugno, centrarlo dritto in faccia per fracassargli il naso. Non  ci riuscì. Ivan era più forte e non si pose scrupoli nell’immobilizzarla spalle  al muro. Ormai in trappola, la ragazza comprese di nulla potere contro il suo brutale  aggressore, e con le lacrime agli occhi tentò invano d’indurgli compassione  implorandolo con indulgenza. 
  – Ti prego lasciami  andare, non voglio entrarci più nulla in questa storia, ti prego Vanja, ti  scongiuro. – Lui la puntava minaccioso.
  – Nessuna può  uscirne Ira, lo sai a cosa vai incontro se tenti di scappare, vero? - Irina  sentì le gambe cedere dalla paura e la voce bloccarsi in gola, nondimeno, cercò  dentro sé la forza per reagire a quelle pesanti minacce.  
  – E tu lo sai a cosa  vai incontro se solo informo la polizia di quello che mi costringi a fare? A me  e alle altre, naturalmente. - Le parole erano venute fuori di getto e senza  mediazioni, mosse da un impulso disperato, lo stesso impulso che aveva spinto  Ira ad affrontare testa a testa la persona che più di ogni altra, riusciva a  farla cadere in un cronico stato di soggezione. Tuttavia, adesso attendeva  timorosa la reazione del compagno di scuola, che preludeva già alquanto  crudele. Ivan sentì un improvviso bollore ardergli il viso. Come aveva osato  una persona insignificante, una semplice “femmina”, apostrofarlo in quel modo?  Il sangue gli ribollì in testa mandandolo in tilt. In preda a un raptus  estrasse un coltello dalla tasca dei jeans, lo fece roteare più volte tra le  mani, e poi, lo punto dritto al collo della ragazza. Inghiottendo  rumorosamente, Irina percepì la fredda lama del coltello lambire minacciosa la sua  pelle. - Non farmi del male. - Fu l’unica cosa che riuscì a dire con un fil di  voce – Ti prego abbassa il coltello. – Continuò. Terrificata dalla minaccia di  una morte prematura, consapevole che Ivan aveva ormai abbandonato ogni facoltà  razionale,  Irina immaginò che quel viso  indemoniato fosse l’ultima cosa che le restasse da vedere.
   – Se solo ti azzardi a riferire mezza parola  agli sbirri, se osi raccontare a qualcuno ciò che ogni notte fate per me, giuro  che ti farò pentire amaramente d’essere venuta al mondo. Nessuno deve sapere,  chiaro? - Irina annuì con un cenno del capo, auspicandosi che il suo compagno  di scuola le permettesse ora d’andar via. Ivan lesse il terrore negli occhi  straziati della ragazza. Sapeva d’impugnare il coltello dalla parte del manico,  e ciò gli donò un piacevole senso d’onnipotenza. - Sai che potrei ammazzarti se  solo lo volessi? Mi basterebbe aumentare la pressione sul tuo grazioso collo  per mozzarti la carotide. E ciò che vuoi, Irina? Morire da sola in un magazzino  desolato, sgozzata come un maiale da macello? Vuoi che il tuo corpo putrefatto  sia rinvenuto nei fondali del Moscova? –
  - No! – Vociò stentorea  la ragazza.
  - Bene, allora vedi  di non farmi incazzare un’altra volta. Devi fare la brava con me, lo sai. – Ivan  ammiccò beffardo e aggiunse. – Questa sera c’è un mio amico che vorrebbe fare  la tua conoscenza, si chiama Nikolaij, e sarà qui per le undici. Osa disertare  l’appuntamento, e ti farò conoscere il lato animalesco del mio carattere. -
16 Un retaggio dal mio passato.
Le nuvole leggere  carezzavano il cielo del tardo pomeriggio disegnando figure che solo la  fantasia poteva decifrare. In piedi in mezzo al giardinetto del Majakovskij,  con le guance semi congelate e le mani sporche d’intonaco, osservavo il lavoro  appena svolto. Il muro di cinta era stato ritoccato in tutto il suo perimetro,  così come stabilito dalla Rosencrans per punire la mia insolenza. Le braccia mi  dolevano tremendamente, dopo aver trascorso un intero pomeriggio a fare su e  giù con un pennello colante di vernice, quasi non le sentivo più. Desideravo  tornare in camera e fare una doccia calda, tuttavia, la panchina vuota alla mia  destra assunse un inedito aspetto invitante, sedermi qualche momento prima di  tornare in camera era ciò di cui avevo bisogno. Attorno a me, sfumature  autunnali e invernali si fondevano all’orizzonte del panorama. Il vento rapiva  le fronde giallognole ai rami delle betulle per danzarvi in vivace armonia, poi  le abbandonava ai loro destini, lasciando che si adagiassero al bianco suolo  per baciarlo di oro. Chiudendo gli occhi sotto la pressante stanchezza,  m’accorsi di quanto silenzio regnava in quel piccolo giardino; nonostante la  scuola fosse a soli due passi dal centro di Mosca, nessun rumore metropolitano  riusciva a penetrare lo scudo silenzioso che vi aleggiava. - Ciao – Una voce  calda e familiare giunse alle mie orecchie. Voltandomi, vidi Astrel raggiungermi  e sedersi sulla stessa panchina malconcia che ospitava me. – Wow! – Esclamò  meravigliata, sotto lo scricchiolio del legno marcio. – Lo hai dipinto tutto da  sola? – Chiese, intuendo quanto la domanda fosse retorica. – Ma, quel muro è  alto un metro e lungo pressappoco altri nove, come hai fatto a pitturarlo in  così poco tempo? – 
  - Lavorando sodo. –  Le risposi con voce ansante. – Il signor Vyacheslav si è prestato più volte ad  aiutarmi, ma ho preferito non farlo incappare nei rimbrotti di quella megera. -Astrel  si fece incupita. 
  – Spettava a me  quest’incombenza, tu non meritavi una punizione così brutale. –
  - Nemmeno tu. –  Replicai, ammirandola, anche con lo sguardo triste era bellissima. – La Rosencrans avrebbe  dovuto punire Liudmila, è soltanto sua la colpa di tutto ciò. - Astrel fece  spallucce rassegnata. 
  – Sua, mia, ormai  non fa alcuna differenza. Tutti qui, mi credono una ladra, e io non posso  dimostrare il contrario. –
  - Io resto comunque  dalla tua parte, hai la mia parola. Qualsiasi cosa accadrà, non sentirti mai  sola. - Astrel rapì la mia mano e la fasciò fra le sue dita inguantate e  tiepide di lana.
  – E’ la prima volta  che qualcuno fa questo per me. Tu mi hai difeso ostinatamente, hai perorato la  causa di una ragazza che conosci da appena due giorni. Non eri obbligata,  eppure lo hai fatto, certa di non ricavarne nulla se non guai. - Ciò che disse  mi addolcì come miele, ancora una volta sentii il desiderio di baciarla e  condurla in me con passione. Astrel accolse le mie labbra e con trasporto m’inebriò  della sua essenza. Baciandola, compresi di provare qualcosa in più che una  semplice attrazione fisica, io mi ero perdutamente innamorata. Sì, amavo  un’altra ragazza, l’amavo davvero. Ultimamente scrivo al diario più del solito, con l’inchiostro imprimo  domande che si sommano caoticamente alle altre già presenti. Ci sono così tanti  quesiti in quelle pagine che una notte ho sognato di sfogliarle al contrario e  di leggervi finalmente risposte esaurienti. Se solo con la realtà si potesse  fare lo stesso! Magari, saprei già cosa mi vieta d’amare una donna, capirei  perché la società non accetta con tolleranza le mie scelte sentimentali, che di  certo, non ledono la salute di nessuno.- Tu sei d’accordo con loro? - Domandai  una volta al diario - Pensi che sia sbagliato innamorarsi di una ragazza? Come  se si potesse scegliere. Certe cose succedono e basta. E poi, ti sembra che io  abbia qualche problema? Forse tu non lo sai, ma le persone ignoranti  considerano l’omosessualità una grave malattia, alcuni genitori consultano i  migliori psicologi nello speranzoso tentativo di “guarire” i propri figli. -  Tutto questo è umiliante per la dignità di una persona, non trovi ? – Tempo fa  presi la metro, dovevo dirigermi al parco botanico. Mi sedetti in fondo al  vagone, casualmente, vicino a due donne sulla quarantina che interloquivano  amichevolmente. Indossavano dei colbacchi di volpe e avevano un marcato accento  del sud. Parlavano del più e del meno, discorsi vaghi che non ricordo, solo una  parte della conversazione mi rimase spiacevolmente impressa. - Tu come  reagiresti se un giorno scoprissi d’avere un figlio omosessuale? - Chiese una  delle due donne, l’altra non rispose, quasi scandalizzata dalla domanda scabrosa, poi, con aria schifata  disse - Oh mio dio! Preferirei mille volte essere la madre di un delinquente  che di un gay. - Di colpo mi voltai verso quella donna e la fissai basita, lei  notò il mio gesto, e quasi volesse sfidarmi, mi punto negli occhi con ironica  commiserazione. - Che c’è? Fai parte del club anche tu? Sei una di quelle? Oh,  non vorrei mai venirti madre. - Lasciandomi senza parole, la donna si alzò e si  diresse verso l’uscita, l’altra la seguì un po’ imbarazzata, e insieme scesero  dal treno che si era appena fermato a una stazione. - Razzista pervertita! - La insultai con tutto il fiato che  avevo in gola, alcuni passeggeri mi osservarono perplessi.  Quest’episodio,  caro diario, lo porto dentro con dolore. Sono convita  che se tu potessi parlare, mi diresti di ragionare con obbiettività, e di  capire che quelle parole sono state pronunciate da una donna stupida e  xenofobica. Converrei volentieri con te, se non fossi certa che in fin dei  conti l’intera società la vede così, soltanto, che alcuni preferiscono  dissimulare i loro sentimenti sotto un infimo velo di perbenismo. In tutte le  popolazioni del mondo, da nord a sud, da est a ovest, la parola “omosessuale”  suscita scandalo e vergogna. E’ come una colpa dalla quale ci si deve redimere,  uno scheletro nell’armadio da tener ben nascosto. E non dirmi che un giorno le  cose cambieranno, che l’uomo imparerà a seguire l’amore ovunque lo conduca  temendo soltanto l’odio, il tempo in cui ciò accadrà, è tanto recondito quanto  l’infinito. –
  17 Diabolica perseveranza
Uscendo dalla  presidenza, la Rosencrans spense la luce e chiuse a chiave la porta. Erano le  ventitré passate, e in mezzo alla penombra del corridoio, la donna contava i  passi che la separavano dal suo elegante appartamento, locato al penultimo  piano dell’istituto. Fra le grinze della mano stringeva un mazzetto di chiavi e  il manico della valigetta porta documenti. Giunta alla scala principale, scorse  una sagoma scura stazionare sui primi gradini. - Chi è là? - Domandò, mentre si  avvicinava alla silhouette per svelarne l’identità. – Liudmila Borisovna! –  Strepitò sorpresa, dopo averne riconosciuto il volto.  – Che cosa ci fa qui? Sa che dopo le nove  pretendo il massimo silenzio, e non tollero di vedere gente a bighellonare per  l’istituto. Torni in camera sua, adesso. - Liudmila fece orecchie da mercante,  e comportandosi come se quell’appassionato rimprovero non le fosse mai stato  posto, inveì contro la donna, dimenticando per un momento chi aveva di fronte.
  – A che gioco stiamo  giocando, signorina Rosencrans? Per quale motivo mi ha spinto a fare una cosa  simile se poi non è servita a nulla? – Strillò, con il viso corrucciato. La  Rosencrans non ebbe alcuna reazione apparente. Il suo sguardo cheto e  imperturbabile strideva con la situazione animata.
  - Non so a cosa si  riferisce, Liudmila. – Disse la donna  con voce apatica. L’allieva indugiò qualche istante prima di ribattere, la  soverchia tranquillità della Rosencrans la inquietava parecchio, quella donna  era perfettamente in grado di gestire le proprie emozioni, per tale ragione le  riusciva così semplice agire in maniera spietata.
  - Sa benissimo a  cosa mi riferisco! -
  - No, non lo so. – Ribadì la donna cominciando a salire le scale.
  - Sto parlando di  ciò che è successo oggi, del furto che mi ha costretto ad inscenare. - La  Preside si fermò con i piedi su due gradini differenti, e poggiandosi sul  passamano si voltò verso l’allieva.
  - E allora? Il suo  piano si è rivelato un fiasco, e lei ne pagherà le conseguenze. - Liudmila  cominciò a frignare e a tirarsi i capelli.
  - Il mio piano era  perfetto! Tutta la scuola ha creduto che quella stupida londinese mi avesse  rubato un anello, e stata lei che ha lasciato il furto impunito. Non è mia la  colpa! - La Rosencrans rise sarcasticamente.
  - Sei proprio  un’inetta, Liudmila. Una persona all’altezza della situazione, non avrebbe mai  congeniato un piano così balordo. Bastava che tu nascondessi soldi in quello  zaino, una somma compromettente, ed io ti avrei subito appoggiato denunciando  un furto di denaro dal mio appartamento. - Un silenzio repentino calò fra le  due. Liudmila incrociò le braccia e meditò a lungo su quella possibilità.
  – E va bene! – disse  infine, ostentando scaltrezza. – Ho sbagliato lo ammetto, ma siamo in tempo per  rimediare. Mi procuri dei contanti e vedrà di cosa sarò capace. - La Rosencrans  sembrava persuasa, ma non lo diede a vedere. 
  - Ci penserò su. - 
  - Dunque… siamo  d’accordo, mi concederà una seconda chance? –
  - Ho detto: ci  penserò su! – Sbottò la preside riprendendo a salire le scale.
18  La Far Dream
Una  settimana dopo.
  Le buie e tranquille acque  dell’oceano Atlantico ospitavano l’imponente sagoma della Far Dream, una  sfarzosa e rinomata nave da crociera, che più volte l’anno salpava da  Southampton alla volta di New York. Il varo del raffinato transoceanico,  avvenuto appena due anni addietro, era riuscito a sfatare tutti gli scetticismi  e le polemiche per ciò che i media definivano “ La rinascita di un mito”, o con  toni più sensazionalisti, “ Il Titanic riemerge dagli abissi ”. Si stentava a crederci, ma salire a bordo della Far Dream  significava tornare al 1912 e rivivere il fascino di un gioiello sfortunato e  dalla vita effimera. - Intendiamo restituire  all’Inghilterra ciò che il mare le ha sottratto. Una volta terminata, la Far  Dream diventerà la precisa copia del Titanic. – Così commentava l’architetto  Charles Chatham ai microfoni della BBC. – A parte le nuove tecnologie  adottate per i sistemi di propulsione e navigazione, lo stile architettonico  della nave rispecchierà in ogni dettaglio quello del celebre transoceanico. Io  e il mio collaboratore stiamo lavorando alla ricostruzione del salone da  pranzo, che realizzeremo in stile Giacomo I, con colonne dorate e suppellettili  in argento. Anche le sale da lettura, decorate con intarsi di madreperla su  pannelli di mogano, faranno fede alle originali. Il tocco finale sarà conferito  dal grande scalone A, uno degli elementi ornamentali di maggior spicco, insieme  al cupolone di vetro che lo sormonterà. – Il revival del Titanic apparteneva un  po’ a tutti, all’orgoglio dei britannici come alla storia della navigazione, ma  quel lusso galleggiante restava un privilegio riservato a esigui facoltosi.  Solo chi poteva acquistarne il biglietto avrebbe aperto le braccia al vento per  farsi immortalare sulla prua della nave, partecipando poi, a un’indimenticabile  festa a tema con abiti d’epoca. L’attuale viaggio della Far Dream volgeva quasi  al termine. Il suolo americano si stagliava all’orizzonte come un lungo nastro  scintillante, spezzando con i suoi bagliori la monotonia della notte. Gli oltre  duemila passeggeri si preparavano a scendere, poche ore di navigazione, e anche  per loro un’esperienza indimenticabile si sarebbe conclusa. Stringendo a sé il  cappotto, Lara passeggiava serenamente sul ponte di coperta. Adesso poteva  respirare una boccata d’aria fresca e scaricare lo stress accumulato durante  una lunga settimana di lavoro a bordo. Il firmamento sovrastava il mare ornando  la notte di magia. Il rumore dei motori si fondeva a quello dello scafo battuto  dalle onde. Poggiandosi al parapetto, la ragazza lasciò che la brezza notturna  le sfiorasse il volto. Osservando New York avvicinarsi sempre più, Lara capì  d’avercela fatta. Era riuscita a scappare dall’Inghilterra, aveva abbandonato  lo zio e le sue botte, e ora, un’infinita distesa d’acqua la separava dal  vecchio continente, dal luogo in cui, anni tristi e dolorosi erano trascorsi  inesorabili. Lì, in mezzo alle lucine metropolitane, una vita nuova e carica  d’aspettative attendeva solo d’esser vissuta, ma prima di raggiungerla, Lara  doveva superare un ultimo e decisivo ostacolo: il controllo doganale. La paura  di non farcela, l’idea di vedere il suo sogno sgretolarsi rapidamente come un  vaso di creta, l’angustiava tremendamente. - Ho diritto anch’io a una vita  migliore! – Protestò impetuosamente, rivolgendosi a un Dio che non credeva esistesse.  - Lo so che c’è l’hai con me, lo so. Se così non fosse, non m’ avresti portato  via i genitori a soli cinque anni, abbandonandomi alle follie perverse di un  porco senza scrupoli. Dov’eri tu quando mi picchiava a sangue, o quando mi  strappava gli slip con la bava alla bocca? - Lara interrupe bruscamente quel  dialogo, in realtà si trattava soltanto d’un monologo, un monologo elegiaco  inscritto nel vento e abbandonato ad esso. – Queste cose appartengono al mio  passato, devo dimenticarle ad ogni costo! – Concluse singhiozzante, per non  piombare in un pericoloso vortice di ricordi. L’odore pungente di una sigaretta  accesa distolse Lara dai suoi turbamenti. Lo chef della nave si era avvicinato  a lei con passo felpato, intento a scambiare quattro chiacchiere di congedo.
  - Ormai manca poco, Lara! –  Esordì, con elegante accento parigino. - Riesco già a vedere la statua della  libertà. - Disse scherzosamente, gettando la sigaretta in mare. Sulla camicia  bianca portava un cartellino plastificato in cui v’era scritto il nome  François, ma il raffinato chef si faceva chiamare Verner. Da molti anni  lavorava in giro per l’Europa, e nel fascino di città come, Varsavia, Vienna,  Budapest e Praga, François amava deliziare i palati più esigenti col gusto di  una delicata arte culinaria. Attualmente cucinava in mezzo all’oceano,  regalando ai passeggeri della Far Dream, banchetti succulenti e imbanditi con  le migliori prelibatezze.
  - Che cosa farai adesso, Lara? -  Chiese François accendendo un'altra sigaretta. - Ti prenderai qualche giorno di  vacanza, prima di tornare a bordo? – Lara esitò un istante, lo chef non sapeva  del suo contratto lavorativo inesistente.
  - No, non credo. Arrivata a New  York ripartirò per Seattle. – Spiegò sbrigativamente.
  - Seattle? Quella vicino al monte  Rainier? Dove Kenneth Arnold disse d’aver avvistato degli ufo? Ho capito! Sei  appassionata di dischi volanti. - Lara sorrise apprezzando l’umorismo dello  chef.
  - No, tutt’altro. A Seattle vive  mio fratello, e ho intenzione di trasferirmi lì con lui. -
  - Hai un fratello? Anche a me  piacerebbe averne uno, o magari una sorella. Purtroppo, i miei genitori hanno  lasciato che restassi figlio unico. – Commentò François, con un retrogusto  d’infantile malinconia. Lara lo osservò comprensiva.
  - In realtà, io e mio fratello  abbiamo due madri differenti, siamo fratellastri, ma a me non piace questa  parola. -
  - E perché mai? – La interrogò  lui.
  - Non saprei spiegarlo, sembra  connotare una forma d’intolleranza reciproca, quella gelosia inconfessata che  ti porta all’odio. Io e mio fratello, invece, ci siamo sempre voluti un gran  bene, anche se abbiamo vissuto in case separate. –
  - In case separate? – Chiese lo  chef, facendosi interessato.
  - Sì - Temporeggiò Lara,  riflettendo su quanto fosse saggio raccontare le proprie vicende a un estraneo.  – Purtroppo, i miei genitori sono morti a seguito di un grave incidente  stradale. –
  - Ah, mi dispiace molto. – 
  - Per mio fratello è andata  diversamente. Lui ha perso soltanto un padre fra le lamiere accartocciate di  quella Mercedes, ed è cresciuto con la madre naturale, mentre io, ho trascorso  l’infanzia con uno zio paterno. –
  – Sono certo che ti avrà  cresciuto come fossi figlia sua. – Disse François, ignaro di quanto le sue  parole suonassero sconvenienti. 
  - Già… - Lara simulò un sorriso  d’assenso, sforzandosi d’apparire credibile, quasi temesse che François potesse  leggerle dentro e scoprire la verità.
  19 Il Gorki Park.
Mosca,  Majakovskij
  Un plumbeo lunedì mattina era da  poco cominciato. Nell’aula di chimica, gli allievi del primo anno svolgevano  taciturni la verifica scritta; dieci minuti ancora, e avrebbero dovuto  consegnare il compito. La professoressa Tatjana Vasilevna Meštrovič, procedeva  lungo la classe accertandosi che nessuno sbirciasse la scheda del compagno a  fianco, il rumore dei suoi tacchi a spillo riecheggiava fra le pareti. Seduta  al penultimo posto con la scheda di verifica seppellita sotto un’infinità di prodotti  make-up, Liudmila piegò più volte un bigliettino di carta, e con un gesto  rapido lo passò alla compagna antistante. La ragazza afferrò il biglietto con  prudenza, nascondendolo dentro la manica del maglione. Quando fu certa che la  professoressa non potesse vederla, lo dispiegò velocemente e lo lesse. Mi sei in debito. Mi devi un favore. Fatti  trovare in biblioteca alle 17: 00, non un minuto più tardi! La ragazza si  voltò verso Liudmila con aria interrogativa.
   – Che cosa vuoi dire? Perché sarei in debito con te? –Le chiese a  bassa voce, scuotendo il biglietto fra le mani.                                     
  - Ne riparliamo più tardi. –  Replicò Liudmila a labbra serrate, con in mano il rimmel blu cobalto che tanto  le faceva gli occhi da cerbiatta. Stringendo la mano d’Astrel sfrecciavo giù  per la scala principale. Erano le quattro del pomeriggio e avevo appena  disertato la lezione di biologia con un fantomatico mal di testa. 
  - Svetlana, aspetta! Non così  veloce. - Senza assecondare Astrel continuai a scendere esortandola a  sbrigarsi.
  - Suvvia, Astrel! Dobbiamo far  presto. Il signor Vyacheslav potrebbe sbucare da un momento all’altro e  scoprirci. - Quasi tutti gli studenti a quell’ora, seguivano i corsi  pomeridiani, la Rosencrans invece, lasciava l’istituto per disbrigare alcune  faccende. Quale momento migliore per abbandonare la scuola senza rischiare  d’esser colti in flagrante? Furtivamente oltrepassammo l’uscita secondaria e  procedemmo con passo circospetto lungo il vialetto laterale, voltandoci più volte  per ispezionare alle nostre spalle. L’ansia ci accompagno fino all’angolo, ma  una volta svoltato, essa si confuse nel caos metropolitano. Le auto avanzavano  sull’asfalto calcando la neve con i pneumatici e tingendola di un sudicio  grigio fumo. I pedoni ai lati delle strade attendevano l’accensione del verde  per schizzare via al ritmo degli impegni personali, mentre parecchi metri sotto  i loro stivali, vagoni brulicanti di gente saettavano  nel buio dei tunnel. Al quadro di un’ordinaria giornata cittadina,  faceva da sfondo un pallido sole che presto si sarebbe addormentato a ponente,  sfumando i colori del giorno come pastelli su carta bagnata. Lungo la Via  Mokhovaya Ulitsa, feci segno a un’auto di fermarsi. Il conducente sulla  cinquantina decelerò accostandosi gradualmente sul ciglio destro della  carreggiata. Premendo un bottone vicino al volante abbassò il finestrino  anteriore e sorrise cordialmente.
  - Buona sera! - Mi salutò. Aveva  un’aria affidabile, e la sua macchina profumava di concessionaria. Dall’interno  proveniva un ameno tepore, e la stazione radio su cui era sintonizzato stava  trasmettendo un pezzo di Varvara, Tayal sneg, il mio favorito, una  ragione in più per salire. Ricambiando il saluto, mi rivolsi all’uomo  chiedendogli se fosse disposto ad accompagnarci al Gorki Park per la cifra di cento  rubli. L’uomo accettò volentieri invitandoci all’interno. Mentre aprivo la  portiera, notai che Astrel esitava a salire mostrando una certa diffidenza.
  - Su, Astrel, andiamo! Questo  signore è disposto ad accompagnarci. – 
  - Ma, lo conosci? – Mi chiese, sperando  che rispondessi di sì. Sorridendo, compresi che Astrel non era conoscenza di  quella tipica usanza moscovita.
  - No, non lo conosco. – Le  risposi con sincerità. – Vedi, qui a Mosca ci sono pochissimi taxi e quando la  gente non ha voglia di prendere la metro, chiede dei passaggi a pagamento. Lo  fanno in tanti, basta accordarsi sul prezzo. – Astrel obbiettò ancora incerta. 
  - Una sorta d’autostop? -
  - Sì, più o meno. – Le risposi,  mentre salivamo in macchina e l’uomo partiva.
  - Che strano, a Londra sarebbe  impensabile chiedere passaggi agli estranei. – Commentò lei, mentre la città  scorreva oltre il finestrino.
  - Forse perché ci sono troppi  autobus a due piani. – Ribattei sorridente. 
  Avvolta nella penombra crepuscolare,  la biblioteca del Majakovskij riecheggiava i torvi silenzi di un’abbazia  gotica. Davanti all’ingresso, alcuni docenti scambiavano considerazioni sulla  didattica colloquiando a voce bassa. Un allievo sedeva sulla scala a libretto  consultando assorto alcuni testi appena prelevati dallo scaffale, affiancato da  un giovane che sgranocchiava biscotti salati. Al centro della stanza un  inserviente dava la cera al pavimento sperando di arrecare il minor disturbo  possibile.  Seduta a un tavolo da  lettura con la lampada pieghevole accesa, Liudmila attendeva che la sua  compagna di classe si presentasse all’appuntamento, e per ingannare il tempo  sfogliava una rivista di moda. La caterva di libri classificati sugli scaffali  poteva offrirle intrattenimenti migliori di un semplice magazine che spiattellava  modelle imbronciate e anoressiche, ma Liudmila sembrava allergica alla cultura,  non riusciva  a coglierne l’importanza.  Soltanto lo shopping la rendeva appagata, o quelle intriganti serate trascorse  a ciarlare con le amiche tra una spennellata alle unghie e l’altra. – Non  capisco perché la gente spreca carta stampando libri, quando potrebbe  impiegarla per stamparvi rubli. – Diceva spesso e stupidamente, guadagnandosi  il benestare di chi la pensava esattamente come lei. Dei passi svelti ed  echeggianti attraversarono la biblioteca creando una sorta di fischio, simile a  quello che accompagna i giocatori di basket nelle palestre. Liudmila li sentiva  sempre più incalzanti, ma non si voltò. Sapeva già che la sua compagna di  classe stava per raggiungerla, soltanto lei poteva calpestare l’eleganza del  Majakovskij con delle inappropriate Converse.
  - Potresti spiegarmi quale  oneroso debito mi lega a te? - Esordì la ragazza, richiamando Liudmila  all’attenzione. – Sappi che io non ti devo alcun favore! – sbottò  perentoriamente. Liudmila si concesse un sorriso mordace.
  - Non mi devi alcun favore? Ne  sei persuasa? -
  - Sì, ne sono assolutamente  persuasa. – Ribatté la ragazza senza farsi intimorire da quell’atteggiamento  bieco.
  - Ebbene, mettiamola così,  carina: c’ero anch’io l’altra sera al Goldman, e ti ho vista quando ubriaca  fradicia ti sei tolta il reggiseno e ti sei messa a ballare su una sedia. - La  ragazza avvertì i muscoli addominali contrasi in uno spasmo virulento che le  troncò il respiro.
  - E con ciò? – Disse,  sforzandosi di non far vacillare la voce.
  - Se ora non mi aiuterai in  quello che ti chiedo, farò in modo che lo sappia tutta la scuola. – La  studentessa rimase di sasso, una repentina sudorazione accompagnò le palpitazioni  del suo giovane muscolo cardiaco.
  - E’ una minaccia questa?  Raccontalo pure a chi vuoi, se non hai le prove per dimostrarlo, gli altri  penseranno che siano i tuoi soliti pettegolezzi. -
  - Chi ti dice che non ho le  prove? – Chiese Liudmila, porgendo alla compagna una busta bianca che aveva  appena recuperato dalla borsa. La ragazza estrasse il contenuto della busta e  lo fissò incredula, oltre dieci scatti la ritraevano ubriaca e svestita mentre  con ilarità danzava attorniata da turisti americani.
  - Oh mio Dio… - Balbettò tramortita.  – Non posso essere io. - Di quella serata le rimanevano pochissimi ricordi,  l’alcol li aveva offuscati in un groviglio intricato di luci e suoni. Le foto  che stava sfogliando supplirono al vuoto di memoria, con fredda obbiettività le  mostrarono un inedito aspetto del suo carattere, dove il senso del pudore era  migrato negli sguardi di chi la osservava. – Come ho potuto spogliarmi davanti  a tutti quei ragazzi? – Si domandò confusa, iniziando a stracciare le foto con  dei movimenti brevi e tremolanti delle mani. Liudmila non la fermò, le permise  di ridurre gli scatti in brandelli.
  - Puoi anche bruciarle se vuoi,  io non sono una sprovveduta, le originali si trovano nel mio PC. -
  - A chi le hai mostrate? – Domandò  la ragazza, consapevole di dover cedere ai ricatti di Liudmila.
  - A nessuno finora. - Rispose  lei osteggiando una flemma che risultava quasi cortese. - E nessuno ne verrà  mai a conoscenza, se tu mi aiuterai in ciò che ti chiedo. –
  - Dunque, non mi resta che  pagare il tuo silenzio? –
  - Vedo che cominci a ragionare.  – Commentò Liudmila, felice di poter piegare qualcuno alla propria volontà.
  - Dimmi che cosa vuoi! – L’asservì  la giovane profondamente umiliata.
  - Ecco, diciamo una mano d’aiuto  per intrufolarmi in camera dell’ultima arrivata, non dovrai far altro che star  di guardia davanti l’uscio, mentre io do un’ occhiata all’ interno. –
  - Ma sei impazzita? – Strillò la  ragazza – Sai benissimo che queste cose non si possono fare, pensa a come ci  punirebbe la Rosencrans se ne venisse a conoscenza! – 
  - Oh, come siamo fifone. – La  canzonò Liudmila. - Hai paura della preside? Allora stai ben attenta, non  vorrei che le tue foto finiscano per sbaglio in mezzo ai suoi documenti. –
  - No, ti prego! Liuda non farlo,  i miei genitori ne verrebbero presto a conoscenza. – La supplicò la ragazza  giungendo le mani come si fa innanzi a un’icona religiosa.
  - Aiutami, è l’unico modo per  evitare che ciò accada. - Concluse Liudmila, con inamovibile fermezza. La  campanella della scuola suonò puntuale alle diciotto. Il suo trillo acuto  indicava la conclusione di tutte le lezioni e accompagnava per circa un minuto  il caos di ragazzi che dalle aule si riversavano nei corridoi. Liudmila uscì  dalla biblioteca con appresso la compagna di classe. La borsa sportiva che  portava a tracolla  conteneva una grossa  somma di rubli, tutti in contanti, tutti vinti dalla Rosencrans al casinò  Arbat.  “ Quando li avrai nascosti in  camera della londinese, io denuncerò la scomparsa del denaro, e farò  intervenire le forze dell’ordine. ” Il piano della preside superava d’ingegno  il suo, e se pur a malincuore, Liudmila dovette ammetterlo a se stessa. Col  senno del poi si pentì di non aver fatto altrettanto quando poteva agire nero  su bianco, a ogni modo, una seconda chance per riscattare il suo errore si  schiudeva all’orizzonte, e la giovane era fiduciosa di potersela cavare  egregiamente. Stringendo a sé la borsa l’allieva si fece strada tra i ragazzi  che congestionavano le scale, e dopo averle salite, s’incamminò per il corridoio  ovest del primo piano; la sua compagna le stava dietro fissandola con sguardo  accigliato. Le porte delle camere si susseguivano monotonamente tra venature di  palissandro e targhette in ottone incise da numeri.  Sui muri i volti d’insigni personaggi storici incorniciati nell’onorificenza  dei quadri, parevano osservare le due ragazze con taciturno dissenso. Liudmila  incalzò il passo fino a che non giunse innanzi all’uscio che le interessava.  Rapidamente cacciò l’occhio in fondo al corridoio per sincerarsi che nessuno  s’aggirasse nelle vicinanze, e con un gesto nervoso inserì una chiave nella  serratura.
  - Chi ti ha dato quella chiave?  – Domandò la ragazza, stazionando accanto a lei con una spalla poggiata al  muro.
  - Questa chiave? Ehm… -  temporeggiò Liudmila – Il signor Vyacheslav Lavrov. E’ la copia che tiene in  portineria. - Concluse frettolosamente dando due giri di serratura.
  - Il signor Vyacheslav Lavrov? –  Ripeté la ragazza con scetticismo. - Così è tuo complice? Andiamo, gliel’avrai  rubata. -
  - Chiudi il becco, dannazione! –  Eruppe Liudmila, muovendo la maniglia verso il basso e aprendo la porta. -  Resta qui e non ti muovere di un solo millimetro. - Ordinò minacciosamente,  dirigendosi all’interno della stanza. Una delicata essenza di talco inebriò le  sue narici, ma lei non si lasciò sedurre e aggrottò il volto quasi fosse uno  sgradevole miasma. La studentessa cominciò a scrutare intorno a sé con subdola  indiscrezione .  L’ordine che dominava su tutto non serbava neppure un angolo al caos, e ciò la  colpì in modo particolare, la sua camera appariva un campo di battaglia al  raffronto. Dal lampadario fissato al centro del tetto, pendeva giù un  acchiappasogni in legno di salice. Le sue piume colorate attingevano vita  dall’aria, e fluttuando su ignoti itinerari animavano il pavimento con ombre  ballerine. Su tutti i vetri delle finestre, farfalle di carta lucida  sfolgoravano in armonica allegria, eclissandosi a tratti nella seta celeste  delle tendine. L’obiettivo precipuo di Liudmila era di trovare un luogo  strategico dove celare il denaro, e sgattaiolare via a lavoro compiuto, ma il  desiderio irrefrenabile di sbirciare all’interno di beautycase e cassetti,  tipico del suo carattere puerile, la costrinse a modificare parzialmente i  piani d’azione. Vittima della curiosità, si diresse verso l’armadio e l’aprì.  Vi frugò come una bambina che ammira di nascosto gli abiti della mamma, e fa un  giro veloce sui tacchi affondandovi i piedi. Poi corse a scartabellare alcuni  giornali stipati sotto la scrivania, ma i periodici che trattavano di scienze e  attualità non potevano interessarla. Infine, si recò nel bagno e cominciò a  giocherellare con i prodotti make-up.
  - Liuda? Devi fare molto? Sono  stufa di aspettare qui! –  Protestò la  ragazza dall’ingresso. Liudmila sussultò, e con le labbra imbrattate dalla  sbavatura di un rossetto uscì dal bagno. Forse era giunto il momento  d’occuparsi del denaro, tuttavia, un portagioie ornato con pepite colorate e  fili in oro, posto su un comodino, suscitò ai suoi occhi un’attrattiva  irresistibile. “ Aprimi.” Sembrava sussurrarle, “Vieni a scoprire cosa si cela  al mio interno ”. Quasi ipnotizzata, la studentessa si avvicinò al portagioie,  e lasciò che le sue mani vi si posassero lentamente. Con entrambi i pollici  premette sulla chiusura a scatto, e una volta apertala, la ragazza sollevò il  coperchio superiore del cofanetto. L’interno del portagioie era rivestito da  elegante raso vermiglio, e tra fermagli e orecchini di vario genere, si  nascondeva un piccolo diario dalla copertina rosa. Liudmila fissò il contenuto  del portagioie con sguardo da predone, come un pirata che brama innanzi a uno  scrigno che tracima dobloni. – Un diario, uno di quelli che non si fanno  leggere a nessuno! – Esclamò eccitata, recuperando il libricino. - Vola al di  là della neve - lesse ad alta voce – Vola al di là della neve? – Si domandò,  del tutto incapace di astrarne il senso. – Cos’è? Un catalogo per i tropici? –  La giovane allieva si accomodò su uno dei due letti, pronta a cacciare il naso  tra le pagine di un diario che non le apparteneva. Nessuno scrupolo le balenò  in coscienza detenendola dal violare i pensieri segreti che quei fogli  custodivano, e avventurandosi nella lettura, s’imbatté in romantiche poesie, in  citazioni famose e in aneddoti di vita. Nulla che fosse degno di ricevere la  sua attenzione. Probabilmente, Liudmila si aspettava una piccante antologia di  pettegolezzi con maldicenze d’ogni tipo, e magari, anche una serie di  stuzzicanti episodi a sfondo erotico arricchiti da minuziose  descrizioni.Tuttavia, procedendo negli scritti, la giovane allieva rintracciò  qualcosa che la sorprese. La sua espressione si tinse di sbalordito sgomento,  più avanzava nelle righe spostando le pupille da sinistra a destra, più  articolava smorfie di sdegnato diniego. 
   – Loro due…- realizzò con gli occhi sgranati dallo stupore. – Non  posso crederci! E’ rivoltante. – commentò, percorsa da brividi di repellenza.  Adesso Liudmila sapeva. Adesso tutto sarebbe cambiato. Il diario, da sempre  emblema di private confessioni, aveva inconsapevolmente tradito, prostrandosi  inerte alla foga di famelici occhi che ne avevan divorato il contenuto. Liudmila  non era una ragazza dalla spiccata perspicacia, di questo nessuno poteva  dubitarne, ma dal basso della sua ingenuità, ella comprese di possedere un’arma  micidiale da scagliare contro la sua acerrima rivale inglese. Il denaro era  passato in secondo piano, quasi l’allieva non rammentasse più di essersi recata  in quella camera con uno scopo determinato; d’altronde, se alla Rosencrans  urgeva un pretesto per cacciar via Astrel dall’istituto, quell’insignificante  diario gliel’avrebbe servito su un piatto d’argento. 
  - Insomma, hai finito? –  Sollecitò nuovamente la ragazza, facendo capolino dallo stipite della porta. Liudmila  annuì alzandosi dal letto. Con un gesto accurato stirò la coperta in modo da  cancellare il suo passaggio, poi trafugò il diario riponendolo nella borsa, e  si allontanò insieme ai rubli.
  Il Gorki Park è uno dei più  famosi e divertenti giardini di Mosca. Sorge proprio sulla riva del Moscova e  si estende per circa tre chilometri. Al suo interno si trova un piccolo luna  park dotato di ruota panoramica, e spesso nell’auditorium del parco vengono  organizzati concerti rock. In estate, le barche che salpano dal molo effettuano  qualche escursione lungo il fiume, in inverno invece, i laghetti artificiali si  congelano completamente, trasformandosi in sconfinate piste di pattinaggio.  Perfino gli Scorpions lo avevano citato in un loro brano “Wind of change”  e lo scrittore Martin Cruz vi aveva ambientato un thriller agghiacciante nel  suo libro dal titolo omonimo. Con l’arrivo della stagione fredda, potevo tirar  fuori dalla scatola i miei pattini da ghiaccio e recarmi al Gorki Park, dov’ero  solita trascorrere interi pomeriggi slittando libera e veloce sulla gelida  coltre che ricopriva le acque dei laghetti. Astrel mi aveva appena confidato di  non cavarsela bene sui pattini, che l’idea d’indossarli le faceva pensare a  tutti i lividi che avrebbe contato sulle ginocchia e sui gomiti, eppure, adesso  si trovava proprio lì, su un’enorme pista ghiacciata, insieme a me e a tanta  gente che desiderava provare l’ebbrezza di planare in tutta libertà.
  – Ti prego tienimi! Sto per  cascare. – Letteralmente avviluppata al mio braccio, Astrel tentava di  mantenere l’equilibrio muovendosi con prudenza. 
  – Andiamo, Astrel, non è poi  così difficile; guarda me e non aver paura di cadere. – Astrel sembrò  persuadersi e con cautela abbandonò la presa sul mio braccio. Vacillante  abbozzò qualche passo scoordinato, sforzandosi di governare i pattini che  indossava ai piedi; due o tre giri di pista, e il suo portamento migliorò  notevolmente. In men che non si dica la paura d’impattare sul ghiaccio divenne  per lei  un ricordo remoto, e se  adesso stringeva forte la mia mano, lo  faceva per un’altra ragione. La pista era colma di gente quel pomeriggio, una  danza irrefrenabile di cappellini e sciarpe colorate che spiccavano sul suolo  bianco. L’aria fermentava di nuovi sapori, con lei vicino, tutto gustava di  zucchero filato. Concedendomi alla verve, liberai il cuore dai fantasmi che lo  tormentavano, e tutte le mie paure, tutte le angosce, le preoccupazioni e la  solitudine che regnavano tiranne, sfumarono d’improvviso quasi non fossero mai  esistite. “Una creatura rinata” è così che mi sarei narrata a qualcuno che me  l’avesse chiesto. Dal cielo bruno, nivei batuffoli discesero al suolo sfiorando  l’aria. Molti pattinatori accolsero i doni dell’inverno approntando i palmi in  aria, Astrel si fermò al centro della pista e ricambiò la carezza delle nuvole  con un dolce sorriso che sboccio tra le sue gote arrossate dal gelo.
  - Sei la mia principessa. – Le  sussurrai, convinta di vivere una favola romantica. Astrel mi condusse a un  palmo dal suo volto.
  - Anche tu sei la mia. – Rispose,  stringendomi le mani e trascinandomi via con lei. Insieme volammo come  libellule, esplorando l’aria e lo spazio che ruotava complice intorno a noi,  fino a quando, l’inesperienza d’Astrel sui pattini le causò una brusca  scivolata che coinvolse anche me. 
  L’impatto con il suolo fu duro,  violento, ma nessuna di noi due si fece male. Una situazione esilarante, per  certi aspetti anche un po’ imbarazzante. E’ con questi termini che in genere si  può descrivere una figuraccia, ma nel ricordo che serbo di quel momento, colgo  solo delle romantiche emozioni. La dinamica “dell’incidente” fu tale, che ci  ritrovammo l’una sopra l’altra, inevitabilmente vicine e strette, fisse negli  occhi come non mai. Stravaccate sul ghiaccio, sentivamo già i vestiti  inzupparsi d’acqua, ma le nostre risate c’impedirono di curarci del freddo.
  - Svetlana? – Pronunciò Astrel,  sfiorandomi la guancia con il suo guanto ricoperto di brina.
  - Dimmi. – Lei mi guardò con  rilucente idillio, come fossi una dea, e per un incommensurabile momento credei  davvero d’esserlo.
  - Svetlana, io credo di… no, non  lo credo, lo sento. Io sento d’amarti. – Tutto languì d’immediato, e il mondo  smise d’orbitarci intorno; suoni, luci, e colori, si ovattarono in un alone  sfocato. Ora il resto non esisteva più. 
  - Tu mi ami, Astrel?- Le  domandai con un sussurro sfiatato, temendo d’aver udito male.
  - Sì, io ti amo. – Ripeté, con  una dolcezza tale, che avrebbe reso in fiore anche gli sterpi. - Prima  d’incontrarti, la mia vita era un puzzle frammentato, un susseguirsi caotico  d’eventi che procedevano senza una coerenza. Ogni giorno mi guardavo allo  specchio e mi domandavo se valesse la pena continuare a respirare un’esistenza  priva di pathos ma con te ogni afflizione tace, e tutto riacquista il suo  brivido vitale; sei la primavera che ha disgelato il mio cuore. - Quali soavi  melodie! Erano dedicati a me quei voli pindarici? A una ragazza così delusa  dalla vita, tanto da considerare l’amore un banale espediente per imbellettare  romanzi?
  - Anch’io ti amo, Astrel. -  Risposi, dichiarando amore per la prima volta. – Sento che tra noi fluisce un  legame inscindibile, qualcosa che ci rende complementari, come in un incastro  perfetto. -
  - Come la luna piena. - farfugliò  lei, protendendo il volto verso il mio con le labbra struggenti di desiderio.  La voglia di fonderci in un lungo e romantico bacio brillò nei nostri sguardi  come la scia di una cometa, ma la gente continuava a slittare anonima in ogni  direzione, e a noi non era concesso vibrare nell’abbraccio di Venere. Avremmo  dovuto compiacere ai canoni del buon costume?   Lasciare che essi spadroneggiassero in noi facendo razzia dei  sentimenti? Piegarci ai dettami di un’indole tiranna sarebbe equivalso ad  assassinare la nobiltà dell’amore e a ripudiare la sublime ambrosia che ci offriva.  Giungendo le nostre labbra ci baciammo con ardore; impudenti contro chi  bofonchiava sbigottito o ridacchiava imbarazzato; noi e soltanto noi, libere e  fiere di godere ciò che nessuno avrebbe mai potuto sottrarci.
  La direttrice Rosencrans sostava  di sbieco al colossale portone del suo istituto. Rattrappita dal gelo serale,  la donna chiuse l’ombrello e lo sbatacchiò dal manico per scrollare via lo  strato di neve depositatovi, poi liberò la mano sinistra dal guanto e scosse  anche il colbacco. Liudmila osservò la scena attraverso una finestra del primo  piano, e spedita corse giù per raggiungere la donna, doveva parlarle  assolutamente. La Rosencrans s’incamminò all’interno del Majakovskij  attraversando l’atrio d’ingresso con andamento lesto; tra le rughe dei suoi  lineamenti palesava la collera per l’ennesima sconfitta al poker. 
  - Signorina Rosencrans?  - La chiamò Liudmila a gran voce, scendendo  anelante l’ultimo gradino delle scale. A tracolla indossava ancora la borsa  sportiva, che appesantita balzava su e giù scontrandosi con i fianchi della  ragazza. La preside si voltò verso l’allieva.
  - Cosa sono questi schiamazzi da  carampana? – La boicotto inarcando la fronte e folgorandola con uno sguardo  truculento.
  - Devo riferirle qualcosa di  molto importante. – Incalzò Liudmila. – Ho trovato un diario nella camera della  nuova arrivata. – Spiegò affannata.
  - Lei ha trovato un diario? Oh,  che romantico! – Replicò la donna con spregevole ironia – Mi parli del denaro  piuttosto, in quale punto della stanza lo ha collocato? – Liudmila approntò il  palmo della mano verso la donna, quasi a volerla interrompere, e galvanizzata  proseguì il filo del suo discorso.
  - I soldi sono ancora qui,  dentro la mia borsa: dopo ciò che ho letto -
  - Come sarebbe? – Proruppe  furente la Rosencrans, ghermendo Liudmila per il collo della camicetta e  strattonandola con impeto. – Io le avevo chiesto una cosa. Una semplice,  elementare, dannatissima cosa! Lei ha osato disobbedirmi. – Liudmila si  divincolò tramortita e indietreggiò vacillando; il viso cremisi della preside  avrebbe terrorizzato la paura stessa. 
  - No, io non le ho disobbedito.  Mi creda, c’è una spiegazione plausibile a tutto ciò. –Si giustificò l’allieva,  tentando di rabbonire l’ira incontenibile della direttrice.
  - Si è scavata la fossa con le  sue mani, Liudmila Borisovna. -Sentenziò la Rosencrans con un infido  ammiccamento.
  - Lei è in errore! – Obbiettò  l’allieva, forte delle sue ragioni. – Sono convinta che cambierà idea dopo aver  preso visione del diario che le mostrerò. – 
  - Prendersi gioco di me la  diletta? Sarebbe un tragico errore provarci, una nefandezza che le farei pagare  amaramente. – Liudmila dissentì in eloquente silenzio.
  - Orbene – Esordì la donna,  decisa a prestare udienza alla giovane allieva - mi delizi con le bazzecole di  questo diario, e implori i santi affinché io non decreti la malaugurata  sentenza di sbatterla fuori dal Majakovskij. – 
20 Fuggiamo
L’autobus di linea della  Mostransavto percorreva con prudenza una solitaria stradina dell’Oblast  moscovita. I fanali anteriori del veicolo illuminavano il sentiero impervio  rifrangendo la luce sulle pozzanghere che riempivano le buche, i pneumatici  solcavano il fango tracciando il percorso. A bordo, i passeggeri dell’ultima  corsa languivano con le palpebre appesantite dalla stanchezza, mentre un  panorama adombrato dalla sera scorreva invisibile oltre i finestrini. Irina  viaggiava in piedi vicino al conducente, rimestando sul posto qualche passo  nervoso. Il suo esile corpo pativa il freddo, ad abbigliarlo soltanto una lunga  pelliccia bianca, null’altro, neppure un discreto slip a proteggerle l’intimo.  L’amico d’Ivan aveva scelto così: tacchi alti e pelliccia. Il pensiero  assillante di esser nuda in mezzo alla gente, causava a Irina un fastidioso  imbarazzo, e nell’angosciata preoccupazione che un bottone potesse tradirla, la  ragazza stringeva forte a sé la pelliccia.
  - E’ diretta a Balashikha,  signorina? – Domandò il conducente a Irina, transitando vigile sulla  balashikhinskoye shosse. Irina si voltò verso l’uomo con gli occhi afflitti, lo  avrebbe supplicato in ginocchio affinché non smettesse mai di guidare.
  - Mi accompagni fino a Omsk,  lontana da lui. Voglio riabbracciare la mia famiglia. -Si sfogò la ragazza,  affogando nel rammarico. Il conducente abbassò il volume alla radio portatile e  scrutò la giovane passeggera dallo specchietto.
  - Come ha detto, prego? - Irina  trasalì meravigliata, non si era accorta d’ aver tradito se stessa pronunciando  quelle parole.
  - Scusi. - disse, inibita dallo  sguardo interrogativo che ostentava il conducente – Sce… scendo alla prossima  fermata, l’ultima prima d’ arrivare a Balashikha. – L’uomo inarcò le  sopracciglia e si fece stranito, per un momento scostò l’attenzione dalla  guida.
  - Intende scendere alla prossima  fermata? – Domandò con l’aria di chi dissentiva.
  - Sì. - confermò Irina.
  - Non sono affari miei, ma,  glielo sconsiglio vivamente. Siamo fuori dal centro abitato, in mezzo alla  vegetazione, e inoltre, circolano tipi sospetti a quest’ora della sera. – La  ragazza avvertì i muscoli contrarsi dalla paura, e con entrambe le mani si  aggrappò a una maniglia; non aveva scelta, doveva obbedire a Ivan e farsi  trovare sorridente a quella fermata quando lui sarebbe passato insieme a un  amico. 
  - Apprezzo il suo interesse –  Rispose Irina – ma non deve preoccuparsi, ho appuntamento con mia sorella e sta  già venendo a prendermi. - Mentì, con le pupille fisse al pavimento. Il  conducente iniziò a rallentare accostandosi gradualmente al ciglio destro della  carreggiata; Irina scrutò la fermata a pochi metri di distanza e un violento  nodo allo stomaco sembrò squarciarla a metà. Il cuore le impazzava dentro il  petto, ora che l’autobus si era fermato completamente, la giovane ricorse  all’effimera tenacia che le restava per affrontare la situazione incombente.  Fino all’ultimo istante sperò nell’anonima compagnia di qualche passeggero, ma  nessuno era in procinto di scendere. Quando le bussole si aprirono in  contemporanea, l’aria gelida irruppe all’interno del veicolo riducendo di netto  la temperatura. Il conducente del mezzo si coprì le orecchie con l’ausilio  della sua sciarpa bordeaux e dopo essersi sfregato i palmi delle mani per  scaldarli, si preparò a riprendere la marcia. 
  - Mi raccomando, faccia  attenzione, signorina. – Irina sostò sul predellino, e voltandosi accennò un  sorriso cordiale al conducente, poi si volse nella direzione opposta e affondò  i tacchi degli stivali sulla neve fresca abbandonando definitivamente  l’autobus. Il mezzo riprese la marcia e a poco a poco si rimpicciolì lungo la  strada fino a sparire del tutto insieme ai fanalini di coda. Adesso Irina era  completamente sola. Alle sue spalle si estendeva una piccola foresta, dove le  betulle svettavano spoglie dominando il resto della flora. La giovane preferì  non guardare in direzione della boscaglia, lì il buio era così fitto che  sembrava volesse inghiottirla. L’unica fonte luminosa proveniva dai neon  istallati sulla pensilina plastificata che faceva da riparo alla panchina del  bus stop. Di fretta Irina raggiunse la panca e vi si rannicchio come una bimba  spaesata. Per esorcizzare la minaccia del buio prese a fissare la luce  biancastra dei neon. Rimase con gli occhi all’insù per circa venti minuti. Ivan  non arrivava ancora, forse non sarebbe più venuto. La neve riprese a cadere,  scivolando soffice attraverso l’aria, come le lacrime sulle guance di Ira.  Quale il male minore? Si domandò la ragazza  col cuore attanagliato dallo sconforto. Era preferibile trascorrere l’intera  notte all’agghiaccio, abbrancata alla panchina come una naufraga in mare aperto?  O soccombere inerme sotto le smaniose voglie di un corpo sconosciuto? Il rombo  incalzante d’un motore la sottrasse ai suoi quesiti. Un’auto si stava  avvicinando alla fermata. La ragazza non ebbe il tempo di mettersi in piedi che  un fascio di luce abbagliante la investì costringendola a strizzare le  palpebre.  Udì i pneumatici sdrucciolare  nel pietrisco e il motore spegnersi, poi due portiere aprirsi al contempo.
  - Allora ci sei! E’ parecchio  che aspetti? – La studentessa riaprì gli occhi e scorse Ivan procedere verso  lei, non era solo, un altro ragazzo fumava addossato alla fiancata dell’auto.
  - Ottima scelta la tua  pelliccia, ma non hai messo il rossetto! – La rimbrottò Ivan alticcio. Irina  rimase seduta senza proferire sillaba, rigida come una corda di violino.
  - Perdona l’attesa, dovevamo  terminare una cosetta. – Spiegò Ivan, lanciando un sogghigno d’intesa  all’amico. – Lui è Alekseij, trattamelo bene. – Disse infine, indicando il  ragazzo che stazionava vicino l’auto. Irina volse lo sguardo verso il giovane e  lo studiò attentamente. Era più alto d’Ivan, fisico nerboruto. Aveva delle mani  robuste, che portava spesso ai capelli per dare una scrollata veloce al  caschetto biondo. La ragazza non poté scorgere il colore dei suoi occhi, eppure  l’immaginava già, verdi come un prato irraggiato dal sole. Ivan cominciò a  sbellicarsi senza una ragione apparante, e brioso scalciava contro la neve  sollazzandosi di gusto. La vodka sortiva effetti immediati su di lui.
  - Alzati da quella panchina,  troietta! – Le ordinò, cominciando a volteggiare su se stesso, sempre più  veloce, fino a che non perse l’equilibrio e stramazzò per terra. Tutto piroettava  come in una giostra, e Ivan accompagnò il caos intonando una canzone dei  Tokio:  Kto ia bez tebia.
  Irina tornò a fissare Alekseij,  nutrendo irrefrenabile la voglia di corrergli incontro e approdare alle sue  braccia. Magari poteva farlo. Lui l’avrebbe protetta da Ivan, le avrebbe  lasciato poggiare il viso sulla sciarpa inebriata di dopobarba. Irina lo fece.  Scattò fulminea incontro al giovane e senza inibizioni si tuffo su di lui.  Alekseij non rifiutò il gesto della ragazza, e delicatamente la condusse a sé  cingendole la vita.
  - Portami via… –   
  Gli sussurrò lei, incrociando  per la prima volta gli occhi d’Alekseij; non si sbagliava, erano proprio di  quel verde acceso.
  - dove vuoi che ti porti? –
  Irina lo ammirò  trasognata, stregata dal fascino principesco  incarnato nei suoi lineamenti. D’ un tratto le parve di stringere un arcangelo  scivolato dal paradiso, o forse, si trovava lei stessa in paradiso. Nulla  poteva separarla da lui.
  Ivan riconquistò l’equilibrio, e  una volta stabile sulle proprie gambe, raggiunse la ragazza correndo. Con  veemenza la sottrasse ad Alekseij, il quale non oppose alcuna resistenza nel  lasciarla andare.
  - Che vuoi, Ivan? –
  Ebbe l’ardire di chiedere.
  Ivan le agguantò la pelliccia  dalle spalline e incuneò le dita infondo al pelo.
  - Tu fai la troia solo quando te  lo dico io! –
  - Io non sono la tua schiava! –  Si ribellò. – Ammazzami se vuoi. Ho barattato la mia libertà in cambio della  sopravvivenza; cosa credi che abbia ancora da perdere, eh? Uccidimi, te ne  sarei grata. – Irina dubitò di sé, certa che il suo carattere gracile non fosse  all’altezza di affermazioni così ardimentose. Smarrita crollò nell’incertezza,  e si rifugiò ancora tra le braccia del suo impavido cavaliere. Fu proprio lui a  tradirla, Alekseij. 
  - Spero che Ivan ti abbia  informato riguardo alle mie preferenze, non indossi nulla sotto il cappotto,  vero? - Irina si allontanò da lui con fare repellente, stordita dalla pugnalata  inflittale. Lo aveva idealizzato a tal punto da infatuarsene, lo credeva leale  e rispettoso, eppure, sapeva che Alekseij era lì per un semplice e unico scopo:  possederla.  - Togliti quella dannata  pelliccia! – Sbraitò Ivan,  poi un  repentino attacco di nausea lo soggiogò, e per dar sfogo al malore si allontanò  di qualche metro. Alekseij avviluppò Irina dall’addome e con inaudita brutalità  la sollevò da terra trasportandola verso l’auto.
  - No! T’imploro. – Lo supplicò  piangendo. - Tu non sei come Ivan, devi lasciarmi libera. – Alekseij non mostrò  la minimale indulgenza per il pianto straziante della ragazza, e imperterrito  la scaraventò sul sedile posteriore della macchina. Irina si scontrò con la  tappezzeria usurata, e nell’impatto la sua pelliccia si sbottonò. 
  - Allora mi hai accontentato! –  Esclamò Alekseij slacciandosi i pantaloni. – sei completamente nuda. - La  giovane decise di reagire, e tempestiva scavalcò il sediolino anteriore  prendendo posto alla guida. Prima che Alekseij riuscisse a impedirglielo, girò  la chiave e avviò la macchina. Le vibrazioni del motore le donarono  un effimero senso di speranza, stava quasi  per partire, avrebbe premuto al massimo l’acceleratore e si sarebbe  allontanata  da tutto, per sempre. Non  ci riuscì. La prontezza d’Alekseij vanificò ogni cosa. 
  - No. – Gridò sconfitta, quando  il giovane la strattonò fuori dall’abitacolo facendola cadere rovinosamente a  terra. Irina batté la schiena contro il suolo nevato,  e dolorante rimase distesa.
  - Che cosa tentavi di fare? Sei  piuttosto maldestra come ladra. – La irrise Alekseij osservandola dall’alto. -  In macchina non ti andava? Bene, vorrà dire che lo faremo qui. – La ragazza  tentò di rimettersi in piedi, ma il corpo palestrato d’Alekseij le piombò a  dosso come un macigno. 
  - Credevo tu fossi diverso, mi  ero illusa che mi avresti protetto. – Singhiozzò la giovane, profondamente  costernata.
  - Taci. – Le intimò lui  palpeggiandola barbaramente. – Ho forse pagato per sopportare i tuoi  piagnistei? E poi non ti capisco: prima mi salti addosso, e ora mi respingi  come fossi un cane rabbioso. – Irina desistette dal supplicare quel verro, e  stringendo i denti consegnò lo sguardo al vuoto.  La furia mascolina d’Alekseij la dominò a lungo, e lei, inerme e  disperata, nutrì il funesto desiderio d’abbandonare il proprio corpo con una  morte imminente. Un’altra sera d’inumana schiavitù trascorse per la studentessa  del Majakovskij. Quando Ivan riprese colore in viso, incassò il resto del  contante che gli spettava, e ringraziò il suo fidato amico Alekseij.
  So che non dovevamo trascorrere  l’intero pomeriggio fuori dal Majakovskij se desideravamo che nessuno lo  venisse a sapere, ma adesso si era fatta sera, e non potendo invertire l’ordine  del tempo, fummo costrette a intrufolarci dalle scale d’emergenza. L’istituto  riposava già da un pezzo, il delicato udito della Rosencrans pretendeva che  tutto dovesse tacere dopo le nove, e quando l’orologio indicava quell’ora, la  scuola si addormentava nella semioscurità. La calma piatta regnava fra le aule  e in mezzo ai corridoi, neppure un lieve rumore o una sillaba impalpabile  interferiva col silenzio sepolcrale. 
  - Stanno dormendo tutti!. Come  possono cedere alle braccia di Morfeo così presto? - Mi chiese Astrel a bassa  voce, percorrendo insieme a me il corridoio del primo piano.
  - Solo una straniera poteva  porsi simile quesito. - Replicai col sorriso fra le labbra. – Mosca non dorme  mai, e sono proprio i giovani a tenerla sveglia; le vecchie bacucche come la  Rosencrans, invece, si affossano nel letto e non sentono più nulla. -
  - Signorina Puskovic! – risuonò  una voce alle nostre spalle. Di colpo ci voltammo verso essa, rigide come  tronchi di quercia. – Ma come debbo fare con voi? Conoscete le regole, caspita!  Niente uscite dopo le nove di sera. – Si lamentò animatamente il signor  Vyacheslav, improvvisandosi arcigno e incollerito, ma l’intransigenza era ciò  che peggio potesse riuscirgli; il suo lato bonario non lo smentiva mai.
  - Signor Vyacheslav Lavrov, noi  -  Indugiai, fiduciosa che una scusante  mi giungesse in soccorso. 
  - Non siamo uscite da scuola, né  stavamo per farlo. – Intervenne Astrel, contrita per l’affermazione mendace. –  Ci siamo recate al piano terra per acquistare una bibita al distributore. - Il  povero inserviente oppose le braccia verso l’alto in segno d’arresa.
  - E temendo che il riscaldamento  si fosse guastato, vi siete imbacuccate per bene, già! –  Concluse lui spiazzandoci. – E’ meglio che vi  ritirate. – ci suggerì. – Di rado la Rosencrans rammenta il significato della  parola “clemenza”. – Entrambe annuimmo riconoscenti, e deliziate da tanta  mitezza salutammo il signor Vyacheslav.
  Tornate nella nostra camera non  accendemmo la luce, per accordare il desiderio d’intimità ci accontentammo  della modesta illuminazione proveniente dall’esterno. Astrel raggiunse  l’armadio e vi ripose gli indumenti pesanti, poi si avvicinò a me e  delicatamente sfilò via il maglione che indossava, rimanendo così in reggiseno.
  - Il mio golf e fradicio, dopo  quella brusca scivolata sul ghiaccio, si è inzuppato per bene. –  Disse, lasciando fluttuare la voce  nell’afrodisiaco tono della sensualità.  Ammaliata, contemplai l’eccellenza delle sue fattezze, e nel buio  scorsi il desiderio arderle negli occhi. Avrei concesso in cambio l’anima pur  di affondare un solo momento nel tepore della sua pelle setosa.
  - Anche il tuo pullover è  bagnato. – Bisbigliò al mio orecchio cingendomi a sé.
  - Sì, è tutto umido... – Le  sussurrai a mia volta, caldeggiandole il gioco. 
  - E meglio se lo togli, non  vorrai farti venire un malanno, vero? – Complice, mi concessi all’estasi  sublime che attingevo dal suo fascino e preda consenziente mi gettai sul letto,  bramando affinché le nostre forme femminili si giungessero. Astrel mi avvolse  nel calore del suo corpo e con un gesto leggero mi tolse il maglione. Con le  dita stuzzicò i miei sensi, mentre i suoi lunghi capelli corvini  s’intrecciavano ai ricami del mio reggiseno. Tutto era perfetto, soltanto noi  due in un’apollinea sinfonia di sguardi e gesti. Nulla sembrava capace d’ interferire  con la sinergia del nostro amore, eppure, un violento scatto alla maniglia rapì  l’una dalla passione dell’altra. D’un tratto la luce si accese nella stanza,  disvelando impunemente la nostra intimità; un trambusto di voci ci stordì come  il rombo d’un tuono.
  - Adesso mi crede? –  Strepitò Liudmila, irrotta in camera nostra  insieme alla Rosencrans.
  - Sono due fottute lesbiche! Io  lo sapevo, l’ho letto in quel diario. – 
  - Dio misericordioso! – Esclamò  attonita la preside, occultandosi la vista con le rughe delle mani.
  - Cosa ci fate qui? – Urlò  Astrel scossa da un fremito. Entrambe guizzammo in piedi, e imbarazzate  tentammo di coprirci usando le braccia. 
  - Sono ripugnanti, mi vergogno  per loro. – commentava Liudmila, girandolando esterrefatta intorno alla stanza.  – Signorina Rosencrans, faccia qualcosa! – La esortò con tono acuto.
  Astrel mi abbracciò invocando la  mia alleanza, e io terrorizzata, la strinsi forte. La direttrice procedette  imperiosa verso entrambe, soppesando con maestranza ogni emozione che le  scorreva sul volto scialbo.  Si fermò a  un passo da noi, mantenendo una postura rigida che si accordava con la gravità  della situazione. Il suo sguardo trucido ci falciò come un’accetta affilata, ma  il manrovescio che scagliò contro la mia guancia fu assai più doloroso. Adoperò  la stessa mano smilza per schiaffeggiare Astrel, contro di lei si accanì per  ben due volte, su entrambe le gote.
  - Baldracche! – Ci offese con  tutto il diniego che potesse provare. – Siete due scostumate, due  sgualdrine!  - Io e Astrel ci stringemmo  ulteriormente, quasi a voler formare uno scudo inespugnabile che ci proteggesse  dagli improperi vigliacchi inflitti al nostro amore. 
  - Signorina preside, cosa  succede? – La Rosencrans si voltò in direzione della porta, e osservò la  professoressa Čhecov esordire in scena con un ingresso imprevisto.
  - Ero in palestra ad allenarmi,  quando ho udito un gran baccano provenire dal piano superiore.– Spiegò  l’insegnante di ginnastica. – Come mai le ragazze sono in reggiseno? – Domandò  poi, incupendosi in viso. 
  - Le ho scoperte io. – Asserì  Liudmila pavoneggiandosi orgogliosa – Leggendo il diario di Svetlana  Yaroslavna  ho appreso della loro  relazione. -
  - Relazione? – Ripeté la Čhecov  con una smorfia bigotta. 
  - Queste debosciate – Intervenne  la Rosencrans accanendo il dito contro di noi – hanno inficiato il buon nome  del mio istituto, ma quanto è vero Iddio, non lascerò che la loro perversione  ricada come un’onta sulla serietà del nostro lavoro. –
  La professoressa Čhecov approvò  persuasa. Da quel momento sarebbe cominciato l’inferno per entrambe, avremmo  pagato amaramente la nostra diversità.   E’ forse una colpa essere felici? Se la propria felicità non va a  discapito della libertà altrui, che male può esserci nel perseguirla? Non è  forse questo il messaggio primordiale della civiltà? Esigo una  spiegazione!  Voglio conoscere la  ragione che fonda il divieto d’amare una persona dello stesso sesso, e pretendo  un chiarimento fondato su basi solide e razionali, lungimirante e ineccepibile.  Invito chiunque a delucidarmi, ma se nessuno ne sarà capace, allora non mi  resta che biasimare e condannare chiunque si opponga alla mia gioia. Cos’è che  tanto vi spaventa? E’ forse il sesso?   Sì, e proprio il sesso ciò che vi atterrisce. Lo giudicate aberrante e  innaturale, vi erigete a esegeti della normalità, quando il concetto stesso di  normalità vi è sempre sfuggito. Amate trincerarvi dietro fittizie anomalie  genetiche o psichiche, che affermate stare alla base di un problema chiamato  omosessualità, e non vi accorgete che la piaga reale consiste nell’intolleranza  che scaturisce dal rigetto del diverso.
  La Rosencrans si avvicinò alla  professoressa Čhecov e Liudmila si unì a loro, quasi volessero marcare un  confine invisibile che evidenziasse il loro ripudio più netto. - D’innanzi a un  simile scandalo – Arringò la Rosencrans come un giudice che da lettura della  sentenza. – sono obbligata ad adottare provvedimenti estremi; la gravità  dell’accaduto è tale, che un’adeguata punizione non può prescindere dall’essere  spietata. – L’anziana donna si rivolse ad Astrel e le parlò con lo stesso  dispregio che si nutre per un omicida. – Le concedo tre giorni di tempo,  signorina Lawless, al decorrere dei quali abbandonerà la mia scuola per non  mettervi più piede. –
  Astrel impallidì in volto -  Cosa? Lei non può mandarmi via. – Replicò angosciosa. – Non può farlo! –  Protestò ancora, tremendamente disperata.  Provai ciò che provò Astrel, le medesime emozioni scandite  all’unisono. Quella donna incarnava la strega malefica che giungeva per  rovinare la favola, e ero certa che avrebbe scagliato il suo peggior  incantesimo per impedire il lieto fine.  
  - Signorina Rosencrans, la  prego! Non può inferocirsi contro Astrel in tale modo. - Dissi con la voce  intervallata dai singhiozzi.
  - Io posso tutto. –  Replicò la donna con un sogghigno spietato.
  - Contatterò Londra, e informerò  il rettore Stanley dell’increscioso accaduto. Sono fiduciosa che egli  comprenda, d’altronde, è mio precipuo dovere tutelare il decoro del  Majakovskij. – Nessuno aggiunse nulla. La perentorietà con cui s’era espressa  la donna scoraggiò ogni possibile obiezione. La direttrice invitò Liudmila a  usciere dalla stanza, poi dispose alla professoressa Čhecov di separarci in  camere diverse. - Bene, signorine – Ridacchiò la Čhecov mentre la Rosencrans si  ritirava – Mi congratulo per la performance, s’eravate a caccia di notorietà ne  avrete in abbondanza non appena la voce si spanderà. – commentò inasprendo le  labbra. –  Mi segua, Svetlana  Yaroslavna  , la camera attigua a questa  è libera. –
  - Non intendo farlo. – Mi  rifiutai stizzita, percependo le braccia d’Astrel cingermi con fare protettivo.   La Čhecov tumultuò come un cavallo  imbizzarrito, avevo osato contrariare l’insegnante più facinorosa del  Majakovskij. 
  - Ho udito un dissenso? – Domandò  retoricamente, galoppando le sue duecentoventi libbre nella nostra direzione.  Come un tir in corsa si lanciò fra entrambe sradicando il nostro abbraccio, e  con energia esplosiva ci spinse in direzioni opposte.  Astrel fu balzata indietro e cadde sul letto,  il materasso attutì il colpo. Cercai di raggiungerla per stringerla ancora, ma  l’insegnante di ginnastica mi trascinò fuori dalla camera e mi spintonò per il  corridoio fino a raggiungere l’uscio della stanza successiva. Lì, travagliò un  momento per rintracciare la chiave giusta dal suo mazzo personale, e quando la  trovò, aprì la porta scaraventandomi all’interno della camera. 
  - Cerchi di non annoiarsi,  Svetlana, potrebbe trascorrere parecchio tempo prima che qualcuno torni ad  aprirle. – Incalzò imperterrita sul sottofondo degli scatti alla serratura. 
  - Non può imprigionarmi qui  dentro! – Protestai, lanciando pugni contro il legno massiccio della porta. –  Voi non riuscirete a separarci! - Nulla. In mia replica neppure un tenue  brusio, la Čhecov era andata via.  Rimasi  sola, devastata dal ciclone d’eventi che m’ aveva travolto, affannandomi per  rabberciare la dinamica dell’accaduto. Com’era riuscita Liudmila ad accedere al  mio diario? Quali risvolti avrebbe maturato la nascente storia fra me e Astrel?  Non potevo lasciare che fosse il destino a redigere il finale, dovevo  impugnarla io la penna del  fato. Temevo  di non rivedere mai più Astrel, di piombare nuovamente negli abissi infernali  della solitudine.  Nelle mie vene  struggeva la necessita d’evadere da quella camera, sarei saltata giù dalla  finestra pur di sfuggire ai confini occludenti delle pareti. Forse… era proprio  la finestra l’unico canale di fuga. Mi avvicinai all’imposta, e l’aprii mentre  i miei battiti acceleravano. Un brivido gelido mi ricordò che indossavo  soltanto un jeans e un reggiseno, ma il freddo si collocava in coda ai miei  problemi, l’impellenza consisteva nell’ architettare un metodo adeguato che mi  evitasse lo sfracello  sul selciato  sottostante. Mi balenò in mente l’espediente del lenzuolo, stereotipato e  collaudato da parecchie pellicole cinematografiche, ma io non possedevo una  bastevole quantità di stoffa, né avevo dimestichezza con i nodi. Potevo  scendere giù barcamenandomi fra i tasselli che fissavano al muro il tubo  pluviale, ma anche quella era una sciocchezza da film. Compresi che calarmi fin  sotto non era l’unica soluzione, avrei potuto percorrere il sottile cornicione  che sporgeva di venti centimetri sotto al davanzale. Sì, mi sarei spostata con  cautela fino a raggiungere la finestra della camera adiacente, ritornando così  dalla mia Astrel. Mi occorse parecchia tenacia per scavalcare il davanzale e  affidarmi alla precarietà di una minuta lastra in cemento; se il suo impiego  era di tipo architettonico, nulla garantiva che avrebbe retto il mio peso.  Quando vi poggiai entrambi i piedi fui assalita dalle vertigini, sapevo, come  chiunque, che per combatterle  non avrei  dovuto cacciare l’occhio verso il basso, ma ero costretta  a vigilare sui miei passi titubanti. Non mi  resi conto del gesto azzardato che stavo compiendo prima di giungere a metà  percorso, solo in quel frangente la consapevolezza di stare in precario  equilibrio su un cornicione scricchiolante, seminuda, e in balia del vento, mi  piombò addosso atterrendomi. Con audacia repressi ogni perplessità, finsi di  non sentire il gelo penetrarmi nelle ossa e continuai a spostarmi moderatamente.  Giunsi alla finestra di Astrel e con una mossa arrischiata cambiai posizione,  adesso non rivolgevo più le spalle alla facciata dell’istituto bensì il volto.  Attraverso la condensa sul vetro scorsi una  sagoma sfumata, era la mia Astrel! Una gioia immensa mi pervase, quasi  dimenticai di aver rischiato l’assideramento e lo sfracello al suolo. Eccitata  picchiettai le unghie sul cristallo per sollecitare la sua attenzione, e quando  lei spalancò i vetri incredula, io mi avvinghiai al suo collo e mi sfogai in un  riso liberatorio.
  - Svetlana! Come, da dove? –  Negli occhi d’Astrel lo smarrimento era commisto alla felicità. – Che cosa ci  fai qui fuori? – Mi domandò, aiutandomi a valicare l’insolito ingresso.
   - Sto congelando. – lamentai raggomitolandomi per terra – non  sento più le guance e non riesco a muovere le braccia. – Astrel si chinò  accanto a me  e con fare materno mi  avvolse  fra le piume di una trapunta.
  - hai camminato sul cornicione?  – Mi domando, certa che fosse l’unica spiegazione ammissibile.
  - Sì. - Confermai fra un tremito  di ghiaccio e l’altro.
  - Ma potevi cascare di sotto! –  Mi rimbrottò continuando a vestire i panni di  una madre premurosa.
  - Sono consapevole del rischio  che ho corso. Volevo tornare da te, temevo che non ti avrei più rivista. – Astrel  si angustiò e teneramente mi sfiorò i capelli.
  - Adesso che cosa accadrà? Non  voglio perderti Svetlana, sei ciò che di più bello mi sia mai capitato. –
  - Non mi perderai. –  La rinfrancai, conducendola sotto la coperta  per nutrirmi del suo calore. Astrel poggiò il capo sulla mia spalla.  Pacatamente sorrisi distendendo le labbra, al mondo non ero più sola.  - Verrò a Londra con te, Astrel, in questo  modo non dovremmo separarci. – Astrel sollevò la testa dalla mia spalla per  osservarmi in volto. 
  - Io non intendo tornare a  Londra. – dichiarò categorica – non da una famiglia che mi ha rinnegato. –  Aggiunse amaramente.
  - Non puoi restare al  Majakovskij, conosco la Rosencrans, se ha optato per la tua espulsione, nulla  potrà farle cambiare parere. –
  Astrel tornò in piedi e mi porse  una mano, quando la raggiunsi lei mi avvicinò a sé e mi fisso con intimità.
  - Tu mi ami, Svetlana? – Mi  domando, fremendo la mia risposta.
  - Sì, io ti amo Astrel. Ci siamo  dichiarate amore oggi pomeriggio, e i miei sentimenti nei tuoi riguardi non  fanno che ardere sempre più fulgidi. – Lei mi coinvolse in un bacio passionale,  poi parlò pacata a un pelo dalla mia bocca.
  - Il nostro posto è insieme.  Prima d’incontrarti, trascorrevo le giornate a peregrinare fra le strade della  mia città, salivo sulla metro e giungevo al capolinea per poi tornare indietro  e di nuovo avanti. Non riuscivo ad ammetterlo a me stessa, ma nel profondo  desideravo soltanto farla finita. Tu hai rinvigorito la mia anima, l’hai  nutrita e sfamata. So che ci conosciamo da poco più di una settimana, ma il mio  cuore indica te come spirito affine. -  Mi  commossi come una fanciulla, piansi a lungo e senza freni. Per la prima volta  le lacrime non seppero d’amaro, ma di nettare delizioso. 
  - Cosa dobbiamo fare, Astrel? –  Le domandai, fiduciosa di costruire insieme a lei la risposta – Al Majakovskij  non puoi restare, e se tornassi in Inghilterra, per me sarebbe complicato  seguirti. – La conclusione si dipanò limpida e necessaria, entrambe pervenimmo  alla medesima idea. 
  - Fuggiamo! – Esclamò Astrel. Io  tacqui. 
  - Sì, fuggiamo. – Replicai  probante, convinta come lo era Astrel, che altrimenti non si potesse fare.