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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

E SULLA SERIE INTERNET "XENA WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON"

DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E TNOVAN

 

Nonostante sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA,  questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia, il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni) e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati, ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda.

Dei due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..." riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al termine di quella storia.

La scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet della serie televisiva, scritto da Melissa Good.

Capitolo VII

(39) Croft

 

"...E così abbiamo lasciato la signora Jones (il nome è di fantasia), con la netta impressione di aver una volta di più travalicato i confini delle conoscenze umane per avventurarci in un territorio ignoto dove le leggi della natura seguono altri sentieri. Dal vostro corrispondente, Brian Croft."

Brian scorre rapidamente il testo dell'articolo che ha buttato giù in quattro e quattr'otto al suo ritorno in redazione. Il nome è di fantasia, ridacchia fra sé rileggendo la frase tra parentesi che ha inserito. Come se tutto il resto non lo fosse. Ma d'altro canto questa non era certo la prima volta che doveva ritoccare un articolo o un'intervista e ormai aveva sviluppato una certa abilità nell'abbellire i passaggi e rendere suggestive le immagini che riusciva ad evocare. Aveva anche aggiunto qualche frase di suo pugno, qua o là, per arricchire il racconto piuttosto scarno e, perché no? ammettiamolo, deludente che la vecchia gli aveva fatto.

Lui non si era fatto grandi illusioni su cosa l'autrice di quella lettera potesse dirgli, ma francamente un sogno a base di cattivi odori e rumori di origine ignota era troppo poco per il pubblico affamato di morbosità del View. No, loro si sarebbero aspettati una visione grondante sangue, corpi di bambini smembrati e denti appuntiti che lacerano morbide carni. Ecco cosa volevano i fedeli lettori, qualcosa su cui tremare e rabbrividire di raccapriccio, prima di correre a vedersi l'ultima puntata della loro soap preferita, o di andare a controllare che l'arrosto in forno fosse cotto a puntino, ed è quello che avrebbero avuto. Certo della vera storia della sua intervista con Evelyn Colbert era rimasto davvero poco, compreso il nome della signora, ma nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Sicuramente non la non meglio identificata Joanna Jones (indirizzo sconosciuto), casalinga e medium dilettante, in età avanzata che in coincidenza con il secondo rapimento aveva avuto un orribile incubo che le aveva rivelato la natura bestiale di The Ogre. Ma, sperabilmente, neanche la molto più solida Hermia Colbert (indirizzo dimenticato) che evidentemente con le sue minacce aveva ottenuto il suo scopo.

Appena tornato nel suo ufficio, rimuginando già nella mente le frasi a effetto che avrebbe utilizzato nell'articolo che avrebbe dovuto scrivere, comporre e inviare nella prossima mezz'ora, Brian si era comunque  concesso un paio di minuti per controllare su internet, qualche informazione sulla famiglia Colbert e stabilire quanto di reale ci fosse nelle loro presunte conoscenze altolocate, scoprendo così che Christopher Colbert, il defunto marito di Evelyn, era stato un'importante personalità del jet set e anche della politica locale. Dopo aver girato il mondo per anni con importanti incarichi diplomatici, insieme a sua moglie, i due coniugi erano tornati e si erano stabiliti nella sua città natale dove aveva intenzione di intraprendere un'altrettanto fortunata attività politica con l'aiuto delle importanti conoscenze coltivate nel suo passato . Ma la malattia, un grave caso di malaria contratto in America del Sud, lo aveva costretto a rinunciare, e a ritirarsi in una lussuosa residenza in campagna. Poi, la buona stella dei Colbert era sembrata tramontare definitivamente, quando una serie di rovesci finanziari li aveva obbligati a vendere la loro tenuta e a trasferirsi in un molto più modesto appartamentino in città. A quel punto, le importanti conoscenze si erano tutte più o meno defilate e i coniugi Colbert si erano praticamente autoreclusi nella loro casa, accuditi dalla loro unica figlia che aveva abbandonato tutto, una promettente carriera in campo medico ed un fidanzato, per occuparsi dei suoi anziani genitori fino alla morte del padre, e poi soltanto di sua madre.

Niente di strano, aveva pensato Brian, che Hermia Colbert si fosse un po' (un po'?) inacidita. La vecchia Colbert era completamente suonata, di questo non aveva dubbi, e probabilmente la solitudine a cui la costringeva quel cerbero della figlia e che di sicuro non le aveva giovato, era una forma di vendetta, inconscia non si sa fino a che punto, per averla costretta a rinunciare ad una vita propria.

Comunque fosse, e anche se abbastanza evidentemente le protezioni che vantavano erano più immaginarie che reali, Brian aveva ugualmente deciso di evitare di fare i loro nomi. Inutile cercare guai, soprattutto quando questi non portavano nessun vantaggio. Al lettore tipo del View non importava molto che la medium visionaria del suo articolo si chiamasse Evelyn Colbert, Joanna Jones o Mary Vattelapesca. L'unica cosa che gli interessava era ciò che aveva visto. E grazie alla fantasia superallenata di Brian Croft, aveva visto molto.

"Un essere quasi demoniaco con occhi iniettati di sangue, dall'aspetto belluino e lunghi denti affilati con i quali straziava quei poveri corpicini per soddisfare la sua insana fame".

Naturalmente quelle non erano le sue vere sembianze (neanche i più ingenui tra i lettori se la sarebbero bevuta), ma solo il modo in cui "lo spirito guida della signora Jones le aveva mostrato quell'essere immondo". Lei non poteva vedere il vero killer ma solo la "proiezione della sua diabolica malvagità". Questo, oltre ad evitargli di raccontare lo squallore della realtà, presentava il vantaggio di non dover inventarsi qualche identikit del mostro più o meno credibile, mantenendo il tutto su un piano di pura immaginazione, e dando però alla gente esattamente quello che voleva: sangue, orrore e emozioni facili. Puro View al 100%.

Brian aveva quasi voglia di congratularsi con se stesso. Con il poco tempo, e il poco materiale che aveva a disposizione, aveva fatto un lavoro egregio. Perfino quello stronzetto di Hannigan avrebbe dovuto ammetterlo... Già, sì, figurati. Hannigan non avrebbe ammesso neanche che il sole era caldo se a sostenerlo fosse stato Brian Croft.

Oh, beh, che si fotta. Per quello che mi frega della sua approvazione...

L'unica cosa che contava era che aveva fatto un buon... no, un ottimo lavoro. Lo sapeva lui, e tanto bastava. E comunque mancavano meno di due ore alla chiusura del numero che sarebbe arrivato nelle edicole della città e di tutto il resto del paese nelle prossime ventiquattro ore. Qualunque fosse stato il giudizio del capo redattore avrebbe dovuto mandarlo in stampa.

Alla faccia tua, Hannigan. Bevo alla tua salute e spero che ti strozzi.

Inviato il pezzo e spento il computer, Croft afferra il bicchiere di plastica alla sua destra e prende una lunga sorsata della bibita scura che contiene (coca o pepsi? Boh.), lasciando che il liquido fresco gli scenda giù per la gola, per alleviare un po' l'arsura che vi sente. Gli uffici del View, appena si affacciava la stagione fredda, diventavano una specie di sauna finlandese, in cui era impossibile lavorare se non allentandosi la cravatta e tirando su le maniche della camicia, come nei peggiori film sul giornalismo della Hollywood degli anni quaranta. Mancava solo il berretto gettato indietro sulla nuca e la sigaretta pendente dalle labbra e sarebbero sembrati tutti delle copie scadenti di Humphrey Bogart ("E' la stampa, bellezza!"). Naturalmente per completare l'illusione, si sarebbe dovuto sentire tutto intorno il ticchettio frenetico delle vecchie Remington. Le tastiere e gli schermi luminosi dei computer moderni rovinavano un po' l'atmosfera.

Appoggiandosi alla spalliera della sua poltrona, Brian allunga le gambe e tende la schiena, cercando di rimettere in sesto i muscoli dorsali, rattrappiti dalla posiziona tenuta fino ad allora, quindi rilassandosi nella postura si ferma ad osservare lo spettacolo dei palazzi illuminati fuori dalla finestra. Sono passate da poco le sette e il cielo è già del colore della pece. Immediatamente l'assale una voglia insopprimibile di scappare. Infilare il cappotto, prendere l'ascensore ed emergere dal traffico caotico della redazione del giornale in quelle ultime ore prima dell'uscita in stampa, e dal caldo soffocante di quell'ambiente, per prendere una sana boccata di fredda aria notturna.

E senza por tempo in mezzo, Croft afferra il soprabito e spalanca la porta dell'ufficio, uscendo quasi di corsa, forse per la prima volta senza gettare neanche un'occhiata al volto sorridente che lo fissa dalla parete.

 

 

(40) Xena

 

Argolis...

Mentre con raddoppiata cautela, Xena intraprende la strada del ritorno, scivolando lungo i muri delle case e rimanendo sempre ai bordi dei vicoli e degli angoli più oscuri, il suo pensiero non riesce a staccarsi del tutto dall'incontro con l'uomo stanco e invecchiato che ha appena lasciato dietro di sè dopo un rapido saluto. La stessa persona che aveva conosciuto... Quando? Quante primavere si erano davvero succedute da allora? Gli avvenimenti della loro vita convulsa rendevano difficile il calcolo. Trentacinque? Quaranta? Come poteva il povero Argolis non pensare di stare contemplando una semidèa, quando la donna che vedeva era più o meno identica a quella che ricordava di avere visto da bambino?

E lei stessa, tutto sommato si era soffermata più di una volta a chiederselo. E' vero, era stata ferita innumerevoli volte ed era anche morta più di una volta, ma i semidèi non sono invulnerabili ed Hercules ne era la prova. Possono essere feriti e uccisi, a causa della loro metà umana. Non aveva forse lei stessa ucciso il figlio di Diana cacciatrice, Bellerofonte? Ma non invecchiano mai e non possono morire per cause naturali, e questo è il vincolo della loro metà divina.

Naturalmente lei non aveva mai creduto di essere figlia di Marte, anche se quella dicerìa le era stata molto utile per togliersi da una brutta situazione con le Furie, ma si era chiesta a volte se quel boccone di ambrosia, quello che le aveva somministrato Olimpia per riportarla indietro dalla morte, non avesse fatto molto di più che resuscitarla.

Per la verità, ogni suo ritorno dal regno delle ombre aveva una sua spiegazione: l'ambrosia, appunto, o la volontà del dio senza nome di Belur, o ancora il suo astuto piano per ingannare Lucifero (cosa quest'ultima di cui andava particolarmente fiera. Anche se forse non dovrei dirmelo da sola, pensava spesso con un pizzico di imbarazzo, salvo poi aggiungere, oh, ma in fondo perchè no, diciamolo, è stato un ottimo piano.), insomma tutto poteva essere spiegato in termini, abbastanza, naturali, ma il risultato finale era che lei era comunque lì, viva e giovane, come sempre, come da sempre.

E Olimpia? I venticinque anni passati sotto ghiaccio avevano conservato anche in lei bellezza e giovinezza, ma lei non era sicuramente un'immortale. Sarebbe invecchiata e alla fine sarebbe morta, e allora cosa ne sarebbe stato di lei? Olimpia credeva che quando le manifestava timori di stare perdendo l'acutezza dei suoi sensi, o quando le chiedeva di controllare se vedeva tra le sue chiome tracce di capelli grigi,  volesse solo essere rassicurata e le rispondeva sorridente che tra la sua splendida capigliatura corvina nessun capello grigio avrebbe mai osato mostrarsi. E invece non immaginava, quanto quelle risposte che volevano essere tranquillizzanti, gettassero fosche ombre sul suo animo.

Allora cercava di aggrapparsi alle poche cose che in qualche modo la confortavano, come il ricordo della loro avventura in India, in cui aveva potuto vedere e vivere una sua prossima vita che in qualche modo, in altri tempi e in altri corpi, sarebbe stata ancora accanto alla sua Olimpia, ma nuovamente i dubbi tornavano ad assalirla. E se il destino avesse cambiato direzione, se qualcosa che aveva fatto avesse cancellato quella possibilità, o se addirittura, quella possibilità non ci fosse mai davvero stata, e la vita che le era sembrato di rivivere fosse stata solo uno di quegli universi alternativi di cui parlava Alexi?

Ecco. D'un tratto capiva perché la sua mente si fosse rifiutata così categoricamente di accettare il racconto del giovane. La sua storia di mondi paralleli aveva in qualche modo solleticato paure che credeva riposte nel più profondo della sua anima. Paure di una vita immortale nella solitudine e nell'angoscia di veder scomparire dal suo fianco la persona a cui teneva di più al mondo. L'unica che avesse dato un senso alla sua esistenza. Paure rafforzate dall'incontro con Argolis e dal suo sguardo pieno di stupore e meraviglia nel vederla.

No.

Il pensiero le guizza improvviso nella mente, e la guerriera drizza le spalle, mentre i suoi occhi si stringono e l'intera postura del suo corpo si rinsalda.

No, mio bardo, questo non accadrà mai. Il giorno in cui tu dovessi morire, io ti seguirò. Nessun potere dell'inferno o del cielo riuscirà a dividermi da te. Non di nuovo. E se anche io fossi davvero diventata un'immortale, rifiuto questo dono perché non vi può essere vita senza anima e la mia la porteresti comunque via con te.

Ingoiando un groppo che ha sentito inaspettatamente formarlesi in gola, e cercando di ridefinire la visuale intorno a lei improvvisamente confusa, Xena sta per abbandonare la sicurezza dell'ultimo muro che fino a quel momento ne ha protetto il percorso e avventurarsi nello spazio aperto che conduce alla foresta, quando un movimento alla sua destra la costringe ad appiattirsi contro la parete, ridivenendo assolutamente invisibile per l'uomo che adesso vede avanzare lungo la strada a non più di una ventina di passi di distanza da lei. L'uomo, non molto alto, sembra ancora più piccolo mentre cammina con la schiena curva e il grande pastrano avvolto intorno al corpo ed al viso a proteggerlo dal vento freddo. Una folata più forte delle altre, gli solleva per un attimo il cappello che lui subito afferra ricalcandoselo con forza sulla testa. Ma quell'attimo è stato sufficiente a Xena per riconoscerlo. Tiros, il fratello della donna che avevano inutilmente cercato di soccorrere. Che diavolo ci faceva in giro, a quell'ora della notte? Non pareva provenire né dirigersi alla locanda che comunque doveva ormai essere chiusa, e sicuramente non poteva essere di ritorno dal lavoro o da una passeggiata. Sembrava invece dal passo veloce e dall'espressione concentrata che mostrava sul volto, ora più visibile a causa della luce della luna, che adesso brillava limpida, che avesse comunque un obiettivo ben preciso nel suo cammino e che avesse tutta l'intenzione di raggiungerlo.

Xena resta per un momento indecisa e il suo sguardo spazia rapidamente dalle file di alberi che l'attendono, immobili e mormoranti sotto l'azione del vento notturno, e la figura che si sta rapidamente allontanando lungo la strada che porta verso l'interno del villaggio. La sua promessa ad Olimpia di tornare appena possibile le risuona ancora nelle orecchie, inoltre negli ultimi minuti, ha creduto di avvertire onde di preoccupazione, quasi di angoscia giungerle attraverso quello strano, misterioso collegamento tra loro. Niente di particolare, probabilmente Olimpia è solo in pensiero per lei, ma ha incrementato la sua urgenza di ritornare al più presto.

E tuttavia il suo istinto, una cosa su cui ha imparato da una vita a contare ad occhi chiusi, le suggerisce di deviare e seguire quell'uomo. C'è evidentemente un legame tra lui e Acros e qualcosa le dice che è proprio la casa di quest'ultimo la meta del solitario passeggiatore notturno. Da quello che le aveva detto Argolis, quando durante la strada per andare al recinto dove teneva il suo cavallo, gli aveva chiesto dove abitasse Acros, la direzione pareva quella giusta.

Chiudendo la mente ad ogni altro pensiero, Xena si gira e corre, leggera ed invisibile dietro l'ombra che già sta sparendo tra le case.

 

"Non lo so, Acros. E' una decisione difficile da prendere."

La stanza è piccola, illuminata a stento da una candela, quasi del tutto consumata, al centro di un tavolo, intorno al quale vi sono tre uomini. Acros, seduto tra gli altri due, si liscia pensieroso la barba, fissando l'uomo alla sua destra. Questi, vestito di abiti semplici e anche un po' stazzonati da contadino, tiene un berretto sformato tra le mani, rigirandolo senza posa ed, ogni tanto, alza due piccoli occhi porcini quasi sepolti in una faccia grassoccia e senza traccia di barba, sul volto severo del Capo del Consiglio e su quello freddo e inespressivo dell'altro uomo di fronte a lui.

"Questo lo so, Cadmio." dice Acros, posandogli una mano sulla spalla. "Ma Fedora è una donna giovane. Potrà darti ancora molti figli, forti e sani come lei. Questo bambino è uno scherzo della natura, un segno che gli Dèi ti hanno inviato perché tu capisca che può, anzi che deve essere sacrificato, senza rimpianti per il bene di tutta la nostra comunità."

L'uomo, continuando a rigirarsi il cappello tra le mani, adesso tiene costantemente gli occhi bassi, non riuscendo a reggere gli sguardi degli altri due.

"Acros, io... Non me la sento di chiedere a Fedora..."

"Insomma, uomo!" tuona d'improvviso il vecchio, alzandosi di scatto, facendo quasi cadere la sedia e provocando l'immediato ammutolimento dello sventurato interlocutore, che abbassa se possibile ancora di più la faccia sul petto, come se volesse nasconderla dentro il vestito. "Chi porta i calzoni nella tua famiglia?!?"

Appoggiando le mani sul tavolo, Acros si china minaccioso su di lui.

"Vorresti opporti forse al volere degli Dèi? Sai bene che essi vogliono che tutti i bambini nati impuri ai loro occhi vengano consegnati all'Emissario. E tu vorresti dirmi forse che i desideri di tua moglie contano per te più dei loro? E metteresti a repentaglio l'intero nostro villaggio per questo?"

Incapace di emettere un solo fiato, Cadmio scuote solo la testa senza osare nemmeno alzarla. Con tono più pacato e tornando a sedersi accanto a lui, Acros gli mette la mano sotto il mento e lo costringe a sollevare il viso, finché i loro occhi non tornano a fissarsi.

"Inoltre, nel caso tu stessi meditando una qualche sconsiderata fuga, devo avvisarti, e il qui presente Iacobus te ne può rendere testimonianza, che allevare un bambino così ti costerebbe molto senza darti alcun vantaggio in futuro. Parla, Iacobus." dice Acros, rivolto all'uomo alla sua sinistra, senza neanche guardarlo, ma mantenendo fisso il suo sguardo in quello del contadino. "Racconta all'amico Cadmio la sventura accaduta a quel tuo cugino."

"Oreste aveva avuto un figlio proprio come il tuo, Cadmio." comincia l'altro uomo che fino a quel momento se ne era stato in silenzio, ma l'espressione gelida nei suoi occhi non cambia ed è come se solo la bocca si muovesse. "Ma sua moglie era in età avanzata, quasi morì nel darlo alla luce, e la levatrice disse che non avrebbe mai potuto averne altri. Il bambino era nato cieco e storpio da entrambe le gambe e le braccia e tutti dicevano che non sarebbe sopravvissuto e che avrebbe fatto meglio a metterlo a morte. Ma Oreste non volle crederci e lo portò fino ad Atene perché fosse visitato dai migliori medici e guaritori. Spese ogni suo avere perché il suo unico figlio potesse riacquistare la salute, si coprì di debiti, ma alla fine il bimbo morì, proprio come tutti avevano predetto e la rovina si abbatté sulla sua casa."

L'uomo chiamato Iacobus smette di parlare e torna alla sua fissa immobilità.

"Hai sentito, Cadmio?" chiede Acros, chinandosi nuovamente verso di lui. "Ma la tua posizione è infinitamente migliore. Tua moglie è giovane e in salute e ti darà altri figli. Non opporti alla volontà degli Dèi, o non ne ricaverai che disgrazie. Il nostro villaggio ha passato tempi duri, ed altri altrettanto duri ci attendono. Sopravvivere è diventato sempre più difficile, la miseria e la carestia hanno prodotto dalle nostre donne, sempre più figli che non sono una benedizione, ma un peso, un ulteriore aggravio ad una situazione già molto precaria per le famiglie. Iacobus." e la voce di Acros si alza di un tono, nel rivolgersi al suo silenzioso compagno. "Quanti nascituri minorati mentalmente o fisicamente hai riscontrato in questo solo anno?"

"Più di venti, Acros." risponde Iacobus per poi ripiombare nel suo vigile mutismo.

"Più di venti." ripete il vecchio, con uno sguardo di fuoco al povero Cadmio. "In un solo anno. Non vedi che anche questo è un segno degli Dèi? Essi ci puniscono, per la nostra poca fede in loro, ma nella loro infinita saggezza, vogliono risparmiarci la penosa incombenza di vederli vivere la loro comunque breve vita di sofferenza. Per questo ci hanno inviato l'Emissario a dare loro una rapida e misericordiosa fine."

Il silenzio seguito alle parole di Acros, viene rotto da un secco bussare. I tre uomini nella stanza si bloccano all'inatteso suono e gli sguardi di Acros e del suo uomo si incrociano per un attimo, poi Iacobus si alza e si dirige alla porta, aprendola con cautela e scrutando fuori.

"E' Tiros." dice, girandosi verso l'altro, poi torna a rivolgersi alla persona fuori. "Cosa vuoi a quest'ora?"

"Fammi parlare con Acros." dice la voce proveniente da dietro la porta rimasta semiaperta.

"E' occupato adesso. Torna domani."

"Devo parlargli subito." insiste la voce dell'uomo.

"Fallo entrare." Acros torna a sedere, continuando a guardare Cadmio che ora ha sollevato timidamente lo sguardo su di lui. "E tu, pensa bene a quello che fai. Mi auguro che prenderai la decisione più giusta. Me lo auguro per te e per la tua giovane moglie."

Poi, con un gesto della mano, Acros congeda il contadino, che evidentemente non aspettava altro e con uno scatto notevole per l'ometto grassoccio che è, schizza dalla sedia e corre verso l'uscita, quasi scontrandosi con l'uomo che sta entrando in quel momento.

"Cadmio. Che fai tu qui?" chiede Tiros, fissandolo sorpreso.

Farfugliando delle scuse, Cadmio passa velocemente tra Tiros e Iacobus rimasto immobile sulla soglia e sparisce nel buio.

"Che ci faceva qui?" chiede ancora Tiros, rivolgendosi stavolta ad Acros. "Cosa volevi da lui?"

"Non sono affari che ti riguardano." risponde secco Iacobus, afferrandolo per una manica e tirandolo dentro, mentre richiude la porta dietro di lui. "Entra se devi e dicci cosa vuoi tu."

"Il bambino di Fedora." dice a bassa voce Tiros, quasi parlando a se stesso, sotto lo sguardo fisso dei due uomini nella stanza. "Si dice che sia un impuro, nato con qualche grave difetto. Anche lui dovrà essere consegnato all'Emissario? E' così?"

"Egli mi ha di nuovo parlato in sogno." dice Acros. "E quando Egli ordina io non ho scelta."

"Beh, io invece ce l'ho, e voglio uscirne, Acros."

Le parole decise di Tiros restano un attimo come sospese nella stanza

"Tu non sai quello che dici." mormora il vecchio, alzandosi lentamente dalla sua sedia. "Hai scordato la tua posizione? Hai scordato di essere venuto ad implorarmi di aiutarti per la tua debolezza?"

"Non ho dimenticato ciò che ho fatto, Acros." risponde amaramente l'uomo. "E per questo mi è già stato riservato un posto agli inferi. Ma non sopporto più di andare avanti così. E come se avessi ucciso io stesso Sarah, con le mie mani. E quella povera innocente, appena nata..." La voce di Tiros si rompe in un improvviso singhiozzo.

"Tua sorella era solo una pazza!" tuona Acros. "E il frutto del suo ventre non poteva che essere reso marcio dall'empietà da cui era nato."

"Forse." dice Tiros, raddrizzando le spalle e asciugandosi il volto con la mano. "Ma questo non potrò mai saperlo, perché tu e i tuoi scagnozzi l'avete portata via prima che potessi anche solo vederla."

"Taci, Tiros!" esplode Acros, battendo con violenza il pugno sul tavolo."Non ti permetto di parlarmi così! Che ti aspettavi potesse nascere da una povera demente ed il suo stesso fratello?!? Solo un essere impuro, un'offesa vivente agli Dèi! Dovresti ringraziare l'intero Olimpo per non essere già morto, incenerito dal fulmine di Giove."

"Sai " dice Tiros, con uno strano sorriso "c'è chi dice che i vecchi dèi non esistano più. Che una nuova divinità abbia mandato i suoi guerrieri a distruggerli e...".

"Fuori!". Con una velocità sorprendente per un uomo della sua età, Acros scatta in avanti afferrando per le spalle Tiros e spingendolo verso la porta. "Vattene, immondo bestemmiatore. Stupratore di tua sorella. La tua condanna è già scritta e io non voglio che tu continui ad insozzare la mia dimora con la tua presenza!"

Con uno strattone, Tiros si libera della presa del vecchio ed estrae un coltello che punta contro Iacobus che si stava preparando ad intervenire.

"Me ne vado, non temere, Acros. Ma non è la mia presenza a sporcare questo luogo." sibila, fissando ora l'uno ora l'altro dei due uomini di fronte a lui. "In queste settimane in cui ho imparato a conoscerti, ho saputo molte cose. Cose che non credo ti farebbe piacere che venissero riferite in giro."

"Tu deliri, uomo." Ora Acros e Iacobus sono arretrati di un paio di passi, continuando a sorvegliare Tiros e la minacciosa lama del suo coltello. "La pazzia di tua sorella si è trasmessa a te. La maledizione delle Furie ti ha colpito e più niente potrà salvarti."

"In tal caso, è meglio se tu e i tuoi sgherri mi starete alla larga. Si sa bene che uno sventurato colpito dalla maledizione delle Furie, può fare... o dire... qualunque cosa. Cerca di ricordartene, Acros."

E con queste parole, Tiros si volta e spalanca la porta, uscendo con passo affrettato nella notte.

 

Nel vedere la porta aprirsi all'improvviso, Xena fa appena in tempo a spostarsi dietro l'angolo più vicino.

Seguire Tiros era stato più complicato di quanto pensasse. Quegli attimi di esitazione, quando l'aveva scorto, glielo avevano quasi fatto perdere nell'intrico di vicoli e stradine del villaggio, e più volte durante il suo inseguimento era stata costretta a nascondersi, appiattita nell'ombra, quando l'uomo improvvisamente si girava per guardarsi alle spalle, quasi come se presagisse di non essere solo. Qualche altra volta, aveva dovuto rifugiarsi dietro un muro, per evitare gli sguardi dei pochi passanti che aveva incontrato, e il risultato era che la sua preda le era sfuggita di vista almeno un paio di volte, facendole perdere altro tempo nel cercare d'individuare la strada che aveva preso. Aveva considerato anche la possibilità di salire sui tetti e proseguire così l'inseguimento. Le case erano abbastanza basse e le brevi distanze tra loro le avrebbero permesso di saltare dall'una all'altra, senza neanche perdere il ritmo della corsa, ma aveva scartato l'idea. Era troppo buio per poter giudicare adeguatamente la consistenza delle coperture. Un passo falso e avrebbe potuto sfondare un tetto, creando un bello scompiglio, e magari rischiare anche di ferire qualcuno. Così aveva preferito continuare a seguire l'uomo col vecchio metodo classico, aguzzando l'udito per individuare la direzione in cui si dirigeva il rumore dei passi, che nel silenzio della notte e del villaggio apparentemente addormentato risuonava particolarmente, ed era arrivata a quella che doveva essere la casa di Acros e la destinazione della lunga corsa. In realtà, quando era giunta nella strada da cui aveva sentito provenire per l'ultima volta il calpestio, l'inseguito non era più in vista e Xena era rimasta perplessa per qualche momento, cercando di capire in quale casa fosse entrato. Ma in quell'occasione i suoi sensi ipersviluppati non le erano stati necessari. Chiunque infatti avrebbe potuto sentire la voce di Acros urlare improperi all'indirizzo di qualcuno e Xena non aveva avuto alcuna difficoltà a trovare la casa giusta.

Era arrivata in tempo per sentire Tiros minacciare il vecchio di parlare se non lo avesse lasciato in pace, e vedere dalla finestra l'uomo con il coltello puntato verso Acros e un altro individuo dalla faccia patibolare che Xena ricordava di aver già visto insieme al Capo del Consiglio, ma non abbastanza da capire esattamente le ragioni dell'alterco, anche se forse poteva in parte immaginarle. Si era chiesta anche se non fosse il caso d'intervenire, ma poi aveva giudicato che nessuno fosse realmente in pericolo. Se aveva compreso bene la situazione, era certa che Tiros non avrebbe usato il suo coltello, a meno che qualcuno non fosse tanto stupido da provare ad assalirlo, ma né Acros né il suo complice sembravano corrispondere a quella caratteristica, quindi aveva preferito restarsene a controllare gli sviluppi, tranne poi doversi defilare velocemente quando la porta si era spalancata e Tiros era uscito quasi di corsa, allontanandosi rapidamente.

Sentita la porta richiudersi con forza, Xena svolta nuovamente l'angolo e si avvicina alla finestra, accosciandosi sotto di essa, sempre attenta a non uscire dal cono d'ombra che la tettoia del piccolo portico le assicurava.

"Devo seguirlo?"

Questa era lo voce dell'altro uomo. Ascoltandola, Xena si rende conto che è la prima volta che la sente. Le altre volte che si erano incontrati, sempre e solo Acros aveva parlato.

"No. Anche se dicesse davvero qualcosa, nessuno gli crederebbe." Nella sua voce Acros, invece, sembra aver riacquistato la padronanza di se stesso. "E poi ormai non ha più molta importanza. Sono diventato troppo potente perché qualcuno possa costituire una minaccia per me in questo posto."

"In questo posto, d'accordo, ma se partisse, magari questa notte stessa? Potrebbe denunciarci in qualche altra città, o addirittura ad Atene."

"Nelle grandi città hanno ben altro da fare che curarsi di cio' che accade in un lontano villaggio, dimenticato dagli uomini e dagli dèi." Il sorriso che doveva essersi dipinto sul volto di Acros, Xena riusciva quasi a vederlo. "E comunque, le protezioni di cui possiamo disporre sono ben più forti di qualunque milizia o esercito che possa spingersi fin qua."

"Ne hai di fiducia nel tuo protettore, eh?"

"E non è forse stata fino ad oggi ben riposta? Ogni nemico, ogni ostacolo che ha osato frapporsi sulla mia strada è stato spazzato via. In poco tempo ho raggiunto obiettivi che avevo sognato inutilmente per anni."

"E tu credi che sia stato lui?"

"Come puoi dubitarne, Iacobus? O ti stai trasformando anche tu in un miscredente bestemmiatore come Tiros?"

"Gli Dèi me ne guardino."

I due uomini tacciono per qualche momento, poi nuovamente risuona la voce dell'uomo che Acros aveva chiamato Iacobus.

"Ti sei mai chiesto che cosa sia davvero?"

"No. E neanche tu dovresti." Acros aveva adesso il tono autoritario che Xena gli aveva sentito nel loro primo incontro. "Chiunque Lui sia può parlarmi nei sogni, soddisfare ogni mia richiesta prima ancora che io l'esprima, prima ancora che io sappia di averla. Ha fatto di me l'uomo più potente di Kyros e un giorno, chissà, potrà farmi arrivare anche molto più in alto. E tutto questo in cambio di qualche inutile... fardello. E' quello che io chiamo uno scambio molto vantaggioso."

"Soltanto tu? E quale sarà la nostra parte?"

"Ancora dubbi, Iacobus? Non mi pare che né tu nè Ector abbiate avuto da lamentarvi della vostra collaborazione. Denaro, vino, donne, quando e quante ne volete. E se continuerete a servirmi fedelmente le cose non potranno che migliorare per voi due."

"E le due guerriere?".

Alla domanda di Iacobus segue un silenzio prolungato.

"Sì." dice infine, Acros. "Quelle devo ammettere che mi avevano preoccupato un po'. Spuntate così dal nulla, mi avevano colto di sorpresa. Ma come vedi anche quel problema si è risolto. Sono scomparse nella foresta e di loro non si ha più notizia."

"Pensi che sia stato ancora lui?"

"Ma certamente, amico mio. Come ti ho detto, non abbiamo più niente di cui preoccuparci. Egli ci protegge."

Sotto la finestra, Xena ha continuato a tendere l'orecchio per cogliere ogni parola del discorso tra i due uomini, ma le ultime parole ha faticato a capirle, mentre le voci si affievolivano in distanza e i due uomini si allontanavano evidentemente dalla stanza, e la guerriera sta per sollevarsi dalla sua scomoda posizione, con le gambe che le formicolano lievemente.

Più niente di cui preoccuparti, eh? Fossi in te non ne sarei tanto...

E d'un tratto quello che fino a quel momento è stato solo un leggero senso di malessere in fondo allo stomaco, che è riuscita a tenere sotto controllo, concentrata come era sui suoi obiettivi, la colpisce come un maglio, mozzandole il respiro. Il colpo è così forte e improvviso che Xena boccheggia per qualche secondo, mentre le gambe le cedono, e cade in ginocchio. Sente i battiti del proprio cuore accellerare ad una velocità esponenziale e la fronte coprirsi istantaneamente di sudore che si gela immediatamente. La bocca le si spalanca e un denso muco ne fuoriesce inondando il terreno.

Col fiato corto come dopo una corsa sfrenata, con le ginocchia tremanti, la guerriera si tira in piedi, e in quell'attimo, mentre ancora sta cercando di capire cosa le sia successo, un urlo silenzioso, ma più penetrante di qualunque grido effettivamente udibile, le trafigge il cervello.

XENAAAA!!! AIUTAMIIII!!!!!

E senza pensare, Xena comincia a correre, con le gambe barcollanti, la vista offuscata e il paesaggio che ondeggia intorno a lei. Il suo stomaco invoca per un nuovo conato che le pressa in fondo alla gola, ma la guerriera stringe i denti e corre, corre, corre verso la foresta oscura e gli alberi, immobili e mormoranti al vento.

 

 

(41) Jennifer

 

Jennifer dà un'ultima passata di spugna sulla parete, ringraziando mentalmente per la vernice lavabile che i precedenti proprietari vi avevano applicato. Nei rari momenti in cui riusciva a liberarsi dei suoi pensieri (o almeno ad accantonarli per un po'), aveva più volte considerato la possibilità di dare un tocco di personalità all'appartamento, una bella carta da parati, magari una diversa per ogni stanza, e un paio di volte era anche uscita con quell'idea in mente, ma poi aveva sempre finito per rinunciarvi. La verità era che non aveva nessuna voglia di mettersi a riarredare casa. Era solo un modo, un modo molto stupido per altro, di cercare di distrarsi dai ricordi che la perseguitavano, ma sapeva che non avrebbe funzionato. Ed ora ne era lieta, riflettendo su quale strano contrasto di colore avrebbe potuto offrire il blu o il verde chiaro che aveva pensato per il salotto, con l'aggiunta di una vasta macchia di scotch i cui rivoli sarebbero apparsi in lunghe strisce che scendevano fino al suolo.

Che cosa le era preso? Solo poche ore prima stava dicendosi che era sulla strada della guarigione, e poi d'improvviso era esplosa così. La rabbia che provava per Carruthers o per il suo capo non erano una giustificazione sufficiente. Neanche nei suoi momenti più neri si era lasciata andare a quella che non poteva che giudicare solo una crisi isterica, ma riesaminando il suo stato d'animo di quel momento le sembrava che un manto rosso di cieco odio e furore fosse sceso su di lei. L'unica possibile spiegazione era che il sogno che aveva fatto, se sogno si poteva definire, l'aveva lasciata totalmente stordita, quasi incapace di pensare o confrontarsi con i problemi quotidiani, men che meno con i rimorsi tardivi di Carruthers.

E poi, rivedere Joyce...

E non rivederla semplicemente in un ricordo ogni giorno sempre un po' più sbiadito, ma viva, reale, di fronte a lei, aver sentito, sentito, il suo tocco, sembrava d'improvviso aver riportato indietro le lancette del tempo, e l'arrivo dell'uomo con i suoi discorsi confusi e il penoso tentativo di giustificare prima di tutto a se stesso un'azione ingiustificabile, aveva colmato il vaso.

Ma ora ritrovato un brandello di lucidità, si rendeva conto di quanto la sua reazione fosse stata assurda, spropositata. In fondo sfrondando il tutto, Carruthers aveva cercato di chiederle scusa, e il suo dispiacere nel vedere la sua reazione le era parso genuino. E d'altro canto come poteva chiedergli questo?

Nell'attimo stesso in cui pronunciava quelle parole (Denuncia Ballister. Racconta a tutti che è un assassino.) sapeva che era una richiesta impossibile. Carruthers non avrebbe mai fatto una cosa del genere, né per indole, né tanto meno per convenienza. Quanto gli mancava alla pensione? Due anni, tre? Perché avrebbe dovuto compromettere tutto? E soprattutto per chi? Non certo per la memoria di una ragazzetta bionda che aveva conosciuto anche poco e che per lui era solamente un elemento di un'inchiesta. E allora? Per la sua coscienza?

O per lei, forse?

Riponendo la spugna umida nel secchio, Jennifer si siede per un momento sulla poltrona, sentendo all'improvviso le gambe deboli sotto di lei.

E se...?

Volevo parlare con la mia amica. Sai cosa mi è mancato di più in questi mesi? Le nostre discussioni.

Possibile che il suo istinto avesse riconosciuto inconsapevolmente, ciò che la sua mente non aveva saputo individuare?

Carruthers?

E perché no, in fondo? Lavorare fianco a fianco ad una donna per qualche anno, vederla per mesi tutti i giorni, consumare insieme pasti a qualche tavolo di fastfood, parlarci, discuterci, litigarci a volte (beh, molto spesso), non può sviluppare una forma di cameratismo che per un uomo, specialmente se un vecchio scapolo incallito, potrebbe trasformarsi in qualcos'altro?

Certo, lui non le aveva mai fatto capire nulla (sempre che l'avesse capito lui per primo), ma ora forse, certi sguardi, certe frasi buttate lì per caso, cominciavano ad acquistare un senso. Come certe volte in cui uscendo dalla procura, al termine della giornata, lo trovava a passare di lì casualmente, per recarsi da Ballister a prendere o portare qualche rapporto o incartamento. Ehi, ho la macchina. Vuoi uno strappo? O altre in cui, entrando nel bar sotto il suo ufficio, per un rapido spuntino alla sua solita ora, s'imbatteva in lui che sempre casualmente, ovvio, si era fermato a mettere qualcosa sotto i denti. Siedi al mio tavolo. Per non parlare del suo atteggiamento, quando lei gli aveva praticamente detto di essersi accorta di provare qualcosa per Joyce. All'inizio, le era parso di leggerci sorpresa e incredulità, ma ora, ripensandoci, non poteva essere anche gelosia? E facendo un ulteriore passo in avanti, questo non poteva portare a credere che...

No. Fermati. Non correre troppo con la fantasia.

Questo non aveva diritto di pensarlo. In realtà, forse stava costruendo un romanzo sul nulla. Perché non c'era mai stato nulla di definito che ricordasse, ma solo tanti piccoli indizi che messi l'uno in fila all'altro le pareva d'improvviso che stessero cominciando a mostrare un quadro con una parvenza di logica. D'altronde, il carattere del poliziotto gli avrebbe impedito di manifestare in altro modo i suoi sentimenti.

Così tanti anni di vita da scapolo non possono non lasciare dei segni, e anche se lui si fosse reso conto di quello che gli stava capitando (e in qualche modo Jennifer ne dubitava), non sarebbe mai riuscito ad esternarle ciò che provava. Senza contare l'educazione molto formale ed ortodossa che doveva aver ricevuto e che gli avrebbe impedito di poter considerare una donna che aveva vent'anni e passa meno di lui nient'altro che un'amica.

Ma il punto non era questo. In quel momento che Carruthers fosse o no più o meno inconsapevolmente... oddìo, non riusciva neanche a dirlo ...innamorato di lei, contava poco. Soltanto l'idea la gettava nello sgomento e contemporaneamente le pareva esilarante, ma in realtà, ciò che contava era il fatto che lei istintivamente avesse cercato di approfittarne. Il suo istinto aveva capito, molto più velocemente del suo cervello (Wow, che fenomeno di psicologa che sei, Rowles! Ma dove l'hai trovata la laurea, nei sacchetti delle patatine?) e aveva provato a trarne vantaggio, cercando di spingerlo a fare qualcosa che per lui poteva significare la rovina e che non avrebbe mai fatto spontaneamente, se non in nome di un'amicizia che forse poteva essere qualcosa d'altro. E questo non poteva essere chiesto a nessuno.

Jennifer osserva meravigliata la sua mano che si tende verso il cellulare posato sul tavolinetto accanto e l'arresta a mezz'aria. Già, davvero un fenomeno. E se ora l'avesse chiamato cosa gli avrebbe detto?

Sai, George, scusa tanto, ma mi è venuto in mente che forse potresti essere innamorato di me, e per questo potresti essere tentato di fare quello che ti ho suggerito, ma io non avevo il diritto di chiedertelo, quindi lascia perdere e fai finta che non ne abbiamo mai parlato. Oh, e a proposito, fai anche finta di non aver mai ricevuto questa telefonata.

Patetico. Se stava prendendo un granchio, come di secondo in secondo le sembrava sempre più probabile, avrebbe fatto una figura di una stupidità unica e Carruthers avrebbe creduto che il cervello le avesse dato di volta definitivamente.

Con un sospiro, Jennifer si alza, sollevando contemporaneamente il secchio pieno d'acqua con la spugna che galleggia in superficie, dirigendosi verso il bagno. Tuttavia, qualcosa doveva fare. Si sarebbe sentita troppo in colpa se non avesse almeno cercato di rimediare parzialmente. E poi non riusciva a cancellare dalla mente lo sguardo che Carruthers le aveva dato prima di girarsi ed uscire da casa sua senza una parola. Forse era stato proprio quello sguardo a dare il via a tutto il treno di pensieri che aveva formulato su di lui.

La verità era che nelle ultime ore, da quando improvvisamente il mondo aveva ricominciato ad avere una sua prospettiva, Jennifer aveva riconsiderato un po' tutto il suo atteggiamento nei confronti degli altri, e aveva incominciato a chiedersi se alcuni suoi giudizi non fossero stati troppo superficiali e precipitosi. Ma poi c'era stato il sogno, e subito dopo la visita improvvisa ed inaspettata del poliziotto che l'aveva spiazzata, facendo riemergere come un improvviso rigurgito acido parte di quel rancore e portandola sull'orlo di una vera e propria crisi che, una volta passata, l'aveva lasciata svuotata di ogni energia, come l'ultima grande ondata di una tempesta che aveva lasciato dietro di sé una quiete irreale. E lei d'un tratto non aveva più voglia di odiare, né di crogiolarsi nella sua rabbia e nel suo dolore.

Aveva solo voglia di pace. E voglia di comunicarla a qualcuno.

 

 

(42) Carruthers

 

Nella sua ormai lunga vita di poliziotto, il capitano George Carruthers raramente aveva vissuto un giorno peggiore. Fin dai quei primissimi anni in cui poco più che ventenne percorreva in su e in giu la vecchia Union Street (che adesso si chiamava JFK Street), in compagnia di Ray Lewis, vero nome Raimondo Luisi, italoamericano di seconda generazione, che appena raggiunta l'età della ragione era corso a farsi cambiare il nome in qualcosa di più yankee. Ray era solo di una decina d'anni più vecchio di lui, ma già si sentiva un veterano, visto che un poliziotto che raggiungeva e superava i trenta in quelle zone aveva pieno diritto a considerarsi un anziano.

Non che non ne avesse avute di giornatacce, anche terribili: il giorno della rapina alla Chesterton Jewelry, per esempio, un morto, tre feriti e quel pazzoide di rapinatore che era uscito sparando all'impazzata, urlando "Faccio una strage! Faccio una strage!". Aveva sentito distintamente due proiettili fischiargli a non più di un dito dalla testa e gli c'erano voluti un paio di abbondanti whisky lisci per riprendersi un po'. O quella volta del ragazzo che aveva massacrato quasi tutta la sua famiglia, madre, padre e nonna, risparmiando solo la sorellina, e poi era salito sul tetto con la carabina del padre, puntandosela alla gola, pronto a farsi saltare la testa. Alla fine erano riusciti a fermarlo (chissà perché poi, visto che con quelle imputazioni avrebbe rivisto la luce del sole per il suo settantacinquesimo compleanno), ed era venuto fuori che l'aveva fatto perché era stato bocciato e non sapeva come dirlo ai suoi. E naturalmente, c'era stata la notte dell'Amazzone.

Ancora oggi, quando gli capitava di ripensarci, non riusciva a credere a quello che aveva visto. Ma tutte le cose inverosimili accadute in quella notte impallidivano davanti all'immagine di Jennifer che con gli occhi gonfi e arrossati di pianto e i tratti del viso stravolti dalla disperazione gli urlava contro tutto il suo odio, mentre stringeva tra le braccia il corpo senza vita di quella ragazza. Aveva creduto che quella fosse l'esperienza più angosciante della sua vita, fino a quel mattino, quando aveva rivisto lo stesso sguardo di odio negli occhi di lei, come se non fosse passato un giorno o un'ora da quel momento. E tutte le sue speranze che Jennifer potesse prima o poi perdonarlo erano crollate. Perché ci aveva sperato, sperato davvero.

Quando l'aveva raggiunto al distretto per interrogare la testimone, e quando più tardi avevano avuto quel colloquio davanti ad una tazza di caffé, come una volta. Ci aveva sperato anche quando si erano lasciati sulla soglia di casa sua e lei gli aveva detto che non poteva dimenticare. Si era detto che era solo la tensione, e un po' anche la testardaggine, ad impedirle di recedere dal suo atteggiamento tutto in una volta, ma che comunque era un inizio, un piccolo passo verso la possibile ricostruzione di un'amicizia. Un cammino duro, difficile, certo, ma qualcosa si era smosso, lui ne era sicuro.

E poi, quell'infelice, disgraziatissima idea di andare a trovarla. Come gli era venuta in mente? Era la cosa più sbagliata che potesse fare in quel momento. Avrebbe dovuto prevedere la sua reazione. E tuttavia era andato. Incontro al suo destino, come se lo spingesse un inconsapevole desiderio di rovinare tutto. Perché lui non meritava di riconquistare la sua stima e la sua amicizia e dentro di sé lo sapeva bene.

Ti ho visto e sentito quella notte, cosa credi?Avevi appena visto morire un'innocente, e ti comportavi come... come... se non ti importasse niente.

Quelle frasi gli sarebbero risuonate nelle orecchie per molti anni a venire e avrebbero continuato a ferirlo come coltellate, ogni volta come se fosse la prima. Perché aveva permesso che succedesse?

Si era raccontato per mesi che non aveva avuto altra scelta, che doveva eseguire gli ordini, ma sapeva che erano solamente balle. Avrebbe potuto condurre l'operazione in cento altri modi, senza che succedesse quello che era successo, o al limite avrebbe potuto mandare al diavolo tutto, lasciando scappare l'Amazzone e all'inferno il procuratore e tutte le sue manovre. Quella donna in fondo non aveva fatto nulla di male, aveva salvato delle vite, preso a calci un paio di delinquenti e gli unici due uomini che aveva eliminato erano uno stupratore ed un sadico potenziale omicida. Tutta roba per cui avrebbero dovuto darle una medaglia, e invece quello stronzo di Ballister aveva progettato il disastro e lui l'aveva eseguito come... come aveva detto Jennifer? Un'arma obbediente ed efficiente.

Obbediente, forse, ma efficiente? Si era comportato come un'idiota e aveva causato inutilmente la morte di quella ragazza. E tutte le volte che, come ora, si era fermato a chiedersi perché mai avesse agito a quel modo, non era mai riuscito a trovare una spiegazione. La sua mente continuava a girare intorno a qualcosa che però lui non riusciva mai ad afferrare, e alla fine si era stancato di pensare e aveva cercato di riporla nell'angolo più nascosto della memoria, sepolta sotto strati e strati di dovere compiuto e coscienza tranquilla, ma sapeva benissimo che era solo una finzione. E anche Jennifer l'aveva capito.

E' questo il prezzo che devi pagare per ottenere perdono, gli aveva detto, e non sto parlando del mio perdono, ma di quello della tua coscienza.

Anche lei aveva visto nei suoi occhi il senso di colpa che lo tormentava? E allora come poteva aver pensato che non gli fosse importato nulla, che potesse non aver provato nulla nel vedere quella poveretta morta ai suoi piedi a soli ventitre anni? Lo aveva pensato perché lui era stato troppo stupidamente orgoglioso per ammettere il proprio errore. Aveva ignorato quel nodo allo stomaco e aveva recitato fino in fondo il suo ruolo di sbirro cinico e spietato alla Clint Eastwood che dopo l'ennesima impresa si allontana con un sorriso sardonico e la pistola fumante. Un'interpretazione perfetta, ma chissà se anche Clint correva subito dopo in bagno per vomitare l'anima? Lui l'aveva fatto. Appena chiusasi la porta di casa alle spalle quella notte si era precipitato alla tazza del water e aveva creduto di morire lì. Lo avrebbero trovato la mattina dopo, quando qualcuno l'avrebbe mandato a cercare perchè non si era presentato in ufficio e non rispondeva al telefono, stroncato da un infarto fulminante con la faccia immersa nel proprio vomito. Invece Dio, o chi per lui, non era stato così misericordioso, e lui aveva dovuto continuare a vivere la sua vita con un peso enorme in più sulle spalle e addosso l'odio di una persona, che apprezzava e stimava come nessun'altra, che adesso non sopportava più neanche la sua vista. Ed ora che forse si poteva ricominciare a rimettere in piedi qualcosa...

Denuncialo! Sputtanalo davanti a tutti!

Certo, come no. Era proprio da lui. Se la strada per poter tornare a considerare Jennifer sua amica passava da lì, era meglio metterci subito una bella pietra sopra. Sapeva già che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa simile. Finire sui giornali, entrare in guerra col sistema. Lui era solo un poliziotto. Uno di quei piedipiatti vecchio stile che si era fatta tutta la gavetta, sudandosi ogni minima promozione o avanzamento. Avrebbe preferito affrontare dieci delinquenti, armato solo di una scacciacani piuttosto che trovarsi in una situazione del genere.

No, Rowles, mi dispiace, non fa per me.

Eppure, quando lei gli aveva rivolto quelle parole, per un attimo, un singolo momento isolato nello scorrere del tempo, lui aveva davvero desiderato di poterlo fare, e se ne era sentito profondamente meravigliato. Era uscito, con la coda tra le gambe dalla sua casa, diretto alla riunione indetta in procura a cui erano stati chiamati tutti gli ufficiali responsabili dei vari distretti coinvolti nelle gesta di quel rivoltante assassino, ma cullandosi in fondo alla mente l'eventualità di andare finalmente da Ballister a dirgli tutto quello che pensava di lui, annunciandogli subito dopo che avrebbe convocato i giornali raccontando quello che aveva fatto. Quell'idea lo aveva accompagnato per tutto il tragitto, mentre immaginava la faccia del procuratore e se stesso circondato di reporters, sommerso da decine di microfoni. Era stato un bel sogno, finché era durato. Ma poi era tornato alla realtà, in una stanza gremita, sì, ma solo da suoi colleghi, tutti tesi ad ascoltare Ballister che li rimbrottava per gli scarsi risultati ottenuti, e che in pratica lo scaricava da dirigente in pectore dell'intera operazione assegnando a ciascuno di loro uguali responsabilità nella conduzione del caso, in cui avrebbero dovuto lavorare come un'unica task force, condividendo le varie informazioni raccolte.

Sotto gli sguardi lanciatigli di sottecchi dagli altri (la conclusione di un incontro del genere poteva essere solo che Ballister non lo ritenesse all'altezza di continuare da solo nell'indagine), Carruthers non sapeva se sentirsi più offeso o sollevato. In fondo, lui per primo non si considerava in grado di affrontare da coordinatore un'operazione di quella portata e una bella mole di lavoro e di responsabilità gli veniva tolta dalle spalle, ma non poteva fare a meno di provare una punta di umiliazione. Aveva avuto tra le mani un incarico importante e non aveva saputo portarlo a termine. Le due operazioni più importanti che gli erano state assegnate nell'ultimo anno si erano entrambe concluse con dei completi fallimenti da parte sua, e non importava che nell'affare dell'Amazzone, Ballister avesse raggiunto il suo scopo. Lui sapeva di non aver fatto il proprio lavoro come avrebbe dovuto.

Dopo i saluti e gli incoraggiamenti di prammatica, il procuratore aveva lasciato l'aula e uno ad uno gli altri ufficiali e dirigenti si erano allontanati a loro volta, finché alla fine era rimasto solo a guardare intorno a sé le file di sedie vuote, mentre le voci svanivano in lontananza nei corridoi. Lui non aveva neanche parlato, né cercato di avvicinare il procuratore. Poi, lentamente, si era alzato e aveva preso la direzione dell'uscita. Il suo dovere in quel momento, forse sarebbe stato quello di unirsi agli altri e cominciare a prendere accordi per il lavoro da svolgere nell'immediato futuro, ma in quel momento non gli importava molto. In quel momento non gli importava di nulla, nè dell'assassino, nè delle sue vittime, né della sua carriera, nè tanto meno dei suoi capi o dei suoi colleghi.

Scendendo la rampa di scale che separava l'ingresso della procura dalla strada, perso in pensieri di cui gli è difficile seguire il filo logico, il capitano infila le mani nelle tasche del soprabito, quando il suo cellulare comincia a squillare. Carruthers estrae di tasca l'apparecchio e cerca sul display il nome della persona che lo sta chiamando. E forse per la prima volta, in quella pessima giornata, sorride.

 

           

(43) Xena

 

E ora gli alberi non sembrano più così immobili, mentre la guerriera corre disperatamente attraverso la foresta, la spada sguainata, schivando tronchi che le si parano davanti all'improvviso, saltando radici che paiono quasi sollevarsi al suo passaggio e tagliando rami che le pare si abbassino invece a cercare di afferrarle i capelli, le braccia, lasciandole qualche profondo graffio sulla pelle. E quell'ululato che sente in sottofondo, è solo il vento che soffia tra le foglie o è la loro voce che finalmente nel buio della notte può farsi udire?

Ma tutto questo a Xena non interessa, così come non le interessa la tempesta che le si sta scatenando nello stomaco e che da un attimo all'altro minaccia di eromperle attraverso l'esofago, così come non le interessa l'indurimento quasi doloroso che sente nei muscoli delle gambe in quella corsa incessante, ben lontana dall'andatura rapida ma controllata che aveva tenuto all'andata.

Ora qui non c'è niente di controllabile. A cominciare dal panico totale in cui si trova e che le impedisce anche minimamente di fermarsi un momento a riflettere su quello che sta facendo o su dove sta andando. Non c'è tempo per pensare. Il terrore che ha udito nella voce di Olimpia dentro la sua mente non lascia spazio alle esitazioni. Non può fermarsi neanche a chiedersi come possa aver sentito improvvisamente tanto terrore, quando fino ad un attimo prima quel sottile, inspiegabile filo che le lega non aveva lasciato filtrare la più piccola sensazione di pericolo. Lo sconvolgimento mentale e fisico che l'ha travolta ha cancellato in lei ogni minima traccia di razionalità.

Olimpia è in pericolo mortale, è l'unica cosa lontanamente simile ad un pensiero coerente che riesce a formulare autonomamente in quell'orrida caverna piena di eco sinistre che è diventata la sua mente e nient'altro conta.

Immagini, immagini terrificanti le appaiono davanti agli occhi come fulminei lampi di luce, in successione continua, a fare da cornice visiva alle urla che continua a sentire nelle orecchie. Visioni di Olimpia, trascinata per i capelli da qualcosa di enorme ed invisibile, artigli immateriali che si conficcano nelle sue carni, mentre lei cerca inutilmente di liberarsi e urla il suo nome, invocandola.

Il mostro.

Quell'essere abominevole ha preso la sua compagna. La sta portando alla sua tana per fare di lei ciò che ha fatto delle sue altre vittime. Sbranarla. Divorarla. Appendere le sue carni ad essicare per futuri pasti. Le immagini le si succedono nella mente una dopo l'altra come le illustrazioni di un libro, una di quelle strane cose che Olimpia l'aveva portata a vedere anni prima ad Atene, composte di tante pergamene disegnate e sovrapposte che sfogliate velocemente davano l'impressione di guardare figure in movimento. Allora, l'effetto l'aveva incuriosita e discretamente sorpresa, provocando di riflesso in Olimpia  l'evidente soddisfazione di essere stata lei per una volta a mostrarle qualcosa che non conosceva, ma adesso ciò che le provoca è un'annicchilente sensazione di orrore, un'orrenda strisciante premonizione che sente scorrerle sotto la pelle e che le dice che è

troppo tardi, è già troppo tardi. Ciò che vedo appartiene al passato. L'ha già uccisa, l'ha già squartata. Ha già appeso i suoi poveri resti ad asciugare come un manzo macellato e l'urlo che sento nella mia mente è solo l'eco della sua voce che si è ormai spenta.

E come in risposta a questo pensiero, improvvisamente come erano arrivate le grida s'interrompono così di colpo da sbilanciarla quasi nella sua corsa. Riconquistato miracolosamente l'equilibrio, si ferma di scatto, afferrando il grosso tronco di un albero, appoggiandovisi e guardandosi intorno smarrita.

Le urla di Olimpia erano state un'indicazione, un faro nel buio della notte che l'aveva guidata per puro istinto verso la loro origine. Ma ora che non le ode più, anche il sentiero che sembrava tracciato e che aveva seguito fino a quel momento senza la minima esitazione, pare svanito con loro.

Devi riuscire a concentrarti. Pensa.

Scrutare nel buio che la circonda non serve a niente e Xena chiude gli occhi, lasciando che i suoi altri sensi si estendano in tutte le direzioni, cercando di isolarsi da quella sensazione di panico che l'ha invasa e che tutt'ora le morde lo stomaco come una belva affamata.

Lei è viva. E' viva! Non può essere morta. No. No! Calmati. Calmati! E cerca.

Non si ode un singolo suono nella foresta. Gli animali, se mai ve ne sono in quel luogo, sembrano ammutoliti, forse anche spaventati dal rumore che ha provocato lei stessa nella sua corsa disperata. Inspirando ed espirando lentamente, la guerriera sente gradatamente il ritmo del proprio cuore rallentare fino quasi a raggiungere la normale regolarità nel battito e due sensazioni strane, improvvise e contrastanti la colpiscono contemporaneamente. Un forte odore di marcio e di cose in putrefazione le arriva repentino alle narici costringendola a chiuderle immediatamente ed insieme un'ondata di calore che le è molto familiare la invade completamente. Qualcosa che è come un balsamo che le scorre addosso, attenuandole quasi istantaneamente la paura che le impediva di pensare lucidamente.

Olimpia?! Ma come...?

La sicurezza che aveva avuto fino a quel momento che Olimpia fosse in pericolo, anzi che fosse già morta, se n'è andata. Ora può avvertire chiaramente la sua presenza attraverso quel legame che le unisce, inquieta, anche un po' angosciata forse, ma senza più tracce di quel terrore cieco che la pervadeva.

Gli occhi le si riaprono, quasi per volontà propria, e allora vede la caverna.

E' a non più di dieci passi di fronte a lei, esattamente in linea con la direzione che teneva nella sua corsa. Se le urla nel suo cervello non si fossero spente d'un tratto, costringendola ad arrestarsi, vi sarebbe sicuramente caduta dentro, perchè i suoi sensi completamente obnubilati dalla paura non le avrebbero consentito di scorgerla in tempo.

E' abbastanza ampia, cinque braccia, forse di più. Si apre improvvisa nel terreno tra le radici intrecciate degli alberi intorno, alzandosi poi verso l'estremità opposta sotto quella che pare nel buio una vecchia quercia nodosa, le cui grosse radici paiono essersi quasi sollevate come le tende di un sipario per farle da cornice. L'aspetto è singolarmente simile all'ingresso di un tempio con altre radici, più piccole, che pendendo dall'alto o sporgendosi dal basso formano quasi una fila di piccole colonne. Oppure...

Una fila di denti. Ecco cosa sembrano. Nessun sipario. Nessun tempio. Quella è una bocca, una mostruosa bocca che sorride maligna e famelica, mettendo in mostra un fila di denti appuntiti. Zanne grondanti saliva che aspettano solo di potersi conficcare nel mio corpo...

(No! Smettila! SMETTILA!!)

Non doveva farsi riprendere dal panico. Non era niente di tutto questo. Era solo una caverna, una cavità nel terreno che la sua fantasia aveva trasformato in un'immagine demoniaca.

La sua fantasia? Ma se non ne aveva mai avuta? Olimpia la prendeva spesso in giro sulla sua assoluta incapacità di pensare in termini fantastici o di costruire storie. Non è una delle tue tante doti, soleva ripeterle con un sorrisetto talvolta irritante. E allora?

E da dove venivano quelle immagini orride che l'avevano accompagnata nella sua corsa a perdifiato attraverso la foresta? Il legame che c'era tra loro non c'entrava e non aveva mai funzionato così e a quell'intensità provocandole quasi un malore. No, Olimpia non era mai stata in pericolo, ne era certa adesso, e c'era certamente qualcosa di sbagliato in tutta quella situazione. Qualcosa che aveva a che fare con quell'abisso oscuro, più buio della notte, davanti a lei.

Devo pensare, riflettere, riprendere pieno possesso della mia mente.

La prima cosa da fare era stare a distanza dalla caverna. Olimpia non era là dentro e non c'era mai stata e qualunque cosa ci abitasse invece aveva cercato di usare l'amore che provava per la sua compagna per attirarla. In qualche modo, la cosa nella buca l'aveva raggiunta, sondata e, trovato il suo punto debole, l'aveva sfruttato a dovere per spingerla a correre tra le sue fauci, per dilaniarla, masticarla...

(SMETTILA! SMETTILA!! SMETTILA!!!)

E' lui! E' lui che mi mette nella mente questi pensieri. Devo andarmene, allontanarmi subito. Non sono pronta ad affrontarlo. Non adesso. Non qui.

Ma le gambe sembrano inchiodate al suolo e il buio nella bocca (Buca! E' una buca!!) pare lentamente strisciare fuori, coprendo a poco a poco terra, erba, radici, invadendo come acqua nera ogni anfratto, ogni dislivello e avanzando inesorabilmente verso di lei. E quel buio porta voci con sè. Suoni di un passato riposto, ma mai dimenticato.

Siamo qui per te, Xena. Siamo sempre stati qui solo per te. Era te che attendevamo. E ora sei nostra. 

Ombre che prendono forma come emergendo dal liquido scuro, adesso più simile a del vapore, che ora quasi arriva a lambirle le caviglie, mentre volti si rivelano alla luce della luna.

Ma non c'è luna che possa pentrare nel buio di questa foresta. Non si distingueva quasi nulla fino ad un momento fa.

Aristarco, Seleuco, Erodoto, Perdicca, ora stanno di fronte a lei, immagini pallide ed esangui di coloro che una volta erano stati, e dietro di loro sembrano agitarsi decine di altre ombre, impossibili da identificare, ma le cui voci si accavallano le une sulle altre senza soluzione.

Perché non mi hai mai...

Madre, come hai...

...amato come ami lei? Io ti ho...

Tu hai sedotto mia figlia...

...potuto abbandonarmi?

Hai lasciato che Callisto...

...dato un figlio.

...mi uccidesse, perchè volevi...

... e me l'hai portata via...

Credi davvero che lei...

...che Olimpia tornasse da te...

...ricambi il tuo amore, Xena?

...ma lei aveva scelto me.

Come si può amare una...

...maledetta pervertita.  

...vagabonda assassina come te?

Con tutta la forza di volontà che riesce a raccogliere, Xena cerca disperatamente di muoversi, di chiudere la mente a quelle voci, a quelle facce (No, basta. Ci sono già passata centinaia di volte. Non ti permetterò di risvegliare questi incubi.) ma le sue gambe sembrano paralizzate, assolutamente incapaci di muovere anche un solo passo e l'unica cosa che riesce a fare è restare lì, soccombendo al fascino perverso di quelle immagini e di quei suoni, mentre le sinistre figure tendono verso di lei braccia magre e ricoperte di una pelle gialloverdastra da cui pendono lembi in decomposizione.

Sono io. Sta usando i miei sensi di colpa contro di me. L'odio che provavo per me stessa per spingermi ad entrare nella sua tana. Ma questo è il passato. Il passato! Io non sono più così. Ho pagato i miei debiti. Li ho pagati ad usura!

Con un ultimo disperato sforzo, la guerriera riesce finalmente a muoversi, arretrando davanti ai suoi persecutori, un attimo prima che le loro mani l'afferrino.

Ma non avrebbero potuto farlo davvero, no? Sono solo fantasmi, fantasmi della mia coscienza e nient'altro, vero?

Il suo pugno si chiude sull'elsa della spada, che aveva quasi dimenticato e la lunga e pesante lama viene puntata davanti a sé, mentre ora decine di figure, quasi totalmente indistinguibili la stanno circondando.

Cosa vuoi fare con quell'arma?

Ucciderci di nuovo?

Non puoi. Non più.

Lo hai già fatto.

Ora puoi solo morire.

Le voci sembrano adesso diventate una sola, un unico immenso coro cacofonico che le rieccheggia nella testa, sommergendo ogni pensiero, e Xena si getta in avanti, mulinando la spada follemente. La lama fende l'aria, attraversando senza alcun effetto il petto di Aristarco, la gola di Perdicca, le braccia di suo figlio, ma la guerriera non smette di colpire, ferocemente, spietatamente, ventri, teste, spalle, incurante che neanche una goccia di sangue sgorghi dalle ferite, sorda alla sua stessa mente che la incita a smettere quell'inutile battaglia e a fuggire. Sorda anche ad un'altra voce che le urla nelle orecchie qualcosa di incomprensibile.

Poi d'improvviso il mondo esplode in una miriade di luci colorate, un attimo prima di precipitare nell'oscurità.

 

(7 - continua)





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