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Vola al di là della neve

di Svetlana Yaroslavna  Puskovic

 

 

 

21 Le vicende di Lara


Stati Uniti, New York city
La corona sulla statua della libertà incrociò i primi raggi del mattino opponendo le sue punte in rame. Un alito denso di vapore sfiorò un venditore ambulante di hot dog fra le strade di Manhattan. Gli scoiattoli di Central Park piroettavano fra le cortecce d’abete, ignari della metropoli che lambiva il loro habitat. Milioni di storie, di gente, e di realtà differenti, brulicavano in perpetuo movimento fra i boulevard e le streets di un multiverso chiamato New York.  Lara strabuzzò gli occhi di scatto, drizzando le spalle sulla panchina in cui sedeva: lo sferragliamento di un treno in corsa al binario centrale riuscì a spezzarle il sonno per l’ennesima volta. Annaspante, la giovane condusse una mano al petto, quasi temesse che il cuore potesse schizzarle via, poi tentò di dominare il respiro e a più riprese ingoiò profonde boccate d’aria che sapevano di galleria. Per l’ottava mattina consecutiva, dopo il suo clandestino sbarco a New York, Lara si svegliò nel trambusto di una stazione metro.   Non era la stazione della mattina precedente, ma lo spettacolo offertole da quel mondo sotterraneo fu il medesimo: una fiumana d’individui che si riversava dai vagoni alle banchine e viceversa.  Lara si mise in piedi per stirarsi con le braccia all’insù, la sua schiena protestò scricchiolando, ma la giovane non poteva offrirle un giaciglio migliore di una scomoda panchina nella “Off-our Waiting”, una zona speciale posta all’interno di ogni stazione, dove il personale di servizio video sorveglia i passeggeri in attesa dei treni. La stanchezza gravò inesorabile sul fisico della giovane, Lara capì di essere allo stremo delle forze, in procinto di un collasso. Da ben otto giorni si cibava consumando pasti frugali e insufficienti al suo fabbisogno, e quando il buio calava inesorabile, s’inoltrava nelle profondità del sottosuolo per sonnecchiare al riparo dal freddo. Tutto ciò non era efficace a scoraggiarla, non quanto la possibilità che il suo passato maligno la rivendicasse al proprio cospetto, impedendole di conquistare il dovuto riscatto. L’ennesimo treno raggiunse la stazione e operò una breve sosta per consentire ai viaggiatori di salire. Lara si diresse all’interno del primo vagone e prese posto, un appuntamento decisivo l’attendeva cinque stazioni avanti. Le porte automatiche si chiusero e il convoglio partì alla volta di un tunnel oscuro.  I volti dei passeggeri parevano uggiosi quella mattina, come se raffigurassero il fardello della routine che gravava sul loro ego. Taciti s’ignoravano, peregrinando lo sguardo e impegnando la mente in articolate trame di pensieri. Lara condusse una mano alla bocca sbadigliando, mentre le sue palpebre si facevano pesanti, così pesanti, che la giovane smise di contrastare la loro discesa e si assopì. Cominciò a sognare… La Far Dream era in rada al porto di New York. Nel suo sogno, Lara riusciva a scorgerla dalla terraferma, benché non fosse ancora scesa; poi tornava a bordo, e apprezzava la pioggerellina lieve che le tamburellava sulle gote. Sul ponte di coperta il membro dell’equipaggio la raggiunse parlandole con voce echeggiante – Ci siamo. Devi abbandonare la nave prima che attracchi. –
- In che modo? – Strillava lei mentre il sogno cambiava sipario. Ora la pioggia si era infittita. - Dovrò calarmi da quella scaletta? –  Domandò Lara osservando l’uomo srotolarla giù per la fiancata dello scafo.
- Questa è una biscaglina. – La delucidò l’uomo – I montanti sono di corda ben resistente e gli scalini di legno. Fa attenzione e andrà tutto bene. –
- E se qualcuno dovesse vedermi? –  Si preoccupò la ragazza, mentre dal porto una piccola imbarcazione faceva rotta verso loro. L’uomo eluse la domanda e le fornì un giubbotto di salvataggio.
- Indossalo, e tieni le mani salde ai montanti mentre scendi gli scalini, non sbilanciarti con la schiena all’indietro. -
- Mi spieghi un’altra volta cosa debbo fare. – Incalzò Lara, angosciata da quel faro che avanzava sulle acque portuali e si avvicinava progressivamente facendosi più luminoso. L’uomo le poggiò entrambe le mani sulle spalle e le parlò tenendo in pugno la sua attenzione.
- Vedi quel natante che procede verso noi ? – Lara annuì – Bene, sta trasportando il pilota. –
- Il pilota? – Ripeté la ragazza in cerca di delucidazioni.
- Proprio così. Si tratta di una figura professionale che ci raggiungerà a bordo al fine di consentire la manovra d’attracco. Il mio compito è quello di accoglierlo e condurlo al ponte di comando. Adesso devi nasconderti e attendere che io mi sia allontanato assieme al pilota, a quel punto ti calerai giù fino a raggiungere la pilotina che l’ha condotto a bordo. –
- Quindi devo attendere che lui si issi da questa scala, prima di scendere a mia volta? –
- Niente affatto! Il pilota non salirà certo da qui, ma tu potrai vederlo imbarcarsi da quassù, e subito dopo comincerai la tua discesa. - I lineamenti della giovane assunsero le curvature dell’angoscia.
- E se la barca non dovesse attendermi? – L’uomo scosse il capo.
- Impossibile. Il comandante della pilotina non tornerà indietro se prima non ti avrà a bordo. –
- Perché dovrebbe farlo? – Chiese Lara titubante. - Perché è parte del piano anche lui. Cosa credi: metà dei tuoi denari sono finiti in tasca sua! Io ti ho fornito una copertura a bordo, e ora il mio compito è assolto, non spetta a me scortarti  sulla terraferma, né fornirti i documenti che ti occorrono; a questo penserà lui. –
L’altoparlante sul vagone della metro s’insinuò come una biscia nel sogno di Lara dissolvendolo all’istante. Lara languì senza capire, disturbata da quella voce artificiale, poi la udì nuovamente e capì di esser giunta a destinazione. – E’ la mia fermata! – Strillò, Mentre spedita sfidava le porte automatiche che si avvicinavano progressivamente.  Dalla borsa tirò fuori il coupon che per caso aveva trovato abbandonato su una panca alla stazione di Times Square. Illustrava in merito a una certa pratica chiamata driwe away, molto diffusa negli U.S.A. La società di drive away illustrata dalla brochure, era una società newyorkese che permetteva ai turisti o a chi lo desiderasse, di trasportare auto di proprietà, dalla East coast alla West coast. In genere le auto appartengono a privati trasferitisi dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico, che per motivi economici preferiscono mettere a disposizione il proprio mezzo a chi desideri intraprendere un viaggio in auto attraverso l’America. I vantaggi sono per entrambi, per il proprietario della macchina che risparmia molto sul trasporto, e per il turista eventuale che viaggia gratis, col solo onere di rispettare il regolamento imposto dalla società di drive away.

22 Mete sfumate, risvolti imprevedibili

Una notte, sì, appena una notte per imboccare un sentiero che non ammette ripensamenti. Chiunque asserirebbe che le decisioni importanti occorrono di tempo e oculate ponderatezze, ma come arrestarsi a riflettere su ciò che è saggio, quando un’arpia malefica ti sta ai calcagni minacciando di sottrarti ciò che di più caro possiedi?  Non saprei valutare in termini di senno e follia, la scelta che io e Astrel compimmo la scorsa settimana. Sono convinta che alcuni reputerebbero un gesto da forsennati, quello di riempire uno zaino e fuggire via dalle agiatezze di una scuola esclusiva; e se ripenso al trascorso recente, a tutte le impervie che ci hanno visto protagoniste, mi vien quasi di pormi in accordo con loro. Ci siamo comportate da perfette adolescenti, impulsive e inesperte. Tuttavia, se ora Astrel passeggia placida al mio fianco, è in virtù di quella fuga tanto folle, quanto necessaria. Probabilmente vi starete chiedendo quale reazione spropositata ha orchestrato la Rosencrans nel momento in cui si è accorta della nostra assenza; beh, di certo non è rimasta con le mani in mano a rimuginare sulla disfatta, e astuta ha conquistato i palinsesti dei notiziari tv per sollecitare l’aiuto dei telespettatori. La sua mossa successiva è stata quella di allertare le forze dell’ordine, e di tappezzare l’intera Mosca con i nostri volti da fototessera.  Al momento la polizia si arrovella per individuare la causa che ci ha condotto alla fuga, ignara di ciò che la Rosencrans volutamente ha taciuto: la nostra aberrante relazione doveva rimanere celata, in modo da non compromettere il decoro dell’istituto.  I genitori d’Astrel, furibondi per il gesto sconsiderato della figlia, sono balzati sul primo aereo diretto alla capitale russa, e avidi di risposte seguono passo passo l’avvicendarsi delle ricerche. “Fuga volontaria o rapimento? ” titolava questa mattina l’Izvestia, “Adolescenti scomparse dal Majakovskij, non si esclude la pista della droga. ” Fantasticava invece il Moskovskie Novosti. Suppongo che alcuni termini quali: “fuga ”, “abbandono ”, “evasione ”, si affilino spesso al concetto di libertà nell’immaginario collettivo. Siamo soliti scappare da quello che ci opprime, che ci arreca malessere e disagio, recidiamo le catene con un gesto irreversibile, e finalmente la libertà si dipana limpida ai nostri occhi. Sì, Astrel e io eravamo libere quando scappammo da scuola, sgravate da ogni costrizione, perché lontane da un ambiente che imbrigliava il nostro spirito prosciugandone la linfa. Ciò non ha sancito tuttavia, la nostra vittoria; ci siamo affrancate dalla minaccia di una separazione, ma essa continua a darci la caccia. Cosa fareste voi al nostro posto? Braccati dai poliziotti come fosse abietti criminali, impossibilitati a lasciare la nazione e perfino la città poiché a corto di rubli. Questa mattina io e Astrel abbiamo salutato il giorno con un obbiettivo bizzarro, oppure geniale: Astrel dice d’averlo sognato, di averci immaginate sulla Transiberiana, senza biglietto e in corsa per distanziarci da Mosca quanto possibile.
- Il controllore potrebbe scoprirci, Astrel. – Congetturai sullo sfondo di un crepuscolo invernale, percorrendo la Mendeleevskaja ulitsa nel sud ovest di Mosca.
- Se ciò dovesse accadere, fuggiremo da lui, tanto per non perdere l’abitudine. –  Ironizzò Astrel procedendo al mio fianco.
- D’accordo, tentiamo. –  Replicai con voce assorta, impegnata a scrutare l’aspetto svigorito della mia compagna. Mi straziava vederla smagrita e impallidita, se solo ne avessi avute le forze, l’avrei condotta sulle spalle per evitarle di consumare ulteriori energie.
- Dove siamo dirette di preciso, Svetlana? – Domandò Astrel, sottraendomi dai pensieri bigi che vorticavano nella mia mente.
- Se è tuo desiderio allontanarti da Mosca attraverso la transiberiana, non posso che condurti alla stazione Yaroslavsky, è da lì che parte la linea ferroviaria. –
- Dunque è il capolinea! – Esclamò lei entusiasmata.
- Sì, l’inizio di un’avventura che attraverso due continenti, sette fusi orari, e ben novemila chilometri di tratta, ti conduce fino a Vladivostok, nell’estremo oriente siberiano. –Astrel distese le labbra avvinta, gli occhi le brillarono di stupore.
- L’intera Eurasia che scorre attraverso un finestrino, Oh, dev’ essere un’esperienza da sogno. – A un lato della strada che stavamo percorrendo, cinque uomini ghignavano passandosi l’un l’altro una bottiglia di vodka come fosse il testimone d’una staffetta. Astrel e io li notammo con parecchi metri d’anticipo, e un sentore di minaccia ci mise in allerta. Essi parvero non badare alla nostra presenza, soltanto uno di loro si sottrasse alle spacconate del gruppo e ci rivolse il suo interesse.  Astrel mi afferrò il polso e smise di camminare, a quel punto anch’io arrestai la marcia, incerta sul da farsi.  L’uomo avanzò verso me e la mia compagna pavoneggiandosi con un sorriso marpione. I suoi occhi nocciola, incassati nei lineamenti tarchiati del volto, parevano testimoni di verità inconfessabili.
-  Ci siamo già presentati, incantevoli signorine? – Esordì con mimica teatrale, imponendo la sua statura ciclopica. Non ricevette alcuna replica da parte nostra, e stranito dall’atteggiamento diffidente che gli riservammo, non poté che osservarci andar via di spalle.
- Aspettate! – Ci urlò raggiungendoci con una breve corsa, fu nuovamente innanzi i nostri occhi.
- Io vi conosco, siete le due ragazzine di cui parlano tutti i notiziari. – Affermò intrigato, covando una punta di meraviglia nell’incontrarci di persona, come se il fatto d’apparire in tv sancisse per lui il trovarsi innanzi a due stelle dello spettacolo.
- No, si sbaglia. – affermai determinata.
- Ci sta scambiando per delle altre. – Aggiunse Astrel trasmutata dall’ansia.
- Bah!  Io non mi sbaglio, siete proprio voi. –
- Dunque cos’è che vuole? Intende avvertire la polizia? Magari ci ammanetta a una barra prima, in maniera da facilitare il lavoro agli agenti! – Lo provocai, spazientita dalla sua ostinatezza. Lui enfatizzò una sciocca risata gutturale, e accattivato  dissentì con l’indice destro.
– Vacci piano, ragazzina, Il povero Ruslan vuole solo aiutarvi. –
- Ruslan. Ti siamo grate, ma la tua carità non ci occorre. – Sentenziò Astrel, risentita dall’atteggiamento sornione dell’uomo.
– Certo, immagino sappiate badare a voi stesse, per ciò avete l’aspetto di due straccione. Se passassi al setaccio le vostre tasche non rinverrei l’ombra di un rublo, e senza quattrini, bellezze, siete spacciate. – Giudicai quell’uomo uno sbruffone inopportuno, di certo Astrel convenne con me, ma le sue spicciole considerazioni, infarcite di blandi luoghi comuni, riuscirono a focalizzare una lampante verità.
- Sì, non disponiamo di parecchio denaro, ma siamo salde nello scopo che ci siamo prefisse, e sarà la determinazione a consentirci di spuntarla. - Sostenne Astrel facendo per andare. L’uomo dissentì beffardo.
- Il pane si acquista con i soldi, non con la determinazione. Se sareste così magnanime da concedermi un istante del vostro tempo, magari, potrei offrirvi un lavoro. – Ci sorprese lui, ritoccando i toni acerbi del suo atteggiamento con dei tratti più pacati.
- Un lavoro? – Ripetemmo entrambe all’unisono con la voce carica di sorpresa.
- Sì, posso rimediarvi un impiego al mio locale. – L’uomo che diceva di chiamarsi Ruslan, indicò una porta di metallo con lo stipite rugginoso.
- Coraggio, accomodatevi pure. Certo, l’ingresso non rende giustizia all’eleganza degli ambienti interni, ma che posso farci se siete passate dal retro. –
- Che genere di locale gestisce? – Domandai.
- Uno di quelli che si anima quando il sole scompare: un nightclub. –
I miei occhi si congiunsero a quelli insospettiti di Astrel.
- E, la mansione che dovremmo assolvere all’interno del suo locale? – Lo interrogò la mia compagna facendosi ambasciatrice di entrambe. L’uomo scelse di non avvalersi del linguaggio per replicare, e sardonico mimò i movimenti erotizzanti di una ballerina di lapdance.   Fu ricambiato dal nostro dispregio, ma egli, noncurante, proseguì nelle vesti del personaggio e ondulando il bacino si calò fino all’asfalto. Astrel e io ci allontanammo basite, a quel punto Ruslan smise di trastullarsi e si tirò su con una smorfia di fatica.
- Oh, accidenti! Non abbandonatemi.  –
- E’ un folle. – Commentai proseguendo celere, Astrel annuì. Una goccia d’acqua zampillò sulla mia guancia, ne sopraggiunse un’altra, e a seguire ancora una. Il cielo inclemente officiò il vigore della natura e su Mosca si abbatté un’improvvisa pioggia torrenziale.
Astrel si tolse il giaccone e tentò invano di farne un riparo per entrambe.
- Da questa parte! – Strillò quel grottesco individuo, agitandosi sotto il diluvio per indicare l’ingresso del suo locale.- Da questa parte, seguitemi. – Senza indugiare ci fiondammo all’interno del night club per ripararci dall’acquazzone. Le stoffe dei nostri indumenti s’erano fatte scure e pesanti, Astrel strizzò il suo giaccone ma non lo indossò, mentre copiose goccioline d’acqua macularono la moquette rosso vino che tappezzava il pavimento. Entrambe ci scrutammo intorno incuriosite dall’ambiente originale. Il locale si estendeva su due piani e su entrambi correvano lunghe passerelle munite di pertiche luminescenti. Tavolini dalla superficie specchiata e dalla base a spirale si assiepavano qua e là intorno alle passerelle, circondati da variopinte poltrone di plastica. Sulle pareti, un trionfo di neon fosforescenti si stagliavano graffianti in mezzo a pitture astratte. L’impianto psichedelico era in funzione e non mancò di lasciarsi ammirare per gli accattivanti giochi laser svelati dal fumo. Astrel e io ci arrestammo a seguire quei turbinii di fili sottili che scintillavano in ogni direzione, scontrandosi e intrecciandosi come le fantasmagoriche spade della saga Starwars. Il locale era chiuso al pubblico, dato l’orario pomeridiano, ma la musica palpitava già riscaldando il cuore di quell’antro festaiolo. Su una pertica vicino l’ingresso, una ragazza eseguiva acrobazie da pole dance, assistita da un’altra donna di qualche anno più vecchia, che indossava un succinto bichini rifinito da nastri neri.
- Non è un paradiso?  - La voce raggiante di Ruslan scampanò alle nostre spalle. Voltandoci lo scoprimmo intento ad asciugarsi la chioma rasata con un tovagliolo da ristorazione.   
- Sì, davvero un luogo interessante, ma andremo via non appena avrà spiovuto. – Ribadii fermamente. Ruslan gettò il tovagliolo per terra, poi fece cenno di raccoglierlo a una cameriera indaffarata a lucidare la superficie specchiata dei tavolini.
- Oh, vi prego, desidero soltanto parlarvi. Vi sarei infinitamente grato se mi evitaste le vostre tediose esitazioni, per concedermi un garbato momento d’attenzione. - Col suo dito grassoccio indicò un divano  angolare rivestito da una stoffa argentata. – Sediamoci. – Astrel si persuase, ma prima di seguire Ruslan sul divano mi osservò in cerca di un assenso.
- Ok, in fondo non ci costa nulla starlo ad ascoltare. – Mi decisi infine.
- Accomodatevi, prego. – Disse lui, avendo già preso posto; io e Astrel ci sedemmo l’una accanto all’altra.
- Sono un tipo dagli approcci diretti, perciò, non mi dilungherò in pleonastici giri di parole. E’ indubbio che vi occorre un alloggio e del vitto per far fronte alle vostre esigenze, io posso offrirvi ciò; cosa domando in cambio? Di lavorare per il mio locale come strippers. – Ancora una volta quell’uomo irritò la nostra sensibilità.
- Quale modo migliore per attirare l’attenzione su di noi. – Sbottai con inflessione graffiante. - In fondo, è questo ciò che desideriamo, che la Rosencrans ci becchi. - Conclusi, rivolgendomi alla mia compagna.
- Non è quello che intendevo. – Affermò Ruslan seccamente – Rischierei grosso anch’io se qualcuno venisse a sapere che vi ho assunto in nero. – Calò un momento di silenzio, Ruslan emise un colpo di tosse arrochita e si protese verso noi per troneggiare ancora la conversazione.
- dispongo di quattro sale privè dove si svolgono spettacoli su richiesta. Vi farei esibire solo d’innanzi a un pubblico selezionato, clienti affezionati di cui posso fidarmi; uomini opulenti, soprattutto quando si tratta di mance… - Fissai la mia compagna in cerca di qualcosa, probabilmente, di termini adeguati che esprimessero le mie perplessità.
- Riepilogando – Esordì  Astrel, mentre  giochi di luce colorata le scorrevano sui capelli – lei è disposto a offrici: vitto, alloggio, consentendoci altresì di guadagnare con le mance, il tutto in cambio di sesso? –  Ruslan guizzò sul divano trucidando la mia Astrel con un’occhiata ispida.
- Bada a ciò che blateri, ragazzina! Qui nessuno ha menzionato il sesso. Se credi di essere finita in un bordello dovrai ricrederti. – Astrel non si lasciò intimidire né persuader dall’arringa dell’uomo e con acume replicò.
- Dunque, cosa sarebbe spogliarsi e farsi palpeggiare dalle mani arrapate dei suoi amici? – L’uomo serrò i denti e truculento imboscò lo sguardo fra le sopracciglia. Inalberato scosse la testa, poi si abbandonò a un silenzio meditativo.  Astrel ed io ci attendevamo una replica immediata, eppure, l’uomo scelse di smorzare i toni dello screzio per rivalersi mediante un approccio meno discorsivo.
- Non hanno certo l’aria di due santarelline. -
Farfugliò, alzandosi dal divano e raggiungendo la pertica dove la ragazza di prima proseguiva il suo allenamento. Compiaciuto, Ruslan la osservò volteggiare intorno al palo e ne apprezzò la leggiadria, poi la ghermì dalla vita con una mano, mentre l’altra la usò per palpeggiarle un gluteo infossando i polpastrelli sulla carne. La giovane non protestò, ma allontanò la mano di Ruslan dal suo gluteo e tornò a eseguire acrobazie sul palo. - E’ questo ciò che vi spaventa? – Domandò Ruslan con la chiara intenzione di schernirci – Un umano contatto? Il sublime godimento che il pudore inibisce? Ahimè, non posso costringervi a fare ciò che non vi garba; a voi la scelta, dunque. Siete libere di decidere il ruolo che maggiormente vi si addice, potete essere le fuggiasche squattrinate, o accogliere l’irripetibile offerta che vi sto servendo su un piatto d’argento. –

23 Nudità è libertà

Sono passati dieci giorni da quando mia figlia è scomparsa, ma qui nessuno sembra capace di risolvere l’arcano! Come giustificare una simile inefficienza, direttrice Rosencrans? – Tuonò il signor Lawless marciando sul tappeto della presidenza.
- La sua baldanza mi irrita, signor Lawless, le suggerisco d’adottare toni meno concitati. – Replicò la Rosencrans padroneggiando l’autorevolezza della sua scrivania.
- Se lo gradisce, mi esprimerò in rime bucoliche, ma la sostanza non cambia: siete un manipolo d’incompetenti! - Strillò l’uomo battendo i pugni contro la scrivania della preside. La Rosencrans ispirò sgomenta, prima di ribattere fece incetta di burbanza.
- Sono ripugnata, signor Lawless, credevo che una tale rozzezza non si addicesse a personalità del suo calibro; ora mi spiego gli atteggiamenti dissoluti di sua figlia. -
- Che cosa intende insinuare? – Domandò l’impresario londinese, sostenendo con sfrontatezza l’insofferenza nello sguardo della preside.
- Io non insinuo, ma la inviterei a rivolgere il suo scontento verso coloro che stanno conducendo le indagini. -
- Così, è certa che non grava responsabilità alcuna su di lei? – La istigò l’uomo. La direttrice Rosencrans eruppe incollerita, sbrigliandosi dalla veste pacata che il suo ruolo prescriveva.
- Lei conosce la verità, signor Lawless. Entrambi la conosciamo. L’ignominia che aleggia nel suo ottenebrato sguardo tradisce quella sciocca ingenuità che ostenta. Ammetta d’aver generato una squilibrata, e comprenderà le ragioni che hanno condotto la sua cara figlioletta alla fuga. –
- Fuga?  Chi le garantisce che mia figlia sia fuggita? Non sono più persuaso da questa versione, per quale ragione, d’altronde, mia figlia sarebbe dovuta scappare? - La Rosencrans commiserò l’uomo scuotendo lentamente il capo.
- Magari, per concedersi una gradevole luna di miele con la sua compagna di stanza. - Il signor Lawless stava per ribattere, ma un rigurgito nervoso tranciò il suo respiro, mentre un’espressione obnubilata lo accompagnò verso l’uscita della presidenza.
Osceno è un aggettivo che sovente ricorre per esprimere sgomento e scandalo. Tutti noi, almeno una volta, abbiamo giudicato osceno un comportamento. Ch’issa perché, questo termine possiede un’assonanza peculiare con quelli che sono i tabù inerenti al sesso. “Atto osceno”, d’altronde, è praticamente sinonimo di atto erotico, e ogni volta che udiamo questa frase, nella nostra mente si attiva un canale preferenziale che ci convoglia alla sfera sessuale. Beh, personalmente ho imparato a erudire i miei pensieri, e a usare quest’attributo in maniera consona. “Osceno” per me è ciò che suscita scandalo, ma il sesso non mi ha mai scandalizzato. Se vi chiedessi qual è la ragione che v’induce ad abbigliarvi, a coprire alcune parti del vostro corpo anche quando il clima è torrido, probabilmente, obbiettereste che il mio quesito pecca di banalità; anch’io lo credevo, ma interrogandomi a mia volta, ho abbandonato questo pregiudizio in favore di un approccio più elastico. Se provaste a dare adito al mio interrogativo, di certo, rispondereste che abbigliarsi è una necessità primaria, non soltanto per proteggere il corpo dalle intemperie, ma soprattutto, perché mostrare i genitali sarebbe una morbosa insulsaggine. Chi non reputerebbe sconcio e disonorevole  una persona che a un tratto si denuda innanzi alla gente? Soltanto un degenerato individuo affetto da turbe psichiche potrebbe partorire un’idea così infamante. E’ molto semplice abbracciare l’ideologia spicciola e moralizzante di questi blandi luoghi comuni, e ogni volta che lo facciamo, ripudiamo la nostra intelligenza accordando alla mediocrità d’atrofizzarci i neuroni. Siamo così avvezzi a modellarci sulla scia del conformismo, che senza affliggerci  accantoniamo l’unico strumento che davvero ci rende umani, e senza il quale saremmo analoghi alle bestie: la capacità di ragionare.  Ho meditato parecchio su quell’ambiguo sentimento chiamato pudore; è il pudore che ci obbliga a nutrire un rapporto infelice con l’istinto libidico, è lui che ci fa dubitare della nostra sanità mentale quando l’adolescenza profuma di auto scoperta. Ciò nonostante, da sé il pudore non è abbastanza efficace per depredarci della nostra libertà sessuale; esso si trasforma in un’arma micidiale nel momento in cui sigilla un sodalizio con l’etica, dando così origine ai costumi sessuali. Ed eccoli qui a gestire la nostra condotta erotica orchestrandone gli aspetti più minuti. Sono loro che ci dicono con chi si può copulare, quando, e a quale scopo. Mi frusta parecchio constatare l’efficacia dei bisbigli ammonitori che corrono attraverso le grate dei confessionali. Col loro culto della sofferenza sono riusciti a demonizzare il sesso prefigurandocelo come atto peccaminoso dal quale guardarsi!  Il sesso è soltanto un sublime tocco che attraversa la pelle e delizia le membra fin nel profondo, non sussistono ragioni, aldilà delle mere convenzioni sociali, affinché una relazione incentrata sull’intimità non possa essere condotta con chiunque e assecondando qualsiasi fantasia. Non è la pratica sessuale a conseguire effetti collaterali, ma la sua faticosa repressione, che sfocia poi in manifestazioni violente. Quasi certamente, è arduo convenire con le mie posizioni, che non tarderanno a essere etichettate come estreme, ma non posso pretendere altro, da chi concepisce la natura umana come ambivalenza di anima e corpo, reclutando a quest’ultimo i  connotati meno virtuosi. Penso che tutti dovrebbero imparare a rispettare il proprio corpo, a capirlo e a lasciarlo viaggiare fra le onde vibranti del desiderio se ciò non nuoce alla salute di nessuno. L’oscenità non risiede nella carne al vento, né tra gli ansimi di piacere, l’oscenità è carne dilaniata, l’oscenità è un urlo di dolore.
La musica pulsava oltre i 1000wat, dalla sua postazione sopraelevata, il dj dominava la platea di giovani che battevano le mani a tempo sul pezzo del momento, mentre le sue slittavano rapide solleticando la superficie in vinile di un disco. Le ballerine di lapdance riproponevano l’esibizione del sabato precedente, coreografando il brano con suadenti ondulazioni del ventre e ammalianti gesti seduttori. Ballerini acrobati, vestiti di bianco, si libravano per aria su apposite altalene istallate al tetto. Ruslan si accertò che l’ultimo bottone della sua elegante giacca in velour fosse ben agganciato all’occhiello, poi si fece spazio tra la folla di corpi votati al suono e raggiunse l’angolo bar. Una punta d’onnipotenza gli percorse la pelle quando la luce stroboscopica illuminò per un istante le infinite capigliature dei presenti, riconsegnandole al buio assoluto appena un attimo dopo. - Preparami il solito, Dima. – ordinò al barman, stravaccando le braccia sul bancone, con una rozzezza che si addiceva parecchio alla rusticità di una taverna. Un uomo in camicia bianca e jeans antracite lo raggiunse e lo salutò con un’ energica pacca sulla spalla che fu attutita dalla spallina.
- Hai fatto il pienone, Ruslan. – Ruslan annuì appagato, mentre l’uomo si sistemava su uno sgabello e ordinava un liquore. Con la coda dell’occhio scrutò una stripper in topless che s’intratteneva con alcuni clienti alle sue spalle. - Fai un salto qui, bellezza. – La invitò allargando le braccia per accoglierla. La giovane non tardò a raggiungerlo, sotto lo sguardo esaminatore di Ruslan cercò d’essere il più professionale possibile. - Come ti chiami? – Le domandò lui stuzzicandole il piercing sul capezzolo. La giovane ammiccò, ma non rispose e dopo aver concesso all’uomo di tastare le sue femminili rotondità, si allontanò per non trascurare le esigenze degli altri clienti.
- Perché non assisti allo spettacolo privè? – Propose Ruslan all’uomo, agguantando un mucchio di noccioline appena servite dal barman su una ciotola – Ho adescato due pollastrelle che si sono appena aggiunte alla mia ineguagliabile collezione di stripper, fossi in te non mi lascerei sfuggire il loro esordio. -
 Le mie dita affondavano nel drappeggio vellutato delle tende. Una stoffa vermiglia separava me da un affollato salottino gremito di volti sconosciuti.  Le vibrazioni della musica creavano un ovattato riverbero, mentre le monetine d’ottone che ornavano il mio completo bichini scampanellavano vivaci, quasi a beffarsi del mio funesto stato d’animo. Chi mi attendeva oltre quel sottile tessuto carminio? Come avrebbero reagito alla mia comparsa? La paura prevalse alla determinazione che faticosamente avevo conquistato per giungere fino a quel punto, mi sarebbe occorso un barlume di coraggio in più per spalancare la tenda. Il coraggio giunse, improvviso e disatteso, impetuoso come una corrente che mi trascinò oltre il mio rifugio di stoffa, abbandonandomi indifesa ai chiassosi schiamazzi che si levarono a seguito della mia comparsa sul piccolo palchetto. Non so di preciso quanti uomini assetati di carne affollassero quella stanza dalle modeste dimensioni, scrutarli mi atterriva, e scelsi di non farlo. Un anelito di vento generato dal condotto d’areazione scivolò sulla mia pancia e poi corse lungo le gambe, acuendo in me l’imbarazzo che provavo nell’indossare un completino succinto, ma ciò era nulla se paragonato al ben maggiore disagio che avrei subito una volta liberatamene. I fischi e le ovazioni che mi avevano rozzamente accolto accrebbero, impudenti protestarono contro la mia irritante esitazione, rivendicando uno spettacolo confacente all’esborso del biglietto d’ingresso. Chiusi gli occhi lentamente, mentre del glitter in polvere cadeva giù dalla mia chioma e arrestava il suo scintillio sulle ciglia imbrattate di mascara. Tentai di persuadermi che quegli uomini non fossero presenti, d’altronde, non li avevo neppure guardati, avrei danzato un po’ e alla fine mi sarei spogliata velocemente per poi sparire nel mio accogliente grembo di velluto. Afferrai la fredda pertica che si levava dal palchetto, e un brivido mi contrasse i muscoli addominali. Abbozzai qualche ancheggiamento sinuoso, girai svogliatamente attorno al palo, toccai le bretella del mio costume e poi… mi arrestai di colpo. - Non posso - pronunciai con voce spezzata, ormai incapace di proseguire. Il mio sguardo cadde incidentalmente su di loro, sulle anonime ombre che si vestirono ora di sinistre identità. Un uomo panciuto sgranocchiava noccioline stravaccato su una poltrona alla mia destra, a tratti si scrollava il sale degli arachidi dalla fitta barba rossiccia. Un altro individuo dai lineamenti nipponici sorseggiava un cognac e ammiccando mi mostrò una banconota agitandola fra le dita emaciate.
- Adesso piantala di fare la schiva, mostraci quelle chiappe per la miseria! – Sbraitò un tizio sulla settantina, guadagnandosi il plauso  dei presenti. Le sue parole s’abbatterono come un flagello sul mio  corpo umiliato, e ormai sconfitta abbandonai la scena. Ruslan mi attendeva con sguardo bieco oltre le tende, e prontamente arrestò la mia fuga avvinghiandomi i polsi.
- Ferma, ferma! Dove stai andando, bambolina? –
- Lasciami! – strillai, divincolandomi dal suo agguanto brutale. Ruslan si accigliò ulteriormente e tornando a vessare i miei polsi mi strattonò indietro, in direzione del salottino.
- Avevamo un accordo. - Mi rammentò, sillabando le parole con un bestiale movimento delle fauci.
- Beh, ho cambiato idea. – Protestai, scrutandolo con malanimo. – Non puoi costringermi a intrattenere quei selvaggi. – Ruslan sgranò gli occhi e mi trapassò con uno sguardo aguzzato, la sua ira agì come un veleno paralizzante che inibì ogni mia reazione. Tramortita mi lascia trascinare oltre le tende, verso la pertica sul palchetto. Le gazzarre di quegl’ orridi individui bramosi di forme non si fecero attendere, ma la presenza di Ruslan le smorzò in qualche maniera. Non so spiegare la totale inerzia in cui gravavo, era come se fossi vittima di un ipnosi, solo quando Ruslan mi incastrò tra il palo e il suo addome adiposo ebbi come un rinsavimento, e scalpitai per svincolarmi. Lui la visse come una sfida e aumentò la pressione per tenermi in scacco.
- Se ora tu non diletti i miei clienti, lascerò che sia la tua amichetta mora a fare le tue veci. – Non fui capace di replicare, il solo pensiero di abbandonare la mia compagna alle carnali pulsioni di quegl’avvoltoi mi spinse a cambiare atteggiamento nei loro riguardi. Ruslan si congedò dal privè e tornò a mescolarsi tra la fiumana del suo impero danzante. Si avvicinò nuovamente all’angolo bar del locale, in genere era lì che s’intratteneva in chiacchiere con i clienti abituali, ma passando a setaccio tutti gli sgabelli posizionati in fila innanzi al bancone non scorse conoscenti.
- Ehi, Ruslan! – Si sentì chiamare da una voce alle sue spalle. L’uomo si voltò e incrociò un volto amico.
- Ivan! – Esclamò sorpreso. – Dannazione! E’ una vita che non ci si vede. – Ivan ricambiò il saluto stringendo energicamente l’avambraccio di Ruslan.
- Ti ricordi d’Alekseij? – Domandò, indicando il suo inseparabile compagno.
- Come no! Ricordo lui, e la baldoria che ha provocato scazzottando uno dei miei buttafuori. – Replicò Ruslan, osservando il giovane dalla bionda chioma fluente, che tanto strideva con il losco nei suoi occhi.
- Non ti dispiacerà se abbiamo dato una sbirciatina allo spettacolo di là? –  Chiese Ivan scontrando la sua spalla con quella d’Alekseij in segno d’intesa.
- Voi qui siete i padroni, finché non mi create casini. – Puntualizzò Ruslan, incalzando Alekseij.
 - Nessun casino. – Smorzò Ivan – Desidero chiederti una cortesia. – proseguì, adottando un atteggiamento di ostentata confidenzialità. Ruslan assentì col capo – Dimmi pure, amico. –
- Beh, diciamo che sono particolarmente affezionato alla tua nuova stripper. – Il proprietario del nightclub lo interruppe bruscamente barricandogli le labbra col suo indice tracagnotto.
- Per cortesia, Vanja! Quelle due sono su tutti i media, se si viene a sapere che lavorano per me… -
- Allora ci sono entrambe! – Esclamò Ivan non molto sorpreso. Ruslan lo zittì ancora esagitandosi – Per la miseria, tappati quella dannata bocca! – Ivan lo rassicurò posandogli una mano sulla spalla – Non intendo riferirlo a nessuno, ti chiedo soltanto di far in modo che non disertino prematuramente il loro nuovo lavoro. – Alekseij rise, scambiando con Ivan uno sguardo di complicità.
- Un momento. – L’interrupe Ruslan. – Che diamine avete in mente voi due? –
- Nulla. – Asserì prontamente Ivan. - ma come sai bene, le ragazze chiamano rubli... e io so essere munifico con gli amici.  Ruslan li fissò entrambe e si sforzò di decifrare l’espressione criptica di Ivan, poi comprese ch’era saggio rimanere estraneo a quel genere d’affari condotti dal suo giovane amico, tanto meglio prestargli servigio e lasciarsi rimunerare.
- Ma certo, Vanja, farò in modo che il loro soggiorno qui risulti gradevole. – Ivan annuì con una smorfia compiaciuta e tirando su la lampo del suo giubbotto di pelle nera, fece cenno ad Alekseij di seguirlo.
– E’ il momento d’andare, io e Alekseij abbiamo un impegno. Stammi bene, Ruslan. -
Astrel spalancò la porta della sua nuova sistemazione e agito la mano sulla parete alla ricerca dell’interruttore. Quando lo ebbe trovato, accese la lampadina che pendeva dal tetto tramite un sottile filo elettrico. I suoi occhi puntarono il soffitto irradiato dalla luce, la muffa brulicava a macchia di leopardo insinuandosi tra le ragnatele, invasiva correva lungo le pareti divorando qualsiasi oggetto che osteggiasse il suo percorso, come quel calendario dell’anno corrente che a stento si tratteneva su un chiodo curvo e rugginoso. Fu quel calendario a rammentare ad Astrel che ben quattro giorni erano trascorsi, consumandosi monotoni tra il fosco e l’umido di quel seminterrato ubicato sotto il nightclub di Ruslan.  - Non è un hotel a cinque stelle, ma di sicuro è più accogliente delle sale d’attesa nelle stazioni. – Aveva commentato Ruslan col fare d’un agente immobiliare mancato. A suo dire, quel luogo paludoso non mancava di comfort perché raggiunto dall’elettricità e fornito persino di un piccolo bagno con doccia.  Un materasso dalle molle sgangherate rappresentava l’unico elemento d’arredo, se si sceglieva di tralasciare il calendario e una serie di pannelli scenografici stipati al muro insieme a scatole da imballo per attrezzature elettroniche. Al pensiero di dover trascorrere l’intera notte in un giaciglio cigolante e infossato, Astrel scelse di sedersi per terra adagiando le spalle al muro, così che la trovai in questa scomoda postura quando mi recai anch’io nel seminterrato. Il suo volto era affranto, i suoi occhi cerulei erravano vessati dallo sconforto, ma la mia presenza mitigò il suo scoramento. L’abbigliamento che indossavo mi causò qualche imbarazzo e temevo che quest’avverso stato d’animo sarebbe peggiorato quando Astrel avrebbe posato la sua attenzione su di me, ma non fu così. Il suo sguardo caloroso e materno m’irraggiò di tepore, mi sentii come un filo d’erba al primo giorno di primavera, disgelata dalla neve e libera di ondeggiare al vento. Astrel avrebbe voluto chiedermi notizie riguardo alla serata appena trascorsa, sincerarsi che lo sconforto testimoniato dai miei lineamenti non fosse così inesorabile, eppure, si limitò ad accogliermi fra le sue braccia lasciando che l’eloquenza di cui era gravida si esprimesse attraverso il suo amore.
- Perché sta accadendo a noi, Astrel? Il nostro sentimento nuoce a tal punto da giustificare tutte queste vicende avverse? - Astrel mi carezzò i capelli e accennò un sorriso rincuorante.
- Io e te non ci separeremo mai. – Pronunciò con voce fiera. – Tu sei l’altra parte di me, la metà in cui ogni supplizio patito incontra la propria ragion d’essere, penereitutta la vita se ciò fosse necessario affinché io non ti perda. – Le sue dolci frasi scatenarono in me l’irruente necessità di reagire, in quell’istante la cruda consapevolezza di aver miseramente soggiaciuto al determinismo della vita mi piombò sulle spalle.
- Noi due non dobbiamo tollerare altro. – Affermai decisa. – Abbiamo diritto a una vita serena, amore mio. - Astrel parve rinfrancata dalle mie parole, ma compresi che esse avrebbero sortito un effimero beneficio al suo umore se non le avessi sostenute con dei progetti reali.
- Perché non raggiungiamo gli Stati uniti? Sì, andiamo via dalla Russia, per sempre! – Proposi, esprimendomi tutta d’un fiato, incapace di tenere a bada l’impeto. La mia compagna mi fissò amorevolmente, poi rispose.
- Sì, è quello che desidero anch’io, potremmo costruirci una nuova vita, trovare un lavoro, magari una casa tutta nostra - Poi, quell’espressione trasognata che aveva incantato anche me si mutò in  flemma – Non abbiamo abbastanza soldi per acquistare i biglietti. – Concluse, tuffandosi sul letto.  Immobile la fissai, stringendo nel pugno destro quel rotolino di carta che tanto gemeva stritolato fra le mie dita.
- Questi valgono due biglietti. – Dissi, richiamando la sua attenzione al palmo della mia mano che reggeva un rotolo stropicciato di banconote. Astrel prelevò il denaro dalla mia mano e incredula prese a contare le banconote.
– Sono un sacco di soldi! – Esclamò sbalordita.
- Me li hanno gettati addosso come fossero coriandoli; non avevo mai visto tanti uomini bruciarsi mezzo stipendio per osservare una ragazzina togliersi il reggiseno. – Astrel parve tramortita
– Vedrai che non accadrà più. – Mi rassicurò singhiozzando. – Mai più, te lo prometto. – Ribadì col fiato smorzato. – Questa somma è quanto basta per un bel volo solo andata; che ne dici se partiamo domani stesso? –
- Oh no, ve ne prego! – Si udì una voce oltre la porta d’ingresso, poi l’imposta si aprì, lasciando che l’espressione balorda di Ruslan fosse incorniciata dallo stipite.  - Non vogliano queste splendide creature abbandonare il mio reame. – Ironizzò, prendendo a prestito il gergo nobiliare.
- Cos’è, stavi origliando? – Lo aggredì Astrel
- Oh, non farei mai una cosa del genere, non si addice a un galantuomo. – Continuò con ilarità, poi il suo sguardo captò i rubli trattenuti fra le mani d’Astrel
- Vedo che li hai fatti divertire. – Intercalò, destinandomi un sorrisetto malizioso.
- Ehi! Non ti consento simili allusioni, se ti piace fare il gradasso vai a esibirti tra i marpioni del tuo porcaio! – La mia Astrel era furibonda, scalpitante d’ira come mai prima d’allora; certo non provai piacere nel costatare la sua bellicosità, eppure ciò mi fece sentire protetta, sapevo che all’interno della sua linea difensiva nulla avrebbe potuto intaccarmi.
- Rilassati, ragazzina. – Le intimò Ruslan. – Per quanto ti possa apparire singolare, sono qui solo per darvi una buona notizia. – L’uomo ci scrutò taciturno in attesa di una nostra  replica, era sul punto di proferire ma tratteneva le sillabe perché speranzoso che una di noi gli desse l’imput per annunciare la sua nuova.
- Oh, che entusiasmo! – Commentò - Bene, le due lapdancer che vi ho chiesto di sostituire sono tornate a esibirsi al mio locale, quindi posso anche risparmiarmi la vostra incompetenza. –
- Già, ma come hai da poco appreso stiamo per andar via. – Lo incalzai senza badare a quanto il mio tono risultasse sgarbato. Ruslan mosse qualche passo svelto per avvicinarsi a me, d’un tratto lo vidi impadronirsi del mio spazio personale e puntarmi dall’alto del suo metro e novanta.
- Oh, la vostra assenza mi spezzerà il cuore, ma non vi ho ancora dato la buona notizia. – Astrel si accostò al mio fianco mentre Ruslan indietreggiava di qualche centimetro, consapevole che la sua adiposa compagnia di rado risultasse gradevole. - Malgrado tutto, ho deciso di non licenziarvi. – Proclamò con la briosità di un giullare a corte. – Se lavoraste per me giusto una settimana, beh… diciamo che la modesta cifra che avete guadagnato questa sera non potrebbe che triplicarsi di un baleno. -
- Scordatelo, Ruslan!-  Vociò Astrel. Ruslan poggiò una mano sulla parete gravandola di tutta la sua massa corporea. L’umido gli penetrò i polpastrelli lasciando che parte del calcinaccio gl’imbiancasse il palmo calloso.
- No, non mi sono spiegato correttamente a quanto pare. – Intervenne indispettito. – Questa volta intendo impegnarvi in mansioni che non hanno nulla a che vedere con gli strip; desidero che diate una mano  dove occorre, oggi a ripulire il locale, domani a rassettare il mio ufficio, tutto qui.- Astrel ed io fummo parecchio scettiche  nell’accogliere la magnanimità che Ruslan elargiva, ed entrambe ci domandammo quale trama stesse seguendo.
- Vorresti darci a bere che la tua impresa di pulizia è inefficiente a tal punto che hai deciso d’ingaggiare noi due? – Lo beffeggiò Astrel, certa che quell’uomo tentasse d’aggirarla.
- Ragazze mie – Esordì Ruslan con un sospiro carico di paternalismo – E’ evidente che avete le idee alquanto confuse in merito alla mia persona. Diffidate da me come fossi un mistificatore, ma io desidero soltanto aiutarvi.-
- E perché mai hai deciso d’aiutarci?-  Replicai di getto, nel tentativo di demolire le sue asserzioni.
- Allora non mi avete preso sul serio quando vi dissi che sono un galantuomo. – Concluse lui congedandosi da entrambe, incurante di concludere con un saluto.
Dalla stanza al decimo piano del suo hotel, il signor Lawless osservava Mosca con sguardo assopito. I lampioni che correvano lungo il viale sottostante proiettavano intensi coni d’ombra sul lastricato, mentre invisibili fiocchi di neve, che procedevano dal cielo buio, apparivano quasi d’incanto riflettendo il verdognolo dell’illuminazione artificiale. Una berlina dai vetri scuri sostò alcuni secondi innanzi alle porte girevoli dell’hotel, due uomini scesero dall’auto e un facchino gli corse incontro schiudendo un ombrello blu. Il signor Lawless abbandonò la scena e prese a scrutare in lontananza. La parete sud del Cremlino, intervallata dalle sue torri, correva perpendicolare lungo il letto del Moscova. L’uomo si domandò quale fra quelle torri dai tetti verdi fosse la famosa  Spasskaja, che da una brochure turistica aveva appreso essere alta ben settantuno metri, così com’era venuto a conoscenza che le mura di cinta del Cremlino erano state più volte ricostruite nel corso della storia, e in vari materiali, perfino il legno era stato impiegato. Il cellulare emise una breve vibrazione che si propagò sull’acero del comodino, poi la suoneria destò l’attenzione del signor Lawless che lesto si voltò e raggiunse il terminale.
- Pronto! – Rispose trepidante, sedendosi sul letto.
- Signor Lawless, sono Anne Rosencrans, la direttrice del Majakovskij. – Udì attraverso l’altoparlante del suo telefono. L’uomo si sbottonò il colletto della camicia e si strofinò il collo, avvertendo le oscillazioni delle corde vocali quando rispose alla donna.
- Sì, cosa desidera? –
- Mi perdoni l’orario, ma ho un’importante richiesta da sottoporle. - L’imprenditore aggrottò la fronte domandandosi la ragione che inducesse la donna a cadenzare la voce con tale cordialità, lo screzio avuto durante il pomeriggio non poteva certo giustificare simile accortezza.
- Una richiesta? L’ascolto, di cosa si tratta? – L’uomo rimase in silenzio alcuni minuti, tamburellando le dita sul materasso che ne assorbiva il suono, poi le bloccò di scatto e si protese in avanti con la schiena.
- Cosa? Dovrei offrire una ricompensa per incentivare la gente ad aiutarci? – Esclamò perplesso.
- Certamente. La polizia ritiene che sua figlia non abbia abbandonato la Russia, di conseguenza, occorrerebbe una sua offerta in denaro, da elargire a colui che sarà capace di fornirle informazioni, per stimolare la gente a scrutarsi intorno con maggiore attenzione. – Spiegò la Rosencrans crocidando nell’orecchio del signor Lawless. L’uomo temporeggiò frizionandosi nervosamente la capigliatura.
- Ecco, io non saprei, se davvero intendiamo attirare l’attenzione delle persone al caso, non possiamo destarli con una cifra esigua. –
- Esattamente! – Eruppe la Rosencrans, con tale entusiasmo, da costringere il suo interlocutore ad allontanare il cellulare dall’orecchio. - Sono fermamente convinta che la sua prodigalità apporrà una svolta positiva a questa triste vicenda. Bene, le auguro di trascorrere una lieta serata qui a Mosca. –L’uomo non ebbe il tempo di esternare alcuna delle sue innumerevoli perplessità che la Rosencrans aveva già terminato la chiamata. Frastornato si mise in piedi e cominciò a peregrinare in lungo e in largo per la sua camera, alternandosi tra il bagno e la stanza da letto. Poi fece tappa innanzi il lavabo e vi si poggiò con entrambe le braccia, chinando lievemente il capo verso il basso. Quando tornò con la testa in posizione corretta, incrociò se stesso allo specchio.
- Mio Dio! – Esclamò attonito, disconoscendosi in quel volto cereo e smunto che lo puntava smarrito. Le sue mani impugnarono le manopole del rubinetto lasciando che un intenso getto d’acqua investisse il lavabo zampillando sulla superficie smaltata. Socchiudendo gli occhi chinò nuovamente il capo fino a raggiungere l’umido tocco dell’acqua, lasciando che una tiepida cascata gli scivolasse sulla chioma bruna. Immerso nel fruscio udì la porta d’ingresso aprirsi, e a seguire la voce squillante della coniuge.
- Mi ci vorrà una valigia in più quando torneremo a Londra, altrimenti dove metto tutta questa roba? – Il signor Lawless fece capolino dal bagno reggendo fra le mani un’asciugamani ricamata dal logo dell’hotel.
- E poi dicono che nelle città sovietiche non si trovano negozi. – Commentò la donna, abbandonando sul pavimento una decina di buste di varie dimensioni.
- L’unione sovietica ha cessato d’esistere già da un pezzo, Annette. – Replicò l’uomo, lievemente indispettito. La moglie lo fissò interrogativa.
- Beh, lo so, intendevo dire che Mosca non è Parigi, eppure dovresti vedere i magazzini Gum, ci sono certi negozi italiani. – Il signor Lawless sospirò rassegnato e preferì cambiare argomento.
- Ha telefonato la direttrice del Majakovskij. –
-Mm, e che cosa voleva? – Domandò la donna con voce assente, mentre indossava innanzi allo specchio un vistoso colbacco bianco, sotto il quale tentava di sistemarvi le ricciute chiome della frangia. - Non credo mi doni, ma come potevo tornare in Inghilterra senza averne prima acquistato uno?-
- Annette!- Tuonò il signor Lawless staffilando la parete con l’asciugamani. La donna si voltò verso il marito esterrefatta.
- Ma che ti prende? –
- Cosa mi prende? Intendi sapere cosa mi prende? –  Incalzò lui raggiungendola e strappandole via il colbacco brutalmente.
- Non siamo venuti a Mosca per fare shopping, né per concederci una vacanza. –
- Certo, o almeno ufficiosamente, ma ufficialmente, io e te ci siamo recati in Russia per far visita alla prestigiosa scuola frequentata da nostra figlia. Non so che idea tu ti sia fatto di questa vicenda, ma io sono sempre più convinta che Astrel e scappata via insieme a quella puttanella bionda. –  L’uomo tentò d’interromperla con una smorfia contrariata, ma la moglie non glielo permise e proseguì agguerrita. - Quando torneremo a Londra, voglio indossare gli abiti di Prada e quel colbacco che hai gettato per terra, così che nessuno potrà mai insospettirsi, e magari, mosso dalla curiosità, venire a conoscenza del fatto che i rispettabilissimi signori Lawless hanno una figlia, una figlia… -
L’uomo sorrise beffardamente e scosse la testa. - Ci risiamo, Annette, non è cosi? Non riesci neppure a pronunciarla quella parola. – La donna si tramutò in viso e rifulse lo sguardo, prostrata fece per andare verso l’uscita, ma quando stava per aprire la porta, il maritò le ghermì l’avambraccio costringendola a voltarsi verso di lui. - Tua figlia è una lesbica, ficcatelo bene in testa! Non è parandoti di griffe che riuscirai a tenerlo nascosto, prima o poi qualcuno capirà.  -


24  Solo perché sei donna.

Mi svegliai conducendo una mano alla gola per massaggiarla lievemente, l’aria insalubre di quella cantina si era rivelata deleteria per la nostra salute. Voltandomi con il capo scorsi il viso assopito della mia dolce fata, un timido raggio di sole filtrava dalla stretta feritoia in alto alla parete illuminandole parte del volto.  Sotto le coperte, le sue braccia mi strinsero con maggiore affetto, tiepide mi condussero al suo petto lasciando che ne apprezzassi la femminea morbidezza. Avrei tanto voluto immortalale quell’istante, rubarlo all’azione obnubilante del tempo e fruirne in un continuo presente. Molti reputano una chimera sottrarre il presente alla voracità del passato, che lesto avanza e non ci consente neppure di affermare “io sono”, che già ero, un po’ come il panta rei di Eraclito; eppure, alle volte occorrono gesti semplici per aggirare ostacoli reputati invalicabili, come scattare una fotografia. Fotografare un viso gioviale vuol dire non consentirgli d’invecchiare come d’angustiarsi, perché allora non fare lo stesso con le emozioni che proviamo? Perché non immortalare anch’ esse, impedendogli di affievolirsi fino a una totale dissoluzione? Forse perché non vi è obbiettivo fotografico al mondo capace di testimoniare l’ ineffabile potenza delle emozioni, d’altronde, chi può garantirci che al di là di quel sorriso ilare non si celi un funesto rammarico? Tra le pagine del mio diario invece, le emozioni non rifulgevano all’occhio di nessuno, attraverso semplici caratteri scritti in stampatello o in corsivo, potevo comporre melodie per l’anima al pari di note musicali su pentagramma. Ed era così che storie fantasiose acquisivano vita cibandosi delle mie passioni. Durante le notti innevate, trame attinte dai miei stessi sogni si facevano racconti estemporanei; personaggi mai esistiti vestivano ruoli che soltanto io, in piena onnipotenza, gli conferivo. Nessuno leggeva mai quegli scritti, io non lo permettevo a nessuno. Prima di scappar via dal Majakovskij, corsi ad aprire il mio portagioie per recuperare il diario, unico oggetto che desideravo portare con me, ma con estremo sgomento scoprii ch’era sparito, realizzando come la Rosencrans fosse venuta a conoscenza della nostra relazione. Così, temo di scordare tutte quelle storie brevi ma intense, a tratti intervallate dalle mie considerazioni sulla vita o le persone. Forse alcuni dettagli sono già sbiaditi come tratti di pennello su una vecchia tela, forse, non potrò in alcun modo recuperarli dall’oblio, ma di certo, nulla mai potrà estirparmi dalla memoria la storia della giovane Yulenka e della sua fragilità. A volte, quando ero al Majakovskij, trascorrevo interi pomeriggi immersa nel verde estivo del giardinetto a tratteggiare sul diario le infelici vicende della mia giovane protagonista. Alcuni giorni lasciavo correre la penna con tale lena che mi convincevo quasi d’esser invasata da estro divino, un po’ come i vati greci. E la mia tragedia non mancava di riscuotere plauso da parte delle emozioni più tormentose. Quasi la vivevo quell’annichilente fobia che Yulenka nutriva per lo specchio. Mai una volta era riuscita ad osservare se stessa senza prima coprirsi la vista con le mani, per farle poi scivolare con estrema lentezza dagli occhi, in modo da somministrare gradualmente alla sua vista quella sagoma spettrale e scheletrica, che tuttavia le pareva ancora troppo vistosa. A volte la giovane non riusciva neppure a fissarsi per più di tre secondi che una nausea spasmodica e inarrestabile la costringeva a correre in bagno vomitando fino a sfinimento. Poi faceva ritorno innanzi al medesimo specchio e un poderoso tuffo al cuore sembrava reciderla in due come un ramoscello secco. Ciò che l’atterriva non era il suo volto cereo e infossato, né quei capelli radi e arruffati, ma il dover constatare  che a dispetto del suo impegno, quelle maledette gambe, quel maledetto ventre, e quei maledetti fianchi, non accennavano a smagrirsi. La testa prendeva a vorticarle, il suo gracile corpo pareva perder consistenza e fluttuare sul pavimento, ma Yulenka era ansiosa d’osservare il responso della bilancia. Nella sua camera ve ne erano ben cinque, più altre due di riserva riposte sotto il letto; Yulenka voleva esser certa del suo peso, e affidarsi agli aghi di più bilance le pareva indice di garanzia. Anche il rapporto con quella piccola pedana era per Yulenka di raccapricciante tragicità, e il suo approccio, analogamente a come accadeva per lo specchio, doveva essere quanto più graduale possibile. Così, apponeva un piede per volta in modo da dilazionare il tragitto dell’ago. Quel giorno tutte le bilance erano concordi fra loro, 47 kg era il peso che indicavano all’unanimità, e per una giovane quindicenne di un metro e settanta era davvero poco. Ma Yulenka non la pensava alla stessa maniera, fissata sull’idea che 47 kg, d’altronde, rappresentavano quasi mezza tonnellata, e perciò si sentiva mostruosamente obesa. Quando calava la sera, Yulenka pregava affinché non udisse mai la voce della madre che dal piano di sotto la reclamava a cena. Uscire dalla propria stanza e scendere le scale fino a raggiungere il soggiorno era un po’ come percorrere il braccio della morte, ma la morte non avrebbe potuto terrificare la mia protagonista più della tavola imbandita d’ogni vivanda che l’attendeva alla fine del tragitto. - Spero davvero che ti si apra l’appetito questa sera. – Era la frase che puntualmente pronunciava la madre della giovane quando le rabboccava il piatto di qualche pietanza.
- Tanto vomiterà tutto non appena avrà finito! – Commentava la sorella minore con un filo d’acredine. Ma Yulenka era troppo aberrata dall’orrore che le si profilava innanzi, dalla terribile minaccia che s’insinuava, ora nello scricchiolio del pane appena sfornato, ora nel fumo tiepido che si levava dal suo piatto,  o nei profumi della frutta di stagione. Lei non poteva ingurgitare quei corpi estranei, di certo avrebbero avuto un effetto deleterio per la sua integrità.  La prima cosa che la mia protagonista faceva quando prendeva posto a tavola, era afferrare una fetta di pane bella grossa, la più consistente possibile, così che le riuscisse facile  incavarne il centro per asportare la mollica. Sua sorella spesso la imitava per dileggio, e anche lei afferrava il pane e cominciava a infossarvi le unghie al centro, ma per Yulenka quello non era un passatempo, dentro la cavità ricavata, ella doveva riuscire a nascondervi il cibo solido, per poi ricoprirlo con una parte della mollica tolta. Ed ecco come buona parte del pranzo o della cena spariva dal piatto della giovane senza rischiare di compromettere la sua salute. E con la scusa d’aver consumato almeno il pasto principale, se pur non accompagnato dal pane, Yulenka s’alzava da tavola e lesta si dirigeva nella propria camera cedendo a un pianto convulso. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi tempi, tutto a causa di quella telefonata, Yulenka la rammentava con dovizia di dettagli, perfino le pause e le interiezioni che Dashula aveva prodotto nell’esprimersi le erano rimaste in mente, come se vi fossero state incise. - Fai un salto a casa mia. – Le aveva proposto l’amica d’infanzia - Ho una novità da raccontarti, magari puoi restare a dormire qui, e visto che fa così freddo potremmo scaldarci con una cioccolata. –  Una cioccolata! Dashula intendeva offrirle una tazza di cioccolata! E d’improvviso Yulenka si proiettava con la mente in quel contesto, immaginava se stessa con in mano una tazza fumante mentre lo sguardo perentorio della sua amica la prendeva di mira intimandole di bere. – Perché mi ha fatto questo? – Si domandava la giovane fra i singhiozzi che le facevano scalpitare il petto. Ovunque ella si recasse, a scuola o in palestra, c’era sempre qualcuno pronto a minacciarla, qualcuno intento a ledere  il suo corpo con una bibita o con una confezione di biscotti industriali. Così, da ben tre mesi Yulenka non accennava a metter il naso fuori casa, certa che soltanto le pareti monotone della sua camera potevano salvaguardarla da chi la voleva grassa e ammalata. Quasi ogni giorno, virulenti spasmi allo stomaco la costringevano a contrarsi sul letto con le braccia avvinghiate al ventre. Preda di quel supplizio, Yulenka si domandava se non fosse causato dalla frugale colazione consumata durante il corso della mattina, probabile che il cibo fosse avariato, o magari conteneva delle sostanze tossiche; ingerirlo comportava sempre un rischio elevato, per ciò ella sceglieva di non farlo. Non sempre agli spasmi si alternava il vomito, alcune volte la giovane avvertiva un lieve senso di languore, una traumatica e atterrente pulsione che s’insinuava come una biscia fra i suoi pensieri col mefistofelico intento di farla cedere a una letale tentazione. La soluzione meno rischiosa era quella di aprire lo stipite contenete la marmellata, e le varie leccornie di cui sua sorella s’ingozzava, e osservare quei mostri di gelatina o crema, immaginando di poterli assaggiare; certe volte Yulenka arrivava anche ad annusarli, ma non si spingeva mai oltre. Quella drammatica sera la mia fragile protagonista non fece neppure in tempo a raggiungere la credenza giù in cucina, che i suoi ossuti arti inferiori si sgretolarono come castelli di sabbia sul bagnasciuga. Ciò che seguì ho scelto di non narrarlo, così da non dover ripercorrere i mesi bui in cui fui preda di un manipolo di strizzacervelli disposti a tutto pur di persuadermi che quello strano ricovero in cui ero finita, quel posto triste e gremito di giovani con la medesima fobia, fosse il luogo adatto ove espiare la mia ossessione. Già, Yulenka in realtà non è mai esistita al di fuori della mia immaginazione, i suoi supplizi, le sue debolezze, e perfino il gesto disperato che la condusse a un passo dalla morte, appartengono soltanto al mio passato. - Ormai è trascorso un anno dal giorno in cui sua nipote ha tentato il suicidio, le sue analisi plasmatiche non presentano valori abnormi. Durante l’ultimo colloquio mi è parso di comprendere che l’anoressia è una fase superata, la mandi da me lunedì così che potrò modificare il dosaggio degli ansiolitici. – Eppure, quel lunedì mi trovavo già in volo per Mosca da New York, mia zia ne aveva abbastanza delle tormentose storie di una ragazzina, che fra le altre cose, non era neppure figlia sua.  Dopo la storia di Yulenka, nel mio diario seguiva una pagina bianca e taciturna, al centro correva una frase che poteva pronunciarsi tutta di un fiato, ed era così che la riproducevo fra i miei pensieri, esattamente con la stessa prosodica adottata da mia zia nel proferirla.
- Ti gioverà tornare in Russia, ormai sei guarita, Sveta, e io ho bisogno di tempo, tempo per cancellare il ricordo dei tuoi polsi insanguinati. - Ancora nella pagina successiva, chiudeva una seconda affermazione pronunciata da mia zia in aeroporto, una postilla che sarebbe stato meglio non aggiungere. - Mi auguro che tu non sia una recidiva, la fortuna è cieca, ma di rado torna a trovarti, la prossima volta potresti non cavartela con una blanda cicatrice. -
 Compresi che inabissarmi nei frammenti di passato non era la scelta più saggia per cominciare la giornata, il rammarico e l’asprezza che  ne sarebbero scaturiti non potevano che prosciugarmi le energie, una tazza di tè bollente, invece, avrebbe giovato alla mia influenza e a quella della mia Astrel. Così, dopo essermi concessa a un gradevole bacio che mi colmò di delizia, mi recai al piano di sopra. Il locale di Ruslan era vacante e taciturno, un’atmosfera spettrale imperava su ogni cosa. Attraversando la vuota pista da ballo mi sentii come la protagonista di un film catastrofico, in cui tutti spariscono perché minacciati da un pericolo letale e incombente, ma quello era soltanto un nightclub alla luce del giorno. Guardandomi intorno, mentre mi dirigevo verso l’angolo bar, notai l’immane quantità di bicchieri vuoti o rovesciati che tracimavano da ogni tavolino, ma quasi la metà di essi giacevano sul pavimento insieme a cannucce rosicchiate, e tappi di bottiglia appiattiti dalle danze. A dispetto del divieto che campeggiava su ogni parete del locale, l’aria era satura di fumo e quel fetore inconfondibile di tabacco s’imprimeva già sui miei abiti. Non ero certa di poter usufruire a mio piacimento di ciò che il bar disponeva, tuttavia Ruslan era assente e non nascondo che il mio atteggiamento nei suoi confronti non era dei più ragguardevoli. Mi occorse qualche minuto prima di trovare l’occorrente per preparare il tè, ma alla fine recuperai tutto il necessario, e quando stavo per tornare al piano di sotto, una sagoma in controluce faceva rotta verso me. Fui paralizzata da quella visione, mi occorsero pochi istanti per adocchiare il suo volto, ma prima d’allora, mille ipotesi al riguardo della sua identità mi inondarono la mente con una velocità tale da causarmi un breve momento di confusione.
- Salve, bellezza, che mi prepari? – Si trattava di un giovane, dal suo aspetto supposi che non doveva avere più di vent’anni, ma i suoi modi tracotanti parevano testimoni di parecchie esperienze. Indossava un giubbino jeans alquanto inappropriato per le temperature correnti, e le tonalità bluastre del tessuto contrastavano sensibilmente col suo caschetto biondo, più del berretto grigio fuliggine che gli premeva sul capo.
- Ma tu chi sei? – Lui mi sorrise e ammiccò, mentre le sue mani si curavano di raccogliere la lucente capigliatura alla base della nuca, per poi liberarla e raccoglierla ancora in una monotonia quasi compulsiva.
- Beh è difficile da spiegare, Svetlana. –
- Conosci il mio nome? – Lo interruppi disorientata.
- Già, e tu non conosci il mio. Sono Alekseij. – Si presentò, tendendomi la mano destra con artificiosa cortesia, io la strinsi quasi di riflesso, e poi lo incalzai.
- Così tu mi conosci? –
- E come potrei non farlo, sei più celebre di una pop star, non vi è notiziario o quotidiano che trascuri la misteriosa scomparsa delle due studentesse. – Già da qualche giorno, io e Astrel ci tenevamo lontane dalla prosa sensazionalista e sferzante dei giornalisti, leggere le loro romanzate accentuava in noi l’opprimente consapevolezza di essere braccate.
- Beh, il fatto che tu mi conosca non implica l’esserti presentato qui, nei giornali non è riportato il mio indirizzo, o sbaglio? – Lui sorrise nel tentativo di aggiudicarsi un po’ di fiducia, e apprezzò la mia ironia.
- Hai perfettamente ragione, Sveta, ma devo confessarti che ieri sera mi ha colpito parecchio la tua performance, e sono certo che tutta quell’esitazione, tutto quell’indugiare prima di sfilarti il costume facesse parte dello show. – Il mio sguardo piombò verso il basso, mentre il fiato necessario a replicare venne consumato da un sospiro scorato.  - Non preoccuparti – Disse lui con fare compassionevole, sensibile al mio imbarazzo – anche se ho assistito al tuo spettacolo, posso garantirti che sono stato l’unico a osservare il tuo corpo con rispetto, e d’altronde non potevo altrimenti. –
- Che cosa intendi dire? –Alekseij prese posto su uno sgabello innanzi al bancone del bar, il mio quesito lo aveva spiazzato costringendolo a dilungarsi in snervanti pause vuote. – Ok. – Affermò risoluto. – Ti dirò ogni cosa. - Poi tornò ad assumere quell’aria lacunosa, come un giurista che si prepara ad arringare davanti una corte di togati. - Ciò che intendo dire... Sveta, è che sono tuo fratello. - Una risata scomposta affiorò fra le mie labbra, ma l’espressione seriosa d’Alekseij non si scostò d’una virgola. Non fui capace di trattenere il riso e rimanere conforme a una regola di cortesia, sapevo di poter risultare inopportuna agli occhi di una persona che pareva lontana dal voler dileggiarsi di me, eppure la sua affermazione fu così paradossale che non potei farne a meno. - Ero certo che non mi avresti creduto, ma è come ti dico. –
- Alekseij, ascoltami bene, mia madre è sparita quando avevo appena tre anni, e mio padre, beh, lui è morto poco tempo dopo. Benché i miei ricordi di quel periodo sono frammentari, di certo non poteva sfuggirmi il fatto d’avere un fratello. - Lui afferrò le mie mani e le strinse fra le sue tribolanti,  poi mi parlò a stretto contatto.
- Non conosco tuo padre, ma di certo conosco nostra madre, io sono nato da una relazione tra lei e un pilota dell’aviazione civile. –
- Adesso basta con queste idiozie! – Lo interruppi perentoria, sottraendo con foga le mie mani dalla sua stretta – Se davvero fossi mio fratello, e se davvero ciò che affermi corrisponde a verità, allora mia madre avrebbe dovuto concepirti dopo la sua fuga, il che è impossibile, visto che non hai l’aria di un tredicenne, perché è pressappoco questa l’età che dovresti avere adesso. –
- Oh, no! Non ci siamo proprio, Sveta, stai facendo un’immensa confusione. – Mi rimbrottò lui, anelante di ricostruire la vicenda con la massima chiarezza possibile. - Da quello che nostra madre mi ha raccontato, ho appreso d’ esser venuto al mondo sei anni prima di te. Nostra madre era già sposata con tuo padre, e io sono nato da una relazione extraconiugale. Tuo padre ha scelto di restare insieme a lei nonostante tutto, ma si è rifiutato categoricamente di accettarmi, così sono cresciuto col mio padre naturale. –
- Dunque – Lo interruppi con l’ardire di trarre le dovute conclusioni. – Mia madre mi ha abbandonato a soli tre anni per vivere insieme a voi. –
- Esatto, mio padre ha saputo darle tutto l’amore e la stima che il tuo defunto padre invece disconosceva. – Non mi era mai accaduto di indugiare attonita come in quell’occasione, era come se la mia mente si rifiutasse di pensare, e il mio corpo fosse come ibernato dentro un involucro asfissiante, rimasi impassibile a ogni stimolo esterno, tutte le parole che Alekseij continuava a pronunciare si tramutarono in brusii di cui non comprendevo il senso.
- Dunque, cosa sei venuto a fare qui? – Fu l’unico quesito che riuscii a concepire in quel frangente di concitato smarrimento.
- Ti starai domandando le ragioni che hanno indotto nostra madre ad abbandonarti in quella maniera, e a non cercarti per tutti questi anni. –
- Infatti è così. – Lo sferzai categorica – Non immagini neppure quante volte me lo sono chiesto, così come non avrai la più pallida idea della penosa frustrazione che ti assale quando non possiedi alcuna spiegazione al riguardo di un evento traumatico che ha segnato la tua esistenza. –
- Sveta? – M’interruppe lui comprensivo e accorato. – Le spiegazioni che cerchi esistono, ma desidero che sia nostra madre in persona a fornirtele. Da quando sei apparsa sui notiziari, lei ti ha subito riconosciuto, e solo Iddio sa quanto desideri incontrarti. Ti supplico, Svetlana, va da lei, incontrala! –
- Ormai è troppo tardi, i panni dell’orfana ho imparato a vestirli parecchio tempo addietro, ora non mi occorre più una madre. – Mi sfogai con voce tremula, impegnandomi per apparire intransigente, ma risultando poco credibile perfino a me stessa.
- Per favore – m’implorò Alekseij – Nostra madre non si aspetta nulla da te, non pretende affatto d’imporsi nella tua vita, nutre soltanto il bisogno di raccontarti parecchie cose, ma soprattutto, ella intende aiutarti, sia te che la tua compagna, Astrel, si chiama così? – La mia attenzione venne magnetizzata di colpo da quel nome soave che adoravo con tutti i miei sensi.
- Mia madre intende aiutare Astrel? –
- Beh, certo, a quanto pare vi siete cacciate nei guai insieme, e allora perché non dare una mano a entrambe. –Alekseij tacque e mi fissò carico di speranza, poi uno squillo al suo cellulare lo fece rinsavire, rammentandogli un appuntamento mancato. - Adesso devo proprio andare. – Pronunciò frettolosamente, mantenendo fisso lo sguardo sul display del suo telefono – Ti prometto che ci rivedremo, Sveta, questo è l’indirizzo di nostra madre, vive qui a Mosca. – Disse infine, abbandonando un foglio di carta sul bancone del bar, poi si dileguò rapidamente, svanendo nell’ombra del locale così com’era apparso.
A Mosca, come in tutte le grandi città, ci sono dei luoghi in cui è meglio non recarsi. Mi riferisco ai ghetti, agglomerati urbani quasi sempre lontani dal centro storico, che fra murales e affollate case popolari, nascondo o esprimono storie inedite agli occhi dei più. In queste viscere cittadine, la microcriminalità si mischia col degrado e la miseria, ed è l’emarginazione a segnare la vita dei residenti. Mi sono spesso domandata cosa si provi a occupare l’ultimo gradino della scala sociale, a vivere ogni  giorno come gli epigoni di una metropoli che si mostra ostile e piena di porte chiuse. Attraversare sola e raminga uno dei peggiori quartieri moscoviti, alla ricerca di mia madre, non fornì risposta a tali domande, ma contribuì soltanto a farmi tremare di paura.  Era la prima volta che m’imbattevo in quelle strade desolate, dove l’immondizia si ammucchiava maleodorante in ogni angolo, dove  visi tristi e rassegnati si alternavano a quelli bruti e minacciosi. Lì, i capolavori forgiati dagli zar, l’eleganza sontuosa delle torri e delle cupole sulla Piazza Rossa, sembravano un ricordo lontano e impervio. Mosca è anche questo. Mosca è molto altro. E’ il cantiere più grande d’Europa, con le ruspe che non si fermano mai e che si muovono tra futuristici grattacieli e vecchi palazzoni eretti dall’edilizia sovietica. Fra i guanti stringevo la mappa della città, per non perdermi avevo tracciato il percorso che m’avrebbe condotto dalla stazione metro fino alla via indicata da Alekseij. Ormai era quasi buio e ciò accresceva la mia ansia, ma stando alla cartina mancava poco. Più di una volta fui tentata d’imboccare la strada del ritorno, all’idea d’incontrare la donna che mi aveva messo al mondo non riuscivo ad abituarmi. Soffocando le incertezze, continuai decisa nel mio intento, non aveva senso rinunciare a pochi passi dalla meta. Un vicolo cieco si aprì dallo spazio fra due palazzi, stretto e angusto pareva inghiottire chiunque vi si addentrasse. Guardando la mappa, notai che una grande X di colore rosso indicava quel meandro sibillino come punto d’arrivo dell’itinerario, non mi restava che imboccarlo. Mia madre viveva lì? Lambita dallo sporco e immersa nell’umido? Perché non avrebbe potuto? D’altronde, io non conoscevo più nulla di quella donna, né il suo volto, né il suo carattere, né la sua voce. Per anni l’avevo immaginata in una graziosa villetta circondata dai fiori, con gli occhi brillanti di luce, e il sorriso carico d’amore. Nella vita reale i sogni si capovolgono, tutto ciò che immaginiamo e che ci arreca piacere, in fondo è solo ciò che non possediamo, ciò che vorremmo che fosse, e non ho mai compreso fino a che punto la speranza giovi alla vita; probabile che si erga a pretesto per andare avanti quando tutto sembra perduto, ma certe volte le speranze sono portatrici di false illusioni, illusioni, che una volta mostratesi nella loro natura chimerica ci abbandonano alle grinfie della disperazione. Con prudenza m’incamminai per la stradina. Procedevo a passi lenti e incerti, calpestando vetri di bottiglia e schivando siringhe usate. Sulle pareti dei palazzi si aggrovigliavano i colori sgargianti delle vernici spray, ma la loro vivacità non faceva di quel posto un’oasi allegra. Il numero civico che Alekseij aveva trascritto sul bigliettino corrispondeva a un enorme portone interamente corroso dalla ruggine. Era alquanto inusuale per un abitazione, si addiceva maggiormente all’ingresso di un magazzino. Forse l’indirizzo era sbagliato, o forse no. Scrutando con attenzione notai che non vi era alcun segno di residenza fissa, come la cassetta delle lettere o il campanello. Se davvero mia madre viveva oltre quel portone, non poteva che imperversare in una situazione d’indigenza. Respirando a fondo riuscii a placare la mia esagitazione e trovai il coraggio di bussare. I tocchi risuonarono a vuoto propagandosi per il metallo del portone, una polvere rugginosa venne giù nebulizzandosi. Nessuna risposta. Provai un’altra volta con maggiore intensità, nulla.  Disillusa, mi allontanai e percorsi a ritroso il vicolo. Ebbi il tempo di proseguire due metri, che un cigolio stridulo giunse in risposta ai miei tocchi. Qualcuno aveva aperto.  Non mi voltai subito, per una frazione di secondi tentennai dubbiosa sull’idea di tirar avanti e andarmene, ma istintivamente mi guardai alle spalle e, il volto che mai mi sarei aspettata d’incrociare in quella circostanza, s’impose ai miei occhi lasciandomi sconvolta…
L’ufficio della preside si era trasformato in uno studio da Talk Show.  Telecamere digitali piazzate al centro della stanza, fari professionali istallati su appositi piedistalli, fili interminabili ingarbugliati fra loro, e per concludere, un organizzata troupe che si preparava alla diretta. La Rosencrans sedeva imperiosa dietro la scrivania, fissando l’obiettivo della telecamera con alterigia. Un fonico si stava occupando del suo microfono, mentre un truccatore le girava intorno spennellandole il viso di cipria. “ Non ho mai visto una donna così brutta.” Pensò fra una sfumatura di fard e l’altra “ I chirurghi plastici possono far miracoli al giorno d’oggi, ma contro un tale scempio non v’è bisturi che tenga.” Un ragazzo dal cappellino rosso e dai jeans larghi, cacciò l’occhio dentro la telecamera, poi annunciò a gran voce – In onda fra un minuto! – A fianco della Rosencrans, Dmitrij Igorevič Sharapov, uno dei più stimati reporter russi, attendeva il collegamento col notiziario. Chiunque conosceva la parlantina loquace del plurilaureato giornalista. Come non ricordarlo fra le schiere di cronisti internazionali a testimoniare i bellicosi eventi della guerra del Golfo?  Dmitrij amava il suo lavoro: viaggiare per il mondo e raccontare ciò che accadeva lo riempiva d’entusiasmo, anche se questo comportava dei pericoli. Solo cinque mesi addietro, il famigerato reporter era stato vittima d’un rapimento lampo da parte di scissionisti ceceni, lasciando con il fiato sospeso migliaia di telespettatori ormai affezionati al suo volto bonario e tondeggiante. - In onda fra trenta secondi! – I fari si accesero sulla scena, Dmitrij ne percepì il calore e avvicinò il microfono alla bocca. Mentalmente ripassò ciò che avrebbe detto una volta partito il collegamento con il notiziario serale dell’emittente Vesti, e con un pizzico d’agitazione si aggiustò il nodo della cravatta. - In onda fra cinque, quattro, tre, due, uno… -Una spia rossa apparse accanto all’obiettivo della telecamera, Dmitrij esordì con un sorriso pacato e professionale. 
- Buona sera. Mi trovo a Mosca, al prestigioso collegio Majakovskij. Da qui, come ricorderete, pochi giorni addietro sono scomparse due allieve: Svetlana Yaroslavna  Puskovic  e Astrel Lawless, quest’ultima di nazionalità inglese. Delle ragazze, entrambe minorenni, non si hanno più notizie. Gli inquirenti hanno vagliato disparate ipotesi, che andrebbero dal sequestro di persona alla fuga volontaria. Al momento tutte le piste restano aperte e nel tentativo di far luce sulla faccenda, si scava nel passato delle giovani. Questa sera, sono in compagnia della signorina Anne Rosencrans, la direttrice del collegio, che ha richiesto i nostri microfoni per lanciare un appello ai telespettatori in ascolto. Dmitrij si concesse una breve pausa prima di concedere la parola alla preside, notando con quanta attenzione e rispetto i tecnici dietro la telecamera lo stessero ascoltando. La direttrice sbuffò irritata, l’introduzione del giornalista non le andò a genio, e ancor prima che Dmitrij riprendesse a parlare, gli sfilò il microfono dalle mani e debuttò sfrontatamente. Lo stupore calò fra i presenti, Dmitrij teneva ancora il braccio sollevato e la mano a pugno, quasi non avesse realizzato che il microfono non c’era più.
- Buona sera a tutti. – Fu la prima frase che la Rosencrans pronunciò sotto gli sguardi torvi della troupe. - Dubito che voi due possiate andare lontano. Molto probabilmente vi trovate qui a Mosca, nascoste ch’ issa dove. Gli inquirenti si arrovellano in fantomatici sequestri al fine di ricostruire la vostra vicenda, ma io so bene che siete fuggite. Per tale ragione reputo il vostro comportamento puerile e irresponsabile, e ciò difficilmente vi aiuterà a risolvere i problemi. L’oculato buonsenso che mi contraddistingue, non può nulla contro le vostre scelte dissennate, ma di certo, in quanto tutrice di un collegio famigerato, ho la capacità d’impedire che la vostra scappatella si protragga ancora per molto. C’è una cospicua somma in denaro, una cifra pari a 1500000.00 rubli, che i genitori d’Astrel Lawless, la ragazzina inglese, elargiranno magnanimamente a chiunque fornirà informazioni utili a rintracciare la figlia. Nell’auspicio d’un lieto epilogo, invito coloro che sanno a farsi avanti, in modo da beneficiare del lauto compenso. – Dmitrij restituì la linea allo studio visibilmente imbarazzato, un insolito balbettio gli rovinò la chiusura del collegamento. Durante la sua lunga e famigerata carriera da reporter, Dmitrij si era spesso ritrovato a condurre la cronaca in condizioni critiche, a volte i bombardamenti facevano da sottofondo alle sue dirette dilaniando il terreno retrostante, e lui, placido e concentrato, andava avanti fingendo che alle sue spalle si stessero svolgendo i festeggiamenti d’anno nuovo. Quando una manifestazione civile sfociava in sommossa, Dmitrij vi si piombava a capofitto e come un deus ex machina, tentava persino di placare gli animi dei vari facinorosi. Dmitrij Amava il suo mestiere, e quando scendeva in campo era un autentico perfezionista, per lui un’inchiesta era ben fatta solo se riusciva a sollevare uno scandalo di portata nazionale, e di misfatti Dmitrij era riuscito a svelarne parecchi. Eppure, mai prima d’allora qualcuno gli aveva strappato il microfono dalle mani con tale ardire, per un giornalista non poteva esservi oltraggio peggiore, un po’ come straccare il distintivo dalla giacca di uno sceriffo.
Forse gli occhi mi stavano ingannando. Magari ero vittima di una banale allucinazione che nel giro di pochi secondi sarebbe svanita per sempre. L’avrei voluto, ma le cose non andarono così. Il ragazzo che avevo di fronte era troppo reale per esaudire le mie aspettative e dissolversi nell’aria. Con un tuffo allo stomaco pronunciai il suo nome.
- Ivan? Cosa ci fai tu qui? - Dentro il petto sentivo il cuore impazzare come un tamburo annunciante guerra. La sua presenza in quella circostanza mi sconvolse. - Dov’è mia madre? - Gli chiesi con voce trepidante. - Vive qui? Tu la conosci? -
Ivan non rispose, o almeno non lo fece avvalendosi delle parole. Quel sorriso beffardo scolpito nelle sue labbra mi trafisse come una coltellata selvaggia, solo allora compresi che si trattava d’un maledettissimo inganno. - Davvero hai creduto alla storiella d’Alekseij? Oh, mi spiace tanto. - Disse Ivan usando un tono derisorio.
- Siete dei bastardi! M’ avete imbrogliato. Pensavo che mia madre volesse aiutarmi. -
- Tua madre? Beh, sarebbe un piacere conoscerla, magari lei non fa tante storie come te, quando si tratta di divertirsi un po’. –
- Mi fai schifo! – Urlai in preda all'ira. – Non sarei mai dovuta venire. - Lui cominciò a barcollare, aveva gli occhi arrossati e puzzava d’alcol.
- Andiamo, Sveta, voglio solo giocare con te. Io, di giochi ne conosco parecchi. – Realizzai di trovarmi in un vicolo solitario insieme a un ubriaco dissennato - Vieni qui bambola, sei proprio uno schianto, lo sai? - Ivan parlava con la prosodica d’uno psicopatico, e il suo sguardo non ne tradiva le intenzioni. Stava quasi per saltarmi addosso, mi fissava morbosamente sbavando come una bestia selvaggia. La paura mi spinse a fuggire, ad allontanarmi dal pericolo. Lui non rimase inerte ad osservarmi scappare, ma incalzò il passo per raggiungermi.
- Torna subito qui! Svetlana? - Fu così veloce che mi superò braccandomi il passaggio. - Vai da qualche parte? Eh, stronza? -
- Lasciami stare. – Tentai di dileguarmi, l’istinto mi suggerì di correre ancora, più che potevo, ma prima di riuscirci, fui neutralizzata da un poderoso calcio allo stomaco che mi costrinse a piegarmi dal dolore. Ansimai sfiatata.
- Alzati! - Gridò Ivan adirato, per nulla impietosito dalla mia sofferenza. - Mettiti in piedi. – m’intimò ancora, afferrandomi per i capelli. Se solo Astrel fosse stata lì con me, da sola non riuscivo a gestire quella drammatica contingenza, come liberarmi da lui? Ci provai, oh se ci provai! Misi in campo l’esigua forza a mia disposizione. Mi dimenai freneticamente, lottando contro la sua avviluppante presa, sfruttai l’effimero fiato che avevo in gola per chiedere aiuto. Tutto inutile. Lì, c’eravamo soltanto noi due: il suo corpo erculeo, e le mie braccia gracili, non addestrate alla lotta libera. Sconfitta, smisi di opporre resistenza e mi lascia trascinare indietro, fino al portone arrugginito. Ero terrorizzata. Ivan mi spintonò all’interno, io persi l’equilibrio e caddi battendo la faccia sul pavimento, centrando col volto una pozzanghera d’acqua. Rimasi immobile alcuni secondi, udendo due scatti di serratura che vanificarono ogni mia speranza d’affrancamento. Ero chiusa dentro, o meglio, lo eravamo entrambi.- A noi due, tesoro. Finalmente un po’ d’intimità. -Ivan si scaraventò su di me cominciando a strusciarsi viscidamente e ad annusarmi il collo.
- Togliti, schifoso! - Dissi, strisciando via da un lato. Adesso mi ero liberata dal peso opprimente del suo corpo e con un balzo tornai in piedi pronta a raggiungere l’uscita.
- Dannazione! – Imprecò Ivan, raggiungendomi ancora e schiaffeggiandomi brutalmente, tre, quattro, o cinque volte di seguito.  Scivolai giù semisvenuta, il pavimento mi accolse ancora.  Quando notò che a stento tenevo gli occhi aperti, si allontanò di corsa, quasi avesse scordato qualcosa d’imminente. Credei si fosse ravveduto, confidavo nel suo buon senso, ma se un barlume di senno persisteva in lui, di certo albergava nel torpore dell’alcol. Attorno a me si estendeva in larghezza un grande magazzino. La scarsa condizione di luce restrinse il mio campo visivo, l’unica cosa che contraddistingueva quel luogo oscuro era la nauseabonda puzza d’umido. Ivan tornò da me. Stringeva in mano una catena di metallo, che arrotolò più volte intorno ai miei polsi e infine su un tubo di ferro che passava rasente al muro. Immaginavo d’aver subito il peggio delle sue intenzioni, invece, il gioco perverso doveva ancora svolgersi.
- Con te da dove comincio, bambola? - D’improvviso, le sue mani unte e fredde sul mio ventre.
- No, ti prego, Ivan, no! - Con la lingua prese ad assaporare il mio collo, scivolava viscidamente ungendomi la pelle, più si arrovellava in fantasiosi turbini, più il fetore d’alcol sembrava asfissiarmi. La volontà d’evadere scalpitava in me come un destriero furente, freneticamente agitavo ogni parte del corpo, ma con le braccia incatenate e le gambe pressate dal peso d’Ivan, non potei che soccombere. Percepivo le sue mani salire lungo la schiena, addentrarsi nell’attaccatura del reggiseno per sganciarla. Chiusi gli occhi annichilita, nulla lo avrebbe fermato. Iniziò a palparmi i seni, a stringerli violentemente fra le sue dita ruvide, ansimando di piacere. Cos’ero diventata? Un giocattolo passivo che asservisce i piaceri d’un selvaggio. Fra brividi di sgomento inveivo contro chi stava profanando il mio corpo, ma lui andava avanti imperterrito, esibendosi in una danza erotica. Non mi lasciò andare, non prima d’aver sbrigliato il suo verme per consentirgli di navigarmi in fondo. Desideravo morire, nulla appariva più orripilante della vessazione che stavo subendo. Ivan gestiva il mio corpo assecondando le smaniose pulsioni del suo membro, provocandomi nausea e ributtanti sensazioni di repellenza fisica. Smise di dominarmi solo quando raggiunse l’apogeo del godimento. Appagato, tirò su la lampo dei pantaloni e si accese una sigaretta per aspirarne il gusto a pieni polmoni.
- Oh Dio, che scopata da sballo! Nessuna mi fa vedere il paradiso come te. Sei uno schianto fenomenale, Sveta. - Indolenzita, giacevo ancora per terra, con i polsi legati al tubo e i jeans tirati via. Lui mi contemplava come fossi un trofeo di caccia, una preda rara e ambita che compiaceva il suo orgoglio virile.
- Ti odio, Ivan. Sei un essere ignobile. - Lui sorrise ironico, assaporando il tabacco finale della sigaretta, poi lanciò la cicca fiammeggiante contro di me, mancandomi l’occhio destro di qualche centimetro.
- Ora devo andare. – Disse, slegandomi dal tubo. – Tu rivestiti con calma, giuro, non sbircerò. – Si burlò di me, mentre s’allontanava.  
Era come se un tir carico d’esplosivo mi avesse dilaniato con inaudita potenza. Riconciliarmi col mio corpo fu traumatico, per qualche momento mi domandai perfino se m’appartenesse; così com’era ridotto, avvolto dal ripugnante sapore di un essere alieno alla mia essenza, prepotentemente invaso da una carne che disconoscevo. Perche? Solo perché ero una donna, soltanto perché certi uomini oltraggiano l’emancipazione intellettuale dell’umanità con le loro pulsioni? Sì, è propriamente questa la caratteristica che contraddistingue taluni uomini, la regressione intellettuale. Da un punto di vista etico sono perversi stupratori, degeneranti misogini, individui che regrediscono nello stadio evolutivo e man mano che la luce del loro intelletto si fa fioca, mostruose creature governano le loro azioni. Uno spiraglio d’aria gelida filtrò da un punto della parete che non fui capace d’individuare, insolente soffiò sul mio viso come a volermi provocare, ma io non accennai a rialzarmi dal pavimento. La dirompente forza che avevo opposto al mio aggressore adesso s’era prosciugata. Mi domandai se avessi intenzione di rimanere lì, inerte e sconfitta, la volontà di mettermi in piedi e rivestirmi non accennava a soccorrermi. Poi fu come d’improvviso, il volto della mia Astrel si fece immagine, la vidi accanto a me, la sentii carezzarmi le gote con tutta l’amorevolezza che la belva di prima non avrebbe mai potuto realizzare. Mi sorrideva e mi tendeva le braccia, vestiva di rosa, ed era così lucente! Dal suo abbraccio mi lascia cullare, e avvolta da quell’amore ancestrale mi sentii come se nulla fosse stato mai. Poi mi svegliai in preda a un fremito e di nuovo piombai in quel luogo tenebroso, questa volta però, non giacqui docile e rassegnata, ma balzai in piedi pronta ad abbandonare il magazzino. Le luci del giorno s’erano sfumate attraverso il crepuscolo e quando uscii in strada m’immersi nel buio vespertino. Percorsi a piedi e a ritroso la strada che mi aveva condotto alla trappola magistralmente architettata dal mio cacciatore, mentre nuvoloni preludenti burrasca s’illuminavano a giorno attraverso la luce fluorescente dei lampi. Gli ululati del vento si facevano araldi di uno sfogo imminente, e le prime gocce solitarie piovvero pioniere anticipando il percorso delle altre. Camminai a lungo prima di approssimarmi al locale di Ruslan, stringendomi le braccia al petto per impedire al freddo di raggelarmi del tutto. Alla mente mi tornò un incubo ricorrente che mi spezzava il sonno nel cuore della notte. In quel sogno inquietante, io, indefessa protagonista, vagabondavo da sola e al buio vie deserte e dagli sbocchi imprevedibili, e ora che tutto ciò stava accadendo veramente, ora che non potevo sperare di svegliarmi al sicuro nel mio letto, nulla mi turbava più, ciò che Ivan m’aveva fatto sviliva la suggestione di qualsiasi incubo. Percorsi ancora un chilometro a piedi, mentre l’ennesimo nubifragio si abbatteva sulla Capitale, nonché sui miei indumenti. Giunsi al locale di Ruslan in una zuppa d’acqua, l’ultima volta che m’ero ridotta in quelle condizioni fu a sei anni, quando in una mattina nevosa scivolai andando in fondo al laghetto dell’orfanotrofio. Scelsi di accedere al locale dal retro, e approfittando del fatto che fosse ancora chiuso e sgombero, lo attraversai passando per la pista, infine tornai in cantina in un ansimo di sfinimento. Astrel mi osservò aprire la porta d’ingresso e poi accasciarmi giù, a ridosso dell’uscio. Ciò che a malapena ricordo io, è di aver aperto gli occhi ritrovandomi fra le sue braccia, con indosso nuovi indumenti, decisamente più asciutti, e un insolito senso di smarrimento.
- Che ti è accaduto, amore mio? – Mi domandò Astrel con il corpo scosso da brividi che solo i singhiozzi riuscivano ad arrestare per brevi attimi. Non seppi risponderle, in quel frangente la mia mente era completamente obnubilata dal caos, non ricordavo nulla, fino a quando una sua lacrima calda si posò sulla mia mano, e d’improvviso rividi la pioggia di prima venire giù, le strade bieche di quel quartiere, e procedendo a ritroso tutto il resto.
- Astrel, era tutto un inganno, tutte le sue parole erano pure invenzioni. Ivan, lui... – Astrel seguiva con estrema attenzione ogni sillaba generata dalle mie labbra, anelante di carpire qualsiasi informazione che le tornasse utile per ricostruire la mia vicenda.
- Un inganno? A cosa ti riferisci, tesoro? Non riesco a comprenderti. –
- Ivan! Ivan, è stato lui! – Strepitai andando su con la schiena e rimanendo fasciata dalle sue braccia. - Tutto ciò che mi ha raccontato quell’Alekseij era una maledetta fandonia, a quell’indirizzo ho trovato un vecchio magazzino dismesso …e, lì c’era Ivan ad attendermi. – Astrel stava per dire qualcosa, ma il fiato le mancò di colpo, proprio nell’istante in cui, con massimo sconcerto comprese ciò che stavo tentando di riferirle.
- Ivan era lì? – Quando mi sfogai in un pianto straziante diedi alla mia compagna la conferma definitiva che i suoi sospetti fossero fondati. Piansi senza tregua, mentre lei, stravolta e incredula, mi stringeva a sé carezzandomi la schiena.
- Mi ha legato entrambe le mani a un tubo, e mi ha picchiata anche. – Astrel mi condusse ancora più a sé, era come se volesse esprimere con il corpo l’amarezza che provava, comunicarmi solidarietà con gli sguardi, visto che le sue labbra si rifiutavano categoricamente di modulare il suono. - Non ho potuto fare niente per impedirglielo, nulla! Ha avuto la meglio su di me, ha goduto impunemente come un verro. – Entrambe ci fissammo negli occhi a fondo, come da un po’ avevamo imparato a fare. - Perché, Astrel? Io ho scelto te, io mi sono innamorata di te, se è te che voglio, allora perché lui mi ha usata in questo modo? –
- Sss, calmati adesso amore mio, non pensarci, non devi pensarci mai più. Vedrai che ogni cosa tornerà al suo posto, riconquisterai il tuo equilibrio e la tua serenità, mentre quel maledetto la pagherà cara, oh se la pagherà! – Pian piano mi assopii, amorevolmente cullata dalle sue premure, come un infante fra le braccia materne.
Ruslan sgancio la graffa del transennino e accedette ai salottini sopraelevati del suo locale, da lì provava sempre la sensazione di dominare la pista e tutti coloro che la popolavano a suon di musica. Quasi nutriva il bisogno di parlare a quella folla con un megafono per deliziare del loro plauso con un inchino. Ruslan fantasticava spesso di far capolino da quei salotti e udire in seguito l’ovazione tanto anelata, d'altronde, di quell’impero danzante lui era il re. Distogliendo lo sguardo dalla folla, l’uomo raggiunse una poltrona disposta in modo frontale rispetto ad altre due, e sedendo su essa senza garbo, accennò un saluto ai due ospiti che occupavano i posti innanzi a lui.
- Ivan, Alekseij! Si può sapere perché bighellonate sempre dalle mie parti? Cos’è che vi attira tanto in un locale pieno di stranieri? – Si pronunciò Ruslan con fare canzonatorio.
- Le femmine. – Replicò prontamente Ivan
- Oh, la mia mercanzia è sempre la migliore. – Si vantò il proprietario del locale sfiorando la gamba di una giovane stripper che si esibiva per i clienti adiacenti alla sua poltrona. – Ma volendo rimanere in argomento, Vanja, hai fatto il tuo lavoretto? Perché se è così, ora potrei anche liberarmi di quelle due sanguisughe cui fornisco vitto e alloggio. – Ivan si scambiò un’occhiata carica di malizia col suo amico Alekesej e mantenendo il medesimo atteggiamento rispose.
- E’ stata la scopata più eccitante di tutta la mia vita, cazzo! – Urlò a gran voce allargando le braccia e lasciandole scivolare dai braccioli della poltrona insieme alla schiena. – Non ho mai visto una femmina così! Credetemi amici, una come quella non te la scordi più, quando mi ha incontrato al magazzino m’ è saltata al collo e non ha voluto più smettere. – Ivan scivolò ulteriormente dallo schienale, aveva l’espressione beata, con gli occhi che fissavano il tetto trasognati.
- Che puttanella! – Commentò Alekseij sghignazzando conquistato.
- E pensare che faceva tanto la schiva per mostrare le chiappe ai miei clienti. – Aggiunse Ruslan.
- Adesso puoi anche sbatterle fuori, Ruslan, ti ringrazio di averle trattenute per qualche giorno. –
- E’ stato un piacere, amico, e d'altronde tu sai sempre come disobbligarti. –D’un tratto Ivan parve rapito da un pensiero e assorto si arrestò a ponderare, infine si rivolse a Ruslan domandandogli l’ennesima cortesia.
- Che ne dici se te ne sbarazzi domattina Ruslan? Lascia che trascorrano la notte qui. – Il proprietario del nightclub si mise in piedi facendo per andare.
- Va bene, Vanja, sei fortunato perché stasera ho troppi da fari per mandarle via. – Quando l’uomo si allontanò, Alekseij ghermì Ivan per il braccio e lo redarguì con impeto.
- Ti ha dato di volta il cervello? Perché gli hai detto di mandarle via? Se lo fa, le perderemo di vista e quella ricompensa in denaro non sarà più nostra! –
- Mantieni i nervi saldi Alëša , la ricompensa è già nostra, l’annuncio sui notiziari è andato in onda poche ore fa’, e io ho già contattato i genitori di Astrel, domattina all’alba manderanno una pattuglia di poliziotti a verificare se le mie informazioni sono corrette, e quando ciò accadrà, amico mio, quei bei soldini saranno tutti nostri. –
- Dunque non intendi dividerli con Ruslan? – Si sincerò Alekseij.
- Beh, magari una parte irrisoria. –
- Immagino che non gradirà la tua mossa, Vanja. –
-Beh, non è certo colpa mia se Ruslan è allergico ai telegiornali, sono arrivato prima io Alëša, questo è tutto. -

25 Fantasiosi erranti con magie suggestionanti.

Quella mattina la forza laboriosa del vento scacciò via le nuvole e le loro cromature fuligginose. Man mano che il cinereo si diradava su Mosca, gli albori del mattino sfolgoravano anticipando l’ascesa della stella diurna.  Una volante della polizia con il lampeggiante spento e la carrozzeria umettata dalla rugiada sostò innanzi al locale di Ruslan. L’agente che sedeva sul lato passeggeri abbassò il finestrino dell’auto affinché la condensa sul vetro non gl’impedisse di scrutare all’esterno. L’uomo in divisa osservò l’ingresso del locale mentre il collega alla guida si sporse col busto verso il volante per osservare anch’esso fuori dall’auto. - Sì, è proprio qui. – Confermò l’agente del lato passeggeri aprendo la portiera – Bene, tu resta in macchina, mentre io andrò a verificare la situazione. –
Sui miei occhi arrossati e lievemente turgidi si rispecchiava il retaggio di una notte trascorsa fra l’angoscia delle lacrime. Mi sentivo particolarmente confusa quella mattina, se ripensavo alle ore precedenti, emozioni antitetiche, e perciò contrastanti, m’impedivano di mantenere un corretto equilibrio emotivo. La notte appena spentasi fu la più traumatica che ebbi mai vissuto. La raccapricciante paura che Ivan potesse raggiungermi al locale di Ruslan e ricominciare a giocare con il mio corpo m’impedì di chiudere occhio a lungo. Il ricordo orripilante di ciò che m’aveva fatto mi spinse a detestare perfino la mia stessa carne, a nutrire la necessità di dovermene separare, e l’impossibilità di compiere ciò, stava quasi per condurmi alla follia. E mi parve di rivivere le notti trascorse alla Liden, la clinica privata newyorchese in cui mia zia m’aveva reclusa a seguito del mio tentativo di suicidio. Ma lì, a ogni mio singhiozzo, a ogni mio lamento, c’era sempre un’ infermiera di turno che con fare assonnato mi somministrava una buona dose di benzodiazepine, e auspicandosi che sortissero un rapido effetto tornava a sonnecchiare indifferente. Fino alla scorsa notte, solo l’inibizione del sistema nervoso centrale dovuta agli ansiolitici m’aveva sottratta alle crisi di panico, quando mandavo giù una di quelle pasticche della dimensione di un’arachide, mi abbandonavo a una sorta d’inerzia, apparivo placida e distesa, innocuamente mite. Forse, i medici della Liden erano persuasi che somministrandomi quelle bizzarre noccioline potevano lenire una sofferenza, o forse, sapevano bene che il principio attivo di quei farmaci non faceva altro che privarmi della forza di reagire, di dimenarmi e piangere fino a sfinimento. Gli effetti sparivano, sì, sparivano in fretta, ma la causa rimaneva lì, affogata dentro me, in cerca di un percorso alternativo ove incanalare la propria foga. Astrel fu la prima persona in assoluto a insegnarmi che la misteriosa e struggente potenza dell’amore potesse far dissolvere qualsiasi afflizione come cenere al vento. Alla mia paura cieca e irrazionale, scatenata dal solo pensiero che Ivan potesse tornare, Astrel non aveva risposto adagiandomi una pasticca sul palmo della mano e offrendomi un bicchiere ricolmo d’acqua, no. Lei fece del suo copro una coperta che soffice mi avvolse tutta, dal suo respiro ricavò nutrimento per sfamare le mie labbra smaniose, e dai suoi battiti quieti ricavò la mite melodia che condusse il mio cuore verso la serenità.  Fu così che riuscii ad assopirmi per qualche ora sfumando i miei dolori nel sonno, ma il giorno appena giunto mi reclamò al cospetto della vita, e mentre Orfeo e i suoi sollievi dipartivano alla vista di Horus, io cercai in lei un po’ di tenacia. Così, rimanendo seduta su quel letto sghembo in mezzo alla cantina, la osservavo muoversi intorno a me e con gli occhi l’amavo. Com’era delizioso il suo corpo appena fuori dalla doccia, tripudiante di goccioline e fasciato in un succinto asciugamani che ne celava appena il seno. E quanto ardore suscitava in me quel tocco rapido di gloss che rendeva lucide e invitanti le sue labbra, così come il pizzo rosa del suo slip. Amavo tutto di lei, l’amavo fin nel profondo dell’essenza, oltre l’anima, mai… mai, avrei concesso a qualcuno di strapparmela via, mai!
- Se non lo sapessi già, penserei che ti piaccio. –  Mi motteggiò Astrel accortasi che la fissavo già da un po’.
- Infatti è così, e questa mattina sei di un radioso che proprio non riesco a dissuadere gli occhi.- Replicai, protendendo le braccia verso lei per manifestare il mio inappagabile desiderio di sentirla vicina. Lei mi sorrise amabilmente e lieta di soddisfare la mia richiesta si avvicinò, ma fu in quell’istante che un tumulto alla porta ci fece trabalzare d’improvviso. L’uscio si spalancò a seguito di un’energica spinta, la caduca lampadina che pendeva dal tetto oscillò sulle nostre teste. Mi volsi d’impeto verso l’ingresso e scorsi un uomo in divisa da poliziotto, fregiato dallo stemma nazionale sul vistoso colbacco nero.  Non si premurò di bussare alla porta, né di accennare un saluto cortese innanzi allo stipite, ma procedette lesto irrompendo nella cantina. Marciò fino al centro della stanza, impettito, quasi incarnasse una carica militare ai vertici della gerarchia.
- Lei è la signorina Astrel Lawless! – Affermò con tono criptico rivolgendosi alla mia compagna. – Dunque è qui che avete alloggiato mentre fuori il mondo denunciava la vostra scomparsa. – Continuò animoso, con la seriosità di chi leggeva un dispaccio reale. Nessuna di noi ebbe l’ardire di replicare, fummo come annichilite da tale impensata visita. Quando il poliziotto passo in rassegna me balzai dal letto e mi fiondai tra le braccia di Astrel.
- Che cosa vuole da noi? – Lo incalzammo ostili.
- L’uomo incrociò le braccia e corrucciò la fronte. – Nulla di personale, questo è indubbio, tuttavia, il mio dovere è quello di placare le angosce dei vostri familiari. Devo chiedervi di seguirmi. -
- Noi non veniamo da nessuna parte! – Sbottò Astrel con gran foga, mentre la rabbia la rendeva immune alla soggezione da divisa. Con le dita operai una lievissima pressione sul fianco destro della mia compagna, mentre le cingevo la vita con entrambe le braccia, poi le lanciai un altrettanto impercettibile sguardo d’intesa.
- Forse dovremmo fare ciò che dice, Astrel. Dopotutto, mi sembra una scelta saggia quella di tornare al Majakovskij e mettere a posto ogni cosa. - Astrel mi fissò provando a decifrare le intensioni che soggiacevano fra le mie parole, le occorse un momento per capire che possedevo un piano.
- D’accordo, Sveta, seguiamolo. – Mi assecondò, lottando contro l’emotività affinché non trapelasse l’esagitazione che avvertiva.
- Bene, andiamo allora, sopra c’è una volante che ci aspetta. – Seguimmo tacite il poliziotto fino all’esterno del locale. La volante di cui parlava sostava proprio innanzi a noi, ma ci occorsero alcuni istanti prima di mettere a fuoco l’ambiente esterno, la luce del giorno colse impreparate le nostre pupille, dilatate dalla fiochezza che regnava giù in cantina. Il poliziotto procedette verso la macchina e si premurò ad aprire la portiera posteriore facendoci cenno di salire, fu in quel preciso momento che le nostre mani si avvinghiarono l’una all’altra con audace destrezza, quasi vivessero di vita propria. - Adesso! – Urlai in un tremito d’adrenalina, mentre le gambe scattavano leste al segnale di via.
- Maledizione! – Imprecò l’agente fiondandosi in macchina e intimando al collega d’inseguirci. – Parti! Parti! -             Strepito attivando la sirena – Non possiamo lasciarcele sfuggire. – L’agente alla guida sollecitò l’acceleratore facendo impennare la lancetta del conta chilometri, con una sgommata stridula si mise in marcia, nell’aria si levò un’ acrimonia di gomma bruciata. Assordate dal suono della sirena incalzammo il ritmo dei nostri passi, ma competere contro i cavalli rampanti di un motore era impresa da velocisti. Eppure non desistemmo, lottando perfino contro la forza tirannica del vento, che quel mattino spirava nella direzione contraria alla nostra; lo avvertivo oltraggiare il mio viso, irrompere nella laringe e fischiare sui timpani.
- Corri, Svetlana, corri più che puoi! – M’incitò Astrel quando si accorse che l’auto stava per superarci con l’intento di sterzare a destra qualche metro avanti e occluderci il passaggio. La strada che percorrevamo incrociò l’Akademika kKhokhlova, le mie forze si ridussero all’esiguo e le gambe minacciavano di cedere, trafelata stavo quasi per capitolare quando Astrel mi sollecitò ancora, e continuando a stringermi la mano mi trascinò con sé prendendo a sinistra l’Akademinka Khokhlova. La volante della polizia eseguì una brusca virata per imboccare anch’essa l’incrocio, le ruote del mezzo slittarono a vuoto sul suolo bagnato e l’auto prese a vorticare proprio al centro dell’incrocio. Eseguì due o tre testacoda mentre le auto in marcia inchiodavano sull’asfalto per evitare d’impattare contro il mezzo. La destrezza di chi si trovava alla guida in quel momento scongiurò la possibilità di un’grave incidente, e intanto noi due proseguivamo nella  fuga beneficiando del vantaggio concessoci dal caso. Il palazzo centrale del complesso universitario statale cimò alla nostra sinistra. I duecentoquaranta metri d’altezza dell’edificio, capaci d’accogliere ben trentasei piani, mi rammentarono che all’interno di quel monumentale fabbricato, oltre all’università, al teatro, alla piscina, e persino alla lavanderia, vi era anche una stazione di polizia. Che ci fossimo consegnate al nemico spontaneamente? La mia fantasia dilagò incontrollata e immaginai che di lì a poco una schiera di poliziotti in tenuta antisommossa ci avrebbe attorniato intimandoci l’alt con manganelli e lacrimogeni. Naturalmente, nulla di tutto ciò si concretizzò, soltanto la sirena che incalzava alle nostre spalle rappresentava una minaccia incombente e reale. Il giardino che ospitava il monumento a Michail Vasil'evič Lomonosov, tra l’Akademinka khokhlova e la Lomonosovskij prospekt, ci offrì asilo temporaneo, proteggendoci sotto gli abeti e i pini che qua e là s’infittivano tra il lastricato carminio.  Inoltrandoci nella vegetazione, il profumo acuminato dei pini inumiditi dalla pioggia mi donò un breve e ineffabile momento di quiete.
- Sono stremata, ancora un altro metro e sarei morta per strada. – Disse Astrel, poggiando la schiena contro la superficie ruvida di un tronco e scivolando gradualmente verso il basso, quasi a sedersi sul terreno umido e fangoso. Le sirene si allontanarono, il suono si percepì sempre più ovattato, fino a sparire completamente. Succedette un mite silenzio portatore di quiete, e la natura che tutta intorno si estendeva pullulava di serenità, proteggendoci dal resto come fossimo in una dimensione incantata. Astrel scorse una panchina alle mie spalle e tornando in piedi scelse di raggiungerla per recuperare le forze perdute. Estenuata, abbandonò il suo corpo al ferro della panca e ruotò la testa indietro e avanti per scaricare la tensione muscolare. Una copia odierna dell’Izvestia giaceva abbandonata sulla panca, proprio accanto a lei. Astrel la fissò massaggiandosi il collo, poi la prese in mano e la sbatacchiò appena per asciugarne i margini superiori inzuppati dall’acqua. La sua attenzione cadde sulla prima pagina del giornale e d’un baleno la vidi trasmutarsi in viso. Era sbalordita, pietrificata come una statua di marmo.
– Oh, Dio! – Esclamò, cominciando a tremolare, mentre la carta del giornale scivolava via dalle sue mani inermi. –
- Astrel, che ti prende? – Le domandai, avvicinandomi a lei e affiancandola sulla panchina. Di fretta recuperai la copia dell’Izvestia, prima che, abbandonata alla gravità, raggiungesse il terreno bagnato. Ebbi l’identica reazione d’Astrel quando lessi ciò che lei aveva appreso un momento prima.
Caso adolescenti scomparse: i genitori della studentessa inglese, Astrel Lawless, offrono ricompensa in denaro a chi li aiuterà nel ritrovare la figlia.
Procedetti nella lettura, e dal testo seguente appresi che la somma messa a disposizione dal padre d’Astrel era di ben 1500000.00 rubli.
- Non posso crederci, loro sono qui a Mosca! – Osservai la mia compagna mettersi in piedi e abbozzare qualche passo senza meta, alternandosi in direzioni opposte. Con le dita s affrettò a barrare la foga delle lacrime, impedendo loro d’inondarle le guance, ma quel gesto non basto a far tacere la sua angustia. - Ormai non abbiamo alcuna speranza, hanno vinto loro, Svetlana. –
- Non è affatto così. – La rinfrancai, avvicinandomi al suo corpo per lasciarle poggiare il capo sulla mia spalla. – Astrel, c’è la caveremo anche questa volta. –
- No! – Obiettò gemendo. – Hai visto quei poliziotti, sono certa che li ha contattati Ruslan nella speranza che i miei lo ricompensassero, e d’ora in poi faranno allo stesso modo tutti quelli che m’incontreranno. – Affranta meditai sulle sue parole, e un turbinio di domande avvilenti mi seppellirono nella disperazione: dove avremmo trascorso la notte seguente, e come fare per acquistare il cibo e l’occorrente se il denaro in nostro possesso era rimasto in quella fetida cantina? Tornarvi sarebbe equivalso a un suicidio.
- Vi siete scelte un nido troppo alla portata dei felini, ragazze mie! – Esordì una voce. Astrel trasalì, io scrutai alle sue spalle e scorsi lui, uno di quegli uomini che non ci s’aspetterebbe d’incrociare nei luoghi pubblici, tra la folla di gente comune. Astrel si voltò e fissò l’individuo che aveva appena proferito.
- Chi è lei? – Domandò, osservando il suo blazer bianco navajo, abbinato a un pantalone ecru che gli calzava largo in vita.
- Dmitrij Igorevič Sharapov! – Lo presentai galvanizzata, un attimo prima che Dmitrij avesse l’opportunità di farlo da sé.
- Lo conosci? – Mi chiese Astrel indicandolo, pensando che si trattasse d’un vecchio parente che non vedevo da tempo.
- Certo, chi non lo conosce? – Dmitrij ammiccò al mio entusiasmo e si avvicinò a entrambe.
- Voi altri inglesi seguite solo i tabloid, non è così? – Ironizzò Dmitrij tendendo la sua mano destra verso Astrel, col sorriso fra le labbra. – Sono un giornalista. – Astrel strinse la mano di Dmitrij e si fece turbata.
- Un giornalista? Dunque informerà i miei genitori! – Esclamò ritraendo la sua mano e retrocedendo di qualche centimetro, come a volersi preparare a una nuova fuga estenuante. Dmitrij si mise a braccia conserte e ponderò con fare assorto, mi parve di riconoscere quel cipiglio da intellettuale, quando interveniva come ospite nella trasmissione Pust govoriat rifletteva proprio in quella maniera.
- Beh, certo, potrei farlo, incontrandovi oggi, ho trovato il biglietto vincente della lotteria. Tuttavia, so bene che riscuotendolo andrei in contro a un bell’ammonimento da parte della mia coscienza. –
- Che intende dire? – Lo incalzai del tutto spaesata. Dmitrij fece per andare, una conferenza sulle tecniche di comunicazione di massa lo voleva come ospite alla facoltà di lettere.
- Ecco - Replicò, pronto ad accomiatarsi – Sapete? Ho anch’io due figlie, adolescenti come voi, ma alla loro richiesta d’accedere al Majakovskij mi sono opposto con ostinata inamovibilità. Quel luogo è ciò che peggio potrebbe capitare a una ragazza. E’ meglio che non vi facciate ritorno. – Non capii cosa intendesse dire Dmitrij con questa lapidaria affermazione, ma la pronunciò con tale ardore da sembrare quasi una supplica. Forse quei toni appassionati erano il retaggio di una carriera televisiva, una collaudata tecnica per avvincere gli ascoltatori alla notizia, ma al di là di qualsiasi legittimo sospetto sulle vere intenzioni del giornalista, compresi che agendo in tale maniera lui non avrebbe guadagnato alcun tornaconto.
- Ciò che di peggio potrebbe capitare a una ragazza? – Ripeté Astrel, scandendo il tono per enfatizzare ogni singola parola. Dmitrij si avvicinò ulteriormente a entrambe, quasi non avesse più fretta, quasi a voler relegare ogni sua faccenda in secondo ordine.
- Non vi è frustrazione maggiore per un giornalista che dover tacere pur sapendo certe verità. Ma non temete, l’esperienza mi ha insegnato che prima o poi la coltre di caligine si dirada, e l’occhio può scrutare nitido ciò che prima era celato. – Astrel ed io ci scambiammo un’occhiata sbalordita. Di quali verità era a conoscenza Dmitrij?
- C’è qualcosa che dovremmo sapere sul Majakovskij? E se lei conosce “certe verità”, cosa le impedisce di renderle pubbliche? – Lo incalzò Astrel affannando una domanda dietro l’altra. – E inoltre -
- Sss. -  La zittì Dmitrij, compiaciuto da quell’esuberanza adolescenziale.
- Ogni cosa a suo tempo, ragazza, ogni cosa a suo tempo. Adesso seguite il mio consiglio e non fate ritorno in quella scuola. –
- Di certo non lo faremo, ormai soltanto la strada può accoglierci. –
Sbottai, adirandomi con la vita. Astrel mi osservò amorevolmente e con la mano mi scostò una ciocca di capelli dal volto per donarmi un’impercettibile carezza. Dmitrij incrociò le braccia inerme, la sua mestizia testimoniava il desiderio di aiutarci, ma compresi che per lui non sarebbe stata impresa del tutto semplice.
– Un momento - Disse, opponendo gli indici delle mani verso l’alto, arrestandoli proprio all’altezza del volto, quasi ciò lo aiutasse a porre maggiore ordine sul flusso d’idee che affollavano la sua mente. - Forse ho io un luogo dove potervi indirizzare. – Astrel e io ci destammo di colpo, magnetizzando tutte le nostre risorse cognitive su Dmitrij, pendevamo dalle sue labbra, vivendo come un’interminabile agonia quella pausa vuota che precedette le  sue parole. - Il circo! – Esclamò. – Sì, il circo è ciò che fa per voi. – Ribadì con un sorriso a trentadue denti. Astrel cominciò a ridere scuotendo il capo.
- Pensavo che diventare una stripper fosse ciò che di più assurdo potesse capitarmi, ma ora mi si prospetta anche di trasformarmi in un clown! – Ironizzò, divertendomi, ma Dmitrij non comprese la battuta e la fissò interrogativo.
- No, statemi a sentire! – Continuò, nel suo bizzarro entusiasmo. – Conosco una cartomante di nome  Valdamea, gira insieme alla compagnia che attualmente si esibisce qui al circo Mosca. –
- Una cartomante? – Incalzai disarmata. – E cosa dovremmo fare? Chiederle di predirci il futuro? –
- Niente di tutto ciò. Valdamea è una persona che può aiutarvi. Andate da lei, ditele che sono io a mandarvi, lei saprà cosa fare. – Dmitrij non pareva in vena di scherzi, la sua aria seriosa e quel tono solenne mi confermarono ciò. Non so che genere di legami intrattenesse con la cartomante di cui parlava, né come ella avrebbe potuto prestarci soccorso, ma in assenza di un'altra opzione meno bislacca di quella, ci persuademmo nell’accoglierla come plausibile. - Che la fortuna vi assista, care. – Ci auspicò il popolare giornalista accomiatandosi da noi.  Mentre Dmitrij si allontanava, Astrel mi fisso con uno sguardo a metà tra il divertito e lo stupefatto.
- Quindi, dobbiamo andare da una cartomante? E dove dobbiamo recarci per incontrarla? –
- Dmitrij ha detto che possiamo incontrarla al circo di Mosca. - Risposi, riflettendo sul fatto che il circo di Mosca si trovava proprio a qualche passo da noi.
Avete mai notato che quasi tutti i paesi del mondo, in particolar maniera quelli in vetta alle proposte dei tuour operator, possiedono una peculiare assonanza con un qualcosa che gli appartiene, e che caratterizzandoli li rende come intercambiali con lo stesso? L’Egitto ad esempio, è quasi sinonimo di piramidi, e le piramidi, col loro faraonico retaggio, non possono che rimandare all’Egitto. Se invece dicessi Tourre Eiffell, non sarebbe quasi come dire Parigi? Così, nel volervi domandare qual è la prima parola che vi giunge in mente pensando al mio paese, sono certa che udirei subito le vostre voci urlare: “vodka”, “Matrioska” , “URSS”,“Mosca”, “KGB”. E se vi dicessi che la prima cosa che io associo alla Russia è il circo, lo trovereste bizzarro? Beh, probabilmente è così, la nostra vodka passa la frontiera prima e meglio di qualsiasi tradizione circense. Fidatevi se vi dico che è davvero un peccato venire a Mosca e andar via senza prima lasciarsi suggestionare da quel fantasmagorico mondo che è il circo.  Il nuovo circo di Mosca, aperto il 30 aprile del 1971, rappresenta un appuntamento imperdibile per molti di noi. Ma se state pensando a un ampio capannone circondato da camion e sovrastato da un’insegna luminescente, direi proprio che siete fuori strada. Anche se può apparire inusuale, il circo di Mosca è stabilmente svolto all’interno d’un auditorium alto ben trentasei metri, ma ciò che credo sia davvero unico, è la presenza di cinque piste intercambiabili capaci di slittare l’una sull’altra allocandosi nei diciotto metri sotterranei che le alloggiano quando non sono in funzione. Ogni pista è pensata per gli artisti che vi svolgeranno la loro esibizione, i pattinatori su ghiaccio, i cavallerizzi, gli illusionisti, e molti altri. Mi sono sempre chiesta come possa svolgersi la vita di un’artista circense. Immagino che il suo amore per la disciplina svolta sia tale, da indurlo ad accordarsi con i ritmi frenetici d’una vita itinerante. Il mio ruolo nel circo è sempre stato quello della spettatrice, e forse, proprio dall’alto della mia tribuna, sono riuscita a scrutare ben oltre il semplice show; lì ho scoperto un universo capace di donar letizia e meraviglia, in cui perfino l’uomo del PC, con gli occhi intorpiditi dalla  quotidianità, rinvigorisce i suoi sensi sotto l’impulso di un infantile meraviglia. Forse è proprio lo stupore il messaggio trascendentale di cui il circo è gravido, e a renderlo più forte vi è l’assenza di barriere linguistiche, la possibilità di comunicare ciò senza avvalersi delle mere parole, ed ecco che i fantasiosi erranti travalicano confini e attraversano terre, affinché le magie suggestionanti di cui son araldi delizino le genti d’ogni parte. 
- E’ quell’edificio? – Si sorprese Astrel, allungando il suo indice senza farlo sporgere troppo dalla tiepida lana del suo cache-coeur.
- Sì è proprio il circo. – Le confermai, mentre rapide attraversavamo la prospekt Vernadskogo. Un cielo color acquamarina fece da sfondo all’edificio circolare che si ergeva oltre la scalinata in cemento. Sfavilli fulminei serpeggiavano come lucciole tra i vetri che rivestivano l’intero perimetro dell’auditorium. Astrel s’arrestò a ridosso dell’ampia scalinata, e prima di procedere sui gradini s’ attardò a studiare il tetto dell’edificio, corrugando la fronte. La sua curiosità non era certo immotivata, girando per la città non capita a ogni strada d’incontrare un palazzo circolare, interamente di vetro e sovrastato da una copertura che più che a un tetto, fa pensare a un gigante spremiagrumi, o a un simpatico cappellino cinese con le grinze. Una melodia da carillon fu trasportata dal freddo vento che profumava di zucchero filato. Salendo le scale scorsi un ameno lunapark per bambini estendersi di fronte all’ingresso principale del circo, appena oltre un’ampia vasca animata da giochi idrici. Sulle vetrate si rifrangeva l’avorio di nubi cumuliformi, che migravano in balia dell’aria senza l’affanno di una meta. Giunte innanzi all’ingresso entrammo nell’edificio. Notai che Astrel era parecchio guardinga da quando aveva letto quell’articolo sul giornale, temeva che lo sguardo della gente potesse incombere su di lei e incastrarla. “E’ come se fossi un serial killer appena evaso di prigione. ” M’aveva confidato poco prima, con una certa ansia; ma nell’ampia  hall in cui eravamo appena entrate non vi era nessuno.
- Gli spettacoli cominciano nel pomeriggio. – Ci informò un giovane sulla trentina, lo vidi avvicinarsi a entrambe, ma non capii da quale direzione provenisse. Indossava un completo color amaranto, e in mano teneva un fazzoletto imbevuto che sfregava contro lo zigomo per toglier via i residui del trucco. Probabile che si trattasse d’un clown, il temperamento giocoso che trapelava dai suoi occhi vispi pareva confermare la mia tesi.
- Stiamo cercando una cartomante di nome Valdamea. – Spiegò Astrel.
 Il giovane aggomitolò il fazzolettino e lo strinse dentro il pugno della mano.
- Valdamea? Oh, lei ci seguirà in tournèe, partiremo fra poche ore. – Ci delucidò, esprimendosi con una certa affabilità. – Se desiderate vederla posso informarla personalmente. – Aggiunse, pronto a recarsi da lei se solo gliel’avessimo chiesto.
- Cercavate me? –
- Ah, eccola qui! – Esclamò il ragazzo nel vederla sbucare, sorpreso dall’impeccabile tempismo che distingueva quella donna. – Queste ragazze hanno chiesto di te. – La informò, poi si diresse all’esterno dell’auditorium con passi grandi e svelti, e quando oltrepassò l’uscio aprendo la porta, il vento s’insinuò tra le policrome stoffe che rivestivano la gonna a campana di Valdamea. Una cascata di ricci bruni le correvano giù fino alle spalle, incorniciando due occhi neri come la notte, che quasi si perdevano nelle profonde linee di kajal.
- Come posso esservi utile? – Esordì la donna, incrociando le braccia sotto il tintinnio vivace dei numerosi bracciali che le agghindavano i polsi.
- Dunqe - Presi la parola in modo vago, rimuginando su come impostare il discorso - Siamo qui perché Dmitrij Igorevič Sharapov, il giornalista, sostiene che lei possa aiutarci.
- Dmitrij Igorevič? – Si sorprese, quasi quel nome avesse fenduto una breccia nei suoi ricordi.  - seguitemi. – Sentenziò laconica, incamminandosi fuori dall’auditorium. Io e Astrel le corremmo dietro, oltrepassando la vasca piena d’acqua e il piccolo lunapark, accompagnate dalla scia di profumo che emanavano le sue vesti. Incedette spedita per un centinaio di metri, con sguardo fiero contro il vento, mentre i suoi ricci svolazzavano su e giù come uno stormo di rondini. Quando si approssimò a una carovana di roulotte e autocarri, si volse appena con il capo per sincerarsi che la stessimo seguendo, e moderando il passo raggiunse la porticina di un autocaravan Motorhome, dove attese il nostro arrivo. - Accomodatevi pure. – Ci invitò Valdamea, lasciando che entrassimo per prime all’interno del camper. - Che posto è mai questo? – Mi domandai una volta dentro, finalmente al riparo dai capricciosi refoli di Eolo. La luce del giorno filtrava da due finestrini sulle fiancate del caravan, e passando attraverso le tende, colorava l’angusto ambiente di un rosa pallido. Un tavolino circolare, sostenuto da un singolo piede fissato al pavimento, si ergeva al centro del camper, rivestito da un copritavolo color malva con orpelli del medesimo colore. Alla destra del tavolo correva un divano bianco dalla forma di un ferro di cavallo. In fondo al camper vi era un armadio a tre sportelli, due di essi erano aperti, quasi a voler ostentare quel tripudio di stoffe variopinte e luccicanti affastellate un po’ alla rinfusa, probabile che si trattasse d’ abiti scenografici.
- Qui è dove vivo io. – Disse Valdamea, destreggiandosi con abilità tra gli spazi ridotti della sua abitazione ambulante. Bevve un sorso di caffè americano da una grossa tazza ancora tiepida, poi, recuperò un astuccio di legno massello gettato tra le lenzuola del letto basculante, seminascosto da un paio di riviste che trattavano d’astrologia.
- Sedetevi sul divano, prego. – Disse, mentre avvicinava una sedia pieghevole al tavolo prendendo posto. Io e Astrel la osservammo aprire l’astuccio ed estrarre dei tarocchi – Su, sedetevi di fronte a me! – Ci esortò per la seconda volta, cominciando a mischiare il mazzo di carte con grande maestria.
- Oh, no, credo ci sia un fraintendimento. – Tentai di spiegarle – Noi non… insomma, non siamo qui per farci predire il futuro, ecco! –
Valdamea accennò un sorriso composto, cingendo i suoi preziosi tarocchi tra le dita adorne d’ anelli, quasi a volerli proteggere contro la nostra miscredenza.
- Non credo che al momento dovremmo curarci del vostro futuro, piuttosto discutiamo in merito al presente. – Rispose, indicando il divano bianco con la mano, ponendoci l’ennesimo invito. Declinare sarebbe stato scortese, così io e la mia compagna assecondammo la donna e ci sedemmo sul divano.
- Bene. – Valdamea sfilò una carta dal suo mazzo, e dopo averla visionata in tutto riserbo, la svelò a entrambe adagiandola sul tavolo. - Gli amanti. – La presentò con una certa briosità, sfiorando la superficie plastificata del tarocco con l’anulare sinistro, mentre i rubini che intarsiavano i suoi anelli le appesantivano il dito rendendo faticoso il movimento. – Tra gli arcani maggiori, gli amanti è la carta che preferisco. – Valdamea fece una pausa meditativa. – Bisogna operare una scelta, una scelta saggia. Voi due vi amate? –  La sua domanda ci colpi impreparate, quasi ne fummo stordite. A suscitare il nostro scalpore non fu il quesito in sé, ma il fatto che l’eclettica cartomante lo ponesse con tale immediatezza, quasi fosse la cosa più comune al mondo che due ragazze si amino. Beh, per noi due lo era eccome, ma sapevamo che gli altri non la pensavano uguale.  - Allora, vi amate o no? – Rimarcò lei audace, assecondando i suoi modi smaniosi.
- Non capisco cosa c’entri. – Obiettò Astrel.
- Oh, c’entra eccome! Credi che sia di poco conto per me saperlo? –  Astrel fece spallucce.
- Immagino di sì, che differenza fa. –
- Parecchia, ragazza. La carta in questione ci pone innanzi a una scelta, e a sceglie qui, dovrò esser io. Posso decide di darvi una mano, ma debbo prima sincerarmi che sto caldeggiando la causa giusta; Voi due chi siete? Anime affini in lotta contro la tirannide del pregiudizio, oppure due bizzose collegiali che amano trasgredire anziché fare i compiti? –
- Ma come osa insinuare una simile idiozia! – Le urali contro inviperita, seriamente disturbata da ciò che aveva chiesto. – Pensa che per noi sia un gioco? Che spogliarci a comando e dormire nelle cantine putride ci possa divertire? – Astrel mi cinse la vita manifestandomi solidarietà, sapevo che lei aveva già compreso.
- Non so a  cosa tu ti riferisca. – Precisò lei con tono risentito.
- La mia compagna è molto stressata, questa notte ha avuto una spiacevole esperienza. – Non mi sbagliavo, la mia Astrel aveva compreso appieno ciò che ancora mi turbava. Lei sapeva che l’irascibilità era estranea alla mia indole, e non ci mise molto ad attribuirne la causa allo stress per ciò che m’era accaduto. Valdamea depose i suoi preziosi tarocchi e incrociò le mani, mentre con gli avambracci gravava sul copritavolo che si sgualciva in mille pieghe.
- Posso farti una domanda, Svetlana? –
- Come sa il mio nome? –
- Ogni tanto li leggo anch’io i giornali. – Avvertivo un gran desiderio di scoppiare in lacrime, ero come un vulcano in esplosione pronto a sputare magma.
- Chieda pure. –
- Che cosa faresti se qualcuno ti separasse da Astrel? –
- Oh, nessuno mai vi riuscirà! – Ribattei tassativa, irrigidendomi col busto sul divano. Valdamea m’invitò alla meditazione, a controbattere al suo quesito padroneggiando la mia parte razionale. Scelsi d’assecondarla, e raccolta vagliai l’unica ipotesi che ritenevo possibile. - Intende sapere cosa farei se ciò accadesse? Beh, sarebbe come se mi sguainassero via la pelle dal corpo, il cuore dal petto, il respiro dalla gola, non potrei che morirne di tutto ciò. Sì, piuttosto che vagare nuovamente fra le torve lande della solitudine io… lo rifarei un’altra volta. – Astrel mi fissò con occhi trepidanti, allarmata da ciò che avevo affermato. Valdamea non si lasciò sfuggire quella sfumatura d’angoscia che rabbuiò lo sguardo della mia compagna, quasi ne fu incuriosita, e così puntò dritta al quesito saliente.
- Che cos’è che rifaresti, Svetlana? – Fu come se un’ascia m’avesse reciso di netto all’altezza dell’ombelico, un colpo secco e mirato, come quello che il boscaiolo infligge ai ciocchi per dividerli in due metà. Capii che anche Astrel provava ciò che provavo io, e la sua mano non tardò a rinfrancare la mia.
- Niente. - Liquidai la domanda.
- Non credo tu sia fino in fondo sincera, Svetlana, perché non provi a dirlo? Su, dimmi cos’è che rifaresti? -  Dal suo tonò esortativo traspirò un impalpabile velo di sfida che la mia ansietà amplificò esponenzialmente.
- Ci tiene davvero a saperlo? – Urlai scattando in piedi, ostentando un’armatura a prova di duello per mascheravi dietro ogni mia fragilità. – Vuole che le dica cosa rifarei? –
- Sì, voglio che tu me lo dica. –
- Bene. Afferrerei di nuovo quel taglierino e lo userei per lacerarmi i polsi un’altra volta, seguendo il tratto sbiadito delle mie cicatrici, mettendo a tacere il dolore, affinché non m’impedisca di penetrare a fondo con la lama, affinché il sangue caldo e fluido possa scorrermi sulle mani. Questo è ciò che rifarei se perdessi Astrel! - Astrel si sentì mancare, l’emozione causatale dal mio delirio fu tale, che avvertì persino un forte senso di nausea accompagnato da capogiri. Era come se avessi inciso la sua anima con la mia tribolazione. Valdamea si rabbuiò prostrata, accantonando la temeraria sicurezza di chi avverte l’onniscienza scorrere tra le mani. Finalmente esplosi in quel fragoroso pianto tanto agognato.
- Vieni con me. – Disse Astrel conducendomi mano per mano verso l’uscita del camper. Fuori ci appartammo sotto il finestrino del caravan, incontrandoci in un abbraccio intenso e profondo.
- Perdonami, Astrel, se ciò che ho detto ti ha fatto soffrire. – Mugugnai tra i singhiozzi.
- Sss, tu non devi mai chiede scusa di questo, mai. Io sto dalla tua parte, amore mio. – Mi sussurrò con le labbra a un palmo dal mio orecchio, poi si scostò lievemente e mi fissò negli occhi, posandomi la sua mano soffice sulla guancia.
- Astrel, io non saprei come spiegartelo, ma è come se tu fossi mia da sempre, come se la prima volta che ci siamo incontrate, in realtà, non era la prima. –
- Infatti è così. – Mi confermò lei, stupendomi con la sua lungimiranza, quando la logica delle mie parole era inespugnabile perfino a me che le avevo concepite. - Svetlana, io e te siamo un’unica essenza. Aldilà di ogni legge raziocinante, aldilà dei nostri meri corpi, del qui e ora in cui siamo imprigionate come in un malefico torrione, oltre tutto ciò, ci siamo noi, libere ed eterne. Tu sei me e io sono te. Gli altri non potranno mai comprendere, forse neppure noi possiamo fino in fondo, ma a dispetto di ciò, percepiamo la potenza dell’amore che ci unisce. –
- Tu vuoi dire che siamo anime gemelle? –
- Beh, forse è proprio il concetto che gli esseri umani adoperano per definire questo sentimento. –
Giunsi le mie labbra alle sue, ancora una volta, con ardore e brivido, per sigillare in lei le mie emozioni.
- Mio Dio! Fate proprio sul serio voi due. – Commentò Valdamea uscendo dal camper. Non scorsi malizia tra le sue parole, né sgomento d’alcun genere, ciò mi rincuorò, poiché di rado c’imbattevamo in gente con l’animo libero da pedestri tabù. - A voi piacciono i cavalli? – Ci domandò, raggomitolandosi le braccia sul petto per non far disperdere il calore corporeo, mentre il vento martoriava il suo focolare viaggiante facendolo cigolare d’ogni parte.
- I cavalli? – Dissi, rimanendo stretta alla mia Astrel.
- Già. Il mio numero favorito è quello di Arkadij. Cinque indomiti destrieri bianchi come la neve che incombono fieri sulla pista, mentre una fragorosa ovazione li accoglie con stupore. Le luci sono soffuse e Arkadij si cala da un’altalena sorreggendo una fiaccola che arde. Poi si esibisce coi suoi cavalli in mirabolanti giochi accompagnati dalla musica. – Valdamea ci aveva avvinte alla sua narrazione, era come se avessimo assistito di persona allo spettacolo. - Il numero d’Arkadij è eccezionale, ma io credo che una sfumatura di colore non potrebbe che giovare alla sua performance, così, gli ho consigliato di presentarsi al pubblico in compagnia di due grintose amazzoni che arrivano in scena cavalcando due destrieri dal manto dorato. –
Astrel e io ammiccammo lasciandoci scappare una risata. - Deduco che le grintose amazzoni dovremmo essere noi. – Concluse Astrel, divertita all’idea.
La cartomante assentì col capo – Esattamente. Potreste unirvi a noi in questa tournee, e seguirci fino a Perm’, in fondo, non occorrono ch’issa quali doti acrobatiche per fare un giro di pista a cavallo. -
- No, facciamo un passo indietro. – La interruppi, dispiaciuta di smorzare il suo entusiasmo. – Ci sta cercando mezza Russia, come potremmo apparire innanzi a tutti quegli spettatori? –
- Mm… - Valdamea si dilungò in una riflessione, fremendo per congegnare qualche espediente. – Ci sono! – Esclamò galvanizzata – Curerò io i vostri abiti di scena, occorrerà farvi indossare una parrucca, ricoprirvi il volto di polvere argentata, e magari fornire anche a voi una torcia accesa, in modo che possiate entrare al buio e direzionare la luce della fiaccola verso il basso. Sì, mi sembra geniale. –

 

 




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